Psicoanalisi contro n. 18 – La via del riconoscimento

dicembre , 1985

Se ci volgiamo indietro e guardiamo la fuga degli anni, cercando di risalire col pensiero verso il momento della nascita, vediamo affollarsi ricordi, immagini, scene, colori, suoni, che si collocano su di una linea e che seguono una determinata successione. Scopriamo però anche frammenti di ricordi, non ben collocabili, che si -posano or qui or là, come foglie portate dal vento, che, per quanto ci sforziamo, non riusciamo a situare con precisione.
Possono anche essere molto vividi, ma restano fuori del tempo. Succede che non riusciamo a ricordare avvenimenti della settimana appena trascorsa, ma ricordiamo invece molto bene quello che avvenne tanto tempo fà in una primavera intensa, colma di avvenimenti. Quei giorni sono lì, intatti, ricordiamo i cibi, le bevande, i tramonti, le carezze. Così accade anche per i ricordi più remoti: alcuni sono netti, altri sono più annebbiati; poi ci sono i veri e propri vuoti di memoria. Tutto sommato, rimane l’impressione di una prospettiva sghemba, che si perde lontano, in una realtà indistinguibile.
Il dipanarsi della linea dei ricordi non corrisponde, infatti, a una prospettiva con un unico punto di fuga, ben preciso, che renda le cose a noi più vicine grandi ed evidenti e quelle più lontane negli anni rimpicciolite. I contorni sfumano. Laggiù, in quel periodo lontano che si addentra nella nostra prima infanzia, piccole immagini brulicano indistinte, come una realtà che resti però impenetrabile alla nostra conoscenza consapevole.

2.
Il mio primo ricordo risale a quando ero molto piccolo; non mi è mai stato raccontato; fui io, più tardi, a domandare se poteva veramente essermi accaduto un fatto simile; i miei famigliari non se ne ricordano, ma, dalla descrizione che io faccio dell’ambiente, lo situano nei primi mesi della mia vita, perché eravamo in montagna, in quella casa. Ero in braccio ad una mia zia e avevo attorno mio padre e mia madre; io, vestito di bianco, ero molto adirato e urlavo: mi avevano fatto un torto. La zia, per calmarmi, mi faceva guardare alcune figure colorate, forse dei santini. Fuori c’era il prato verde che declinava verso il fiume che brontolava spumeggiando, là in fondo; oltre c’erano le montagne del Piemonte. Credevo di ribellarmi a un’ingiustizia.
Quel primo ricordo resta più nitido di tutti gli altri, quasi ritagliato e circondato da una luce particolare. Sono ritornato ancora in quei luoghi, in case diverse da quella. Mi si affollano altri ricordi: ero ragazzo, con gli amici e sempre c’era la Stura laggiù, argentea e spumeggiante. Con la schiena appoggiata ai muretti, persi in lunghe discussioni, accalorate, su argomenti filosofici, ed io che, anche allora, volevo parlare dell’amore; forse perché volevo farlo e non ne avevo il coraggio. Poi una piccola chiesa, con una Madonna bianca e azzurra, dove un amico mi accompagnava a messa; e laggiù il fiume!
Eppure prevale quell’episodio accaduto quando avevo meno di un anno! Cosa c’è in esso di inventato da me? Direi nulla. Prima, è come se ci fosse solo ombra e affondare nell’utero, dove
s’erano incontrate due storie: quella di mio padre e quella di mia madre. Prima ancora, c’è la loro storia e la storia di molti altri: vedo gli anni dell’Ottocento che si snodano all’indietro, incontro Napoleone Bonaparte. A me è sempre stato simpatico Napoleone Primo; mi è invece profondamente antipatico Napoleone Terzo.

Il mio primo ricordo è di un gesto di ribellione, di rabbia; un gesto di aggressione e di difesa. L’aggressione è sempre anche una difesa; quindi già allora mi difendevo con la mia rabbia: il mio sadismo, e con quel pianto: il mio masochismo. L’uomo non si potrà dunque mai liberare dalle proprie difese, che lo stringono così fin dall’inizio?
Certo, oggi, non è possibile liberarsene; ma c’è qualcosa ancora prima della difesa: il desiderio.
Quando la persona incomincia a costruirsi? Da quando sono nate le concatenazioni dei messaggi genetici; quindi dalla creazione dell’uomo. Ma quando è sorto l’uomo? Questo è un problema che non mi interessa. Non è questione di anni o di millenni, o di migliaia di millenni. L’uomo che mi interessa è quello che c’è adesso. Sono io e gli altri che mi stanno intorno. Abbiamo incominciato, fin dal ventre materno ad orientarci in qualche modo nello spazio e nel tempo; provando sensazioni, desideri, paure; cercando subito di cogliere il mondo.
Ci sono due atteggiamenti che coinvolgono tutta la persona nel suo dirigersi verso l’altro; quell’altro senza il quale nessuno potrebbe veramente essere comprensibile: sono l’identificazione e la proiezione.
Quando si vuole chiarire un concetto, si cerca di ripercorrere la storia che lo ha formato; indagarne l’etimo può sembrare un modo di affrontare il problema dalle origini. L’etimologia è affascinante, talvolta è utile, ma spesso non dice molto. La storia di un concetto è complicata: i desideri, le situazioni sociali, l’uso linguistico, lo hanno via via modificato e la parola che oggi ci troviamo ad avere fra le mani è il frutto di molte stratificazioni successive. L’etimo è laggiù, lontano; di quale utilità ci può essere, per capire il concetto di identificazione, spingere la ricerca indietro, fino all’origine in idem, poi ancora id e l’em indeclinabile, eccetera?
Quando ci si serve di un termine d’uso comune, ci si accorge sempre che è presente nel linguaggio con più significati, che si sovrappongono e, spesso, si contraddicono. È perciò importante chiarire l’uso che si intende fare, sia del termine, sia del relativo concetto, per cercare di isolarlo dalle implicanze che non gli ineriscono. Il più delle volte, però, questa operazione aggiunge confusione a confusione, perché succede solo che la parola acquisisca per l’ennesima volta un significato diverso. Nonostante tutto, bisogna comunque operare perché la coerenza di un discorso venga mantenuta e le ambiguità ridotte al minimo.
Il termine «identificazione» ha una varietà di usi ampia e articolata; ma due sono le accezioni principali: 1) il riconoscimento di qualcosa o di qualcuno, per esempio: l’identificazione di un assassino, o di un oggetto; 2) l’accezione psicologica, che si rifà all’espressione «identificarsi» e che sta ad indicare quel processo psichico per cui una persona assume, parzialmente o totalmente, aspetti di un altro individuo.
Sebbene si ritrovi nella psicoanalisi anche il primo significato, io intendo usare questo termine solo nel suo significato di «identificarsi». Tutte le altre accezioni, se sono usate come concetti o sottoconcetti catalogabili, che esprimano atteggiamenti fondamentali della struttura psichica o del comportamento di una persona, rischiano di confondere troppo.

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Identificarsi è semplicemente ed unicamente questo: tentare di diventare simili a qualcun altro. L’intensità dell’identificazione può essere maggiore o minore: si può voler essere assolutamente l’altro, o semplicemente assimilare alcuni suoi comportamenti, in base al tipo di relazione stabilita. La gamma dei comportamenti di identificazione è infinita, come quasi infinite sono le possibilità dei gesti umani.
Qui si presentano due domande importanti: quando e perché si mette in moto l’identificazione con l’altro? Se noi risaliamo all’indietro nella nostra storia, fino ai primissimi ricordi dell’infanzia, ci accorgiamo della presenza costante di figure, interne ed esterne allo stesso tempo, che sono state per noi, anche, modelli. Non siamo però in grado di cogliere il momento in cui inizia l’identificazione con l’altro, né osservando, dall’esterno, i bambini, né fantasticando sulla loro vita intra-uterina. Possiamo solo supporre che, per cominciare a muoversi, un essere cerchi di appropriarsi di qualcosa del primo essere che percepisce; altrimenti sarebbe senza punti di riferimento. Attorno a questi punti di riferimento, la persona si costituisce e si costruisce.
Perché proprio l’identificazione ha questa caratteristica originaria? Perché l’essere umano non è del tutto dentro di sé, e neppure sparpagliato completamente fuori di sé. Egli costruisce il suo interno, cogliendo ciò che è intorno a lui. Un vecchio filosofo ha detto: «Il mondo è la mia rappresentazione». Rappresentazione, non illusione. Mia, non di un altro. La frase incomincia con: «il mondo è»; io riconosco che il mondo è, altrimenti non ci sarei neppure io. In questa circolarità si costituisce l’individualità umana, che è sempre unica e irripetibile; proprio perché ogni essere umano è un punto di vista unico sul mondo.

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L’altra attività umana che coinvolge tutta la persona e che ha caratteristiche originarie quanto l’identificazione è la «proiezione», costitutiva di ogni essere umano e che si esprime con l’attribuzione di caratteristiche proprie a altre cose o altre persone.
La psicoanalisi ne ha fatto soprattutto un meccanismo difensivo, attraverso il quale l’uomo cerca di proiettare all’esterno sentimenti e caratteristiche che gli sono propri, ma sgraditi, in modo di poterli poi ritrovare negli altri: «Non sono io che odio lui; è lui che odia me». Questa è una manifestazione tipica del delirio di riferimento nella parafrenia o paranoia. Inoltre, per S. Freud, la proiezione è tipica dei bambini e dei selvaggi, i quali animano le cose inanimate, perché non concepiscono di avere intorno a loro creature senza anima: sono infatti solo capaci di immaginare esseri a loro simili, con intenzioni, volontà e desideri. Così fanno i bambini e lo stesso fanno i selvaggi, esprimendo le loro religioni animistiche.
Io credo che vedere la proiezione soprattutto come un meccanismo difensivo – psicotico o non, – o come attività propria solo di alcune categorie di persone, rappresenti una proiezione difensiva degli psicoanalisti stessi. Nella loro ansia nevrotica di voler distinguere il normale dall’anormale, il meno perfetto e strutturato dal più perfetto e strutturato, nel delirio di onnipotenza che li rende assolutamente convinti di essere i più sani, strutturati e perfetti, essi hanno proiettato fuori di loro il meccanismo della proiezione, ritrovandola poi nei paranoici, nei bambini e nei selvaggi.
Io non nego che la proiezione sia usata anche per difesa: nessuno infatti accetta di essere tutto quello che è. Quotidianamente tutti proiettano sugli altri sentimenti che stanno sorgendo in loro; ma che non vogliono riconoscere e da cui sperano di liberarsi buttandoli al di fuori. Quanto più è misconosciuto, rifiutato e inconsapevole il sentimento che neghiamo in noi, tanto più la condanna dello stesso sentimento, attribuito all’altro, sarà rabbiosa e ricattatoria. Fino a giungere a vere e proprie situazioni di delirio, in cui gli altri non sono più percepiti, o sono percepiti in modo profondamente distorto.
La proiezione è originaria, come l’identificazione. Che anch’essa possa essere patologica e usata difensivamente è possibile; ma nessuno può fare a meno di proiettare all’esterno qualcosa di sé. Tutti gli esseri umani animano le cose: è assolutamente impossibile pensare che quello che ci sta intorno sia del tutto inanimato. La materia bruta – il più basso grado della realtà, secondo molti filosofi – è un’astrazione: la possiamo pronunciare, ma non la possiamo pensare. Possiamo dire di credere che esista, però, con ogni nostro gesto e col nostro atteggiamento psichico, neghiamo questa nostra affermazione.
Alcuni filosofi, scienziati e psicologi, hanno affermato che tutto è realmente animato e che la non vita non esiste. La non vita coincide con il non essere. Ciò che è, è vivente: avrà forme di vita diverse; ma vive. Anche il sasso ha vita, non solo perché le parti di cui è costituito sono in continuo movimento, ma perché percepisce, sente, reagisce. Riconosco che questa è per me una teoria quanto mai affascinante; ma non voglio ora cercare di provarne la validità. Mi basta affermare che essa si basa sull’impossibilità che gli esseri umani hanno di non proiettare. Noi ci sentiamo animati e non possiamo che vivere in un mondo animato. Questa è la prima proiezione, non so se dietro ci sia la verità.

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Come per il processo di identificazione, non siamo in grado di stabilire il momento in cui abbiamo incominciato a proiettare. La proiezione sorge dal bisogno di sentire tutto vivo e capace di risposta come noi, poiché il terrore più antico è quello della solitudine. Fin dal ventre di nostra madre, noi vogliamo essere ascoltati, vogliamo che ciò che ci sta intorno ci risponda e sia attento a noi, come noi siamo attenti ad esso. Da sempre, io amo e voglio essere riamato e proietto questo mio desiderio sull’altro; così è per l’odio e per tanti altri sentimenti.
Identificazione e proiezione: una trama sottile di fili tesse il rapporto tra la nostra persona e il mondo che la va costruendo. Ora posso capovolgere la frase del vecchio filosofo, dicendo: «Il mondo è la sua rappresentazione».
Il termine proiezione ha una molteplicità di significati in campi anche molto lontani dalla psicologia, come la geometria e l’ottica; ha poi ancora altri significati, in neurologia e in psichiatria.
C’è un particolare tipo di proiezione, per cui si proiettano su di un altro – l’analista, per esempio – caratteristiche di persone che hanno avuto per noi un significato particolare – i genitori, per esempio -. Questo meccanismo, la psicoanalisi lo ha chiamato «transfert». Io sono molto indeciso se considerare il transfert un aspetto della proiezione, o invece, date le sue caratteristiche peculiari e universali, ritenerlo piuttosto, per chiarezza metodologica, un comportamento autonomo e isolabile.
Il transfert non si realizza soltanto nel rapporto psicoterapeutico. Indubbiamente, per le particolari caratteristiche della terapia – e specialmente della psicoterapia – è facilissimo sovrapporre alla persona che ci cura, immagini, a noi interne, di personaggi importanti del nostro passato e del nostro presente, e reagire come se fossimo veramente davanti a loro. Come ho più volte ripetuto, però, il transfert è un meccanismo costitutivo dell’orientarsi della persona nel mondo. È impossibile rapportarsi a chicchessia come se quella persona fosse soltanto quella persona lì: somiglianza oggettiva, fantasie interne e il momento particolare che stiamo vivendo, favoriscono questo gioco delle parti, per cui l’altro è anche un altro e un altro ancora.
L’altro fa lo stesso con noi. Inoltre, io proietto sull’altro parte di me e forse mi identifico con lui; che, a sua volta, proietta su di me, parti di sé e, forse, si identifica con me.
Ho qui distinto tre concetti fondamentali per la costruzione della persona: l’identificazione, la proiezione e il transfert. Questi tre concetti mi sembrano sufficientemente definiti e mi pare anche abbastanza chiaro quanto sia ricco l’uso che l’uomo ne può fare. Ciò nonostante mi sono trovato tra le mani una matassa di fili eccezionalmente ingarbugliata. Se buttiamo lo sguardo più a fondo, ecco che vediamo come il transfert sia sempre biunivoco, si intrecci e forse coincida con la proiezione, la quale, a sua volta, si intreccia con l’identificazione. Per non rimanere impaniati in distinzioni e sottodistinzioni, è bene operare sul minor numero possibile di concetti, sperando di raggiungere il massimo della chiarezza.

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Identificarsi con l’altro può significare molte cose. Ho detto che non è possibile non identificarsi con qualcuno, perché la persona si costituisce proprio attraverso successive identificazioni. Le ragioni e le situazioni possono però essere molto diverse: alcune sono sane, altre sono malate. Identificazione sana è voler essere come l’altra persona per impulso amoroso. Se non è provocata da Eros, l’identificazione può avere caratteristiche non solo semplicemente difensive, ma addirittura espropriatrici, distruttive. La logora frase: «Voglio essere me stesso» non ha significato; è meglio sostituirla con: «Voglio essere una persona felice, che si piace, e che ha sufficiente rispetto di sé». Io so di essermi costituito attraverso una serie di identificazioni con gli altri; quindi come posso dire che voglio essere me stesso, quando il me stesso è fatto di tante identificazioni? L’identificazione è per lo più inconsapevole, ma ciò non toglie che possa ugualmente essere sana. L’innamorato vuole; ed io soggiungo: deve volere, essere simile all’amato. È giusto riconoscere la diversità e l’unicità di ciascuno, non bisogna distogliere lo sguardo quando si presentano conflitti; ma se io amo, quindi stimo, rispetto e desidero un altro, è perché, per me, qualcosa di questo altro ha valore; se ha valore, è non solo comprensibile, ma giusto, che io lo voglia imitare, in quegli aspetti che. me lo hanno reso amabile .e stimabile. Per essere amabile e stimabile ai suoi occhi, ma anche ai miei. Per essere me stesso in questo senso: cioè felice e in pace.
L’identificazione sana io la chiamo «imitazione». Troppi imbecilli castrati, quando vedono una persona amare un altro, stimarlo e ammirarlo e cercare di essere simile a lui, si lacerano le vesti e urlano: al plagio! al plagio! Ci possono essere, senza dubbio, comportamenti che imitano l’altro troppo inconsapevolmente o che sono imposti con la violenza. L’eccessiva inconsapevolezza e la violenza non sono ammissibili; ma, imitare la persona amata ed essere da essa imitati, non solo non è plagio, ma è il punto massimo della salute. Soltanto persone, troppo meschine e troppo stupide per potersi innamorare davvero, hanno paura del plagio e lo vedono dovunque. Lo vedono soprattutto dove c’è amore; lividi nella loro invidia di esclusi. Io voglio essere come l’altro, con allegria, con gioia. Proprio perché imito l’altro, scopro in me nuove possibilità. Lui ama la musica, io non la conoscevo: lentamente mi metto ad ascoltarla; lui ama il buon vino: ne scopro il sapore anch’io; mi fa conoscere nuove strade dell’amore, strade che io non avevo il coraggio di percorrere: mi sento più ricco. Mi trovo entusiasta e felice.
Vi è anche un’identificazione malata. Io la chiamo «parodia». Parà odé, simile a un canto, ma che non è quel canto: lo ricorda, ma lo schernisce. Non necessariamente la identificazione malata, o parodia, è consapevole; anzi, per lo più, non lo è. Spesso si fonda sull’invidia: essere come lui, per avere quello che ha lui, lo stesso successo che ha lui. Nell’imitazione è necessario anche lo sforzo: non si può pretendere che le cose vengano necessariamente così, con leggerezza; spesso ci vuole attenzione e impegno, studio e consapevolezza e sempre, nel fondo, ci deve essere appagamento, senza espropriazione dell’altro.
La parodia, invece, ripete i gesti degli altri, svilendoli. Gesti che diventano ridicoli in persone che ad essi rimangono estranee, senza capire, irrigidite in rituali grotteschi. Costoro non si possono certo dire plagiati; anzi: umiliano il loro ideale, cercando di rubare, non nel tentativo di raggiungerlo; ma per sovrapporsi a lui, per usurpare.
Ci si può identificare anche per paura; è una difesa volersi appropriare della violenza dell’altro per esorcizzarla: ed ecco il debole, che trema davanti al più forte; ma che si comporta brutalmente nei confronti di chi percepisce come più debole di sé. Una parodia squallida e triste, che vediamo rappresentata ogni giorno: negli uffici, sugli autobus, nei mercati e nelle chiese. Talvolta è addirittura la parodia di una parodia: omuncoli si atteggiano a potenti, prevaricando con una spietatezza, che i potenti raramente conoscono. Lo stesso può accadere nel rapporto educativo: il bambino fa la parodia del genitore più temuto; oppresso da gesti di viltà e di violenza, li ripete, confermandosi in una tragica parodia.

7.
Ho detto che la proiezione è un meccanismo originario e ineliminabile; ho detto inoltre che può essere usata come difesa. C’è – anche in questo caso – una proiezione sana e una proiezione malata. La proiezione sana voglio chiamarla: «simpatia», sentire insieme. Non soltanto soffrire o godere, ma sentire. Se desidero profondamente che un altro senta quello che sento io, lo invito, proiettando su di lui alcuni miei sentimenti, e forse mi illudo che mi ricambi: «Amor cha nullo amato amar perdona… ».
«Io desidero essere amato, dico che tu un po’ mi ami; forse così incomincerai ad amarmi». La proiezione simpatetica è l’inizio di ogni conoscenza; proietto: voglio trovare sentimenti miei negli altri e nelle cose. Questi sentimenti mi vengono ributtati addosso: io li accolgo, mi lascio andare, senza irrigidimenti. Capisco l’altro perché è simile a me; colgo però, anche, la sua diversità. Ho cominciato a sentirlo simile e dissimile, perché così volevo che fosse.
È un gioco impercettibile, ma continuo. Immediatamente dò qualcosa di me a chi mi sta di fronte e lui mi dà qualcosa di sé e in questo scambio ci avviciniamo. Lo stesso accade in quel tipo di proiezione che è detto transfert e che ha sue caratteristiche autonome: se non ci fosse una continua sovrapposizione di una persona su di un’altra non scatterebbero moltissimi motivi di interesse. Uno sguardo mi affascina perché mi ricorda un altro sguardo.
C’è anche la proiezione malata, quella che io chiamo «negazione» dell’altro, la quale è profondamente violenta ed espropriatrice. Io proietto sull’altro desideri inconsci che non ho il coraggio di riconoscere in me. Ho paura di amare e allora proietto il mio desiderio d’amore sugli altri. Mi basta un sorriso gentile o una frase non indifferente per credere di essere concupito; dico di sentirmi molestato dal desiderio sessuale dell’altro, giro, tronfio e ridicolo, con la convinzione che tutti siano innamorati di me e persuaso di dovermi difendere, non si sa bene da cosa.
Poi c’è la proiezione sugli altri dei nostri difetti: l’avaro vede intorno a sé tutti avari, il vile tutti vili. Spesso si ride dei froci senza rendersi conto del proprio sculettare e vezzeggiare come la più tenera delle checche. E così via, fino a giungere a considerare gli altri soltanto stampelle alle quali appendere i nostri fantasmi.

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La persona umana si costruisce quindi attraverso l’identificazione con l’altro e la proiezione; inoltre, abbiamo un’identificazione sana, guidata da Eros, che ho chiamato «imitazione» e l’altra, malata, che ho chiamato «parodia». Così per la proiezione: quella sana o «simpatia» e quella malata o «negazione» dell’altro.
A questo punto, sorge un ulteriore problema: le identificazioni e le proiezioni, siano esse sane o malate, chiudono l’uomo in un mondo di illusioni; la realtà è allora irraggiungibile? Io penso che la conoscenza piena della realtà, cioè il possesso della verità completa, non sia una possibilità umana. La verità però non è altrove: è oltre. Se fosse altrove, l’uomo non potrebbe avere nessun contatto con essa; ma, se è oltre, è possibile, parzialmente, raggiungerla.
Il mondo, gli altri, entrano in noi attraverso l’identificazione e la proiezione e allo stesso modo noi veniamo a contatto col mondo. Tutto è mosso dal desiderio; ma il desiderio non si accontenta di illusioni; il desiderio vuole la realtà; che è presente e nascosta, che si manifesta e si cela. Perciò, all’identificazione e alla proiezione, bisogna aggiungere il «riconoscimento»: l’altro da noi deve essere riconosciuto. Soltanto Eros ci può guidare per questa strada ed insegnarci a riconoscere l’altro, che deve essere percepito o conosciuto in un abbandono senza smarrimento. L’altro da noi deve comunicarci qualcosa di sé, del suo presente e del suo passato, e noi, nel riconoscerlo, riconoscenti, ci abbandoniamo a lui, senza paura.