Archivio di febbraio 1985

Psicoanalisi contro n. 10 – Il cuore di Achille

venerdì, 1 febbraio 1985

È ormai diventata classica, nei confronti della salute mentale, la divisione in tre grandi classi, per cui vi sono i sani di mente, i nevrotici e, infine, gli psicotici. Sani sarebbero coloro che sono sufficientemente integrati nell’ambiente e nella società in cui vivono; che riescono ad espletare le loro mansioni con equilibrio, che non hanno inibizioni troppo gravi, tali da bloccare le principali attività psicofisiche; i cui sentimenti sono espressi con adeguatezza; le cui emozioni non sono mai incontrollabili; per i quali la sofferenza per una perdita dura il tempo giusto e viene poi superata, potremmo dire: smaltita; e che eccedono soltanto fin dove è permesso; il cui linguaggio è sufficientemente articolato; che comprendono il mondo e gli altri e sono in grado di farsi comprendere. In costoro la tristezza non diviene mai lugubre inerzia e l’allegria non si trasforma mai in gesti scomposti e in attività sfrenate, pericolose e inconcludenti. Persone che hanno paura fin dove è lecito aver paura; gente che non è terrorizzata dalle malattie o dalla morte; che fa l’amore seguendo le regole prescritte.

Tante altre caratteristiche si potrebbero descrivere di questo tipo di persona, considerata sana di mente.
Poi ci sono i nevrotici. La malattia può essere più o meno grave, i disturbi del comportamento rendono però il nevrotico meno comprensibile dell’individuo «sano». Gli altri lo capiscono poco ed egli stesso non si capisce molto: si sente oppresso da comandi che gli impongono una vita di sofferenza, da idee e fantasie ossessive; gesti cui non gli è possibile rinunciare e dei quali percepisce però la pesante inutilità rattrappiscono la sua vita, rendendola faticosa.
È affetto da disturbi della nutrizione, paure e improvvise e immotivate, timore di affrontare gli altri, difficoltà nei rapporti sessuali, senso di catastrofe imminente. Ha l’impressione di vivere sempre in un sogno. Improvvisamente ha il terrore di compiere un gesto assurdo: buttarsi da una finestra, mettersi ad urlare nel mezzo di una rappresentazione teatrale, mentre tutti gli altri sono silenziosi e attenti; di ferire con un coltello la persona amata. Non ha il coraggio di andare in automobile, di attraversare la strada, di prendere l’ascensore.

Questa prigionia viene chiamata nevrosi.
Quando la sensazione di sentirsi separati dal mondo aumenta, quando si ha la sensazione di vivere come in un sogno e tutto si distorce, parlare diventa difficile, gli altri non capiscono più perché sono tutti persecutori e bisogna dare un volto a chi perseguita e ricostruire i meccanismi della persecuzione; quando i fantasmi acquistano realtà, parlano, si possono vedere e toccare, sono lì per aggredire e per essere aggrediti; quando bisognerà punire qualcuno, il mondo; allora abbiamo la psicosi. Ogni psicosi è diversa dalle altre, ma per piccoli particolari; per lo più, la follia è caratterizzata da un monotono ripresentarsi degli stessi sintomi. Chi ha detto che il folle è uno stravagante? Chi ha detto che la follia è ribellione ed esplodente originalità? La follia è monotona, ripetitiva. I folli conoscono tre o quattro copioni e vi si calano, con il desiderio di distruggere, di ferire.

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Già alla fine dell’ottocento, la ricerca psicoanalitica ha scompigliato un poco queste carte, con una saggezza fin troppo carica di buon senso. Se, da un lato, è la psicoanalisi stessa che ha contribuito a fondare questa tripartizione, dall’altro, la psicoanalisi ha mostrato, più che dimostrato, come nella vita quotidiana esista una «psicopatologia» non dissimile da quella delle nevrosi o addirittura della follia.
I lapsus e gli atti mancati sono gesti incomprensibili, che hanno tutta la carica inquietante dei gesti assurdi dei nevrotici. E poi i sogni, gli smarrimenti improvvisi. Come si può ancora dire: fin qui si è normali, di qui a là si è nevrotici e poi psicotici?
La psicologia, la psicoanalisi e la psichiatria procedono su questi due binari: da un lato, vi è la distinzione metodologica tra lo stato di salute mentale e la nevrosi e la psicosi; dall’altro, la convinzione che quella della salute mentale sia solo un’ipotesi.
I meccanismi della psiche sono cosi ricchi e articolati che è troppo difficile riuscire a determinare con esattezza quando sono sani e quando sono malati. Rimangono, certo, le manifestazioni macroscopiche; rimane soprattutto la sofferenza; ma la sofferenza di dove viene? Di dentro o di fuori? Senza dubbio, non soltanto di dentro: le angosce, le paure, i fantasmi, i rituali, sorgono dal nostro inconscio; ma noi siamo il frutto di un mondo. Noi siamo prigionieri di tali e tanti condizionamenti che tutto ciò che sembra nascosto negli abissi della persona era un tempo fuori, attorno. Nessuno si fa da sé; ognuno di noi è costruito, lentamente, da un mondo che, a sua volta, è stato costruito da qualcosa di esterno, e così via, non voglio dire all’infinito, ma dico: così via…

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Sono ormai due secoli che, con ostinata costanza, compaiono ricerche scientifiche che fanno coincidere la struttura psichica con quella del sistema nervoso centrale. Alla fine dell’ottocento addirittura J. Moleschott e O. Vogt avevano sostenuto che l’uomo è solo ciò che mangia, che il genio è una questione di fosforo e che il cervello secerne pensiero come il rene secerne urina.
Dal 1600 fino all’inizio del nostro secolo, la medicina ha cercato, talvolta con maniacale ossessività, di dividere l’essere umano in apparati. La persona sarebbe, perciò, il risultato di una serie di meccanismi quasi indipendenti, incastrati gli uni negli altri. Non è mai stato detto esplicitamente che l’apparato cardiocircolatorio sia una struttura autonoma da quello respiratorio, anzi se ne son sempre messe in evidenza le interdipendenze, però l’atteggiamento è stato quello di considerarli autonomi. Queste organizzazioni meccaniche, dotate di un centro, di una periferia e di una teleologia, dovrebbero essere studiate e, quando si inceppano, reintegrate nella loro funzionalità da specialisti. Ecco la distinzione tra medico e specialista: il primo, lentamente, ha perso di significato: il laboratorio di analisi e lo specialista lo hanno infatti espropriato di ogni funzione. Forse a far ciò hanno contribuito anche gli organismi mutualistici, ma questo è un altro discorso.

Oggi il cosiddetto medico generico è colui che fa certificati per giustificare l’assenza dal lavoro, avalla, con la sua firma su di un foglietto, i medicamenti che il paziente si prescrive da sé; spesso è assolutamente disorientato di fronte alla sintomatologia che gli si presenta, perciò il suo compito si riduce alla prescrizione di analisi di laboratorio o al rinvio ad uno specialista.
Anche la figura dello specialista sta perdendo di significato, costretto sempre più frequentemente a ricorrere alle «analisi obiettive» del laboratorio. Le macchine messe a punto dall’ingegneria medica sono senza dubbio più sensibili degli organi di senso del più esperto e maturo dei clinici. L’occhio che scruta, la mano che palpa sono strumenti ingenui e ridicoli, oltre che imprecisi, al confronto con sofisticate apparecchiature artificiali, che non solo sono assai più sensibili, ma sono anche immuni dall’approssimazione dell’emotività. Così, fatta la diagnosi, basta sfogliare un prontuario in cui stanno le indicazioni, con pochi e chiari parametri e discriminanti, come età e sesso, che permettono di trovare il farmaco adatto, la giusta posologia e annesse statistiche e prognosi. Tutto questo è un po’ fantascientifico, ma lentamente, nel medico, avanza il processo di sfiducia nella propria scienza.
La vera causa delle malattie è, per lo più, sconosciuta; se ne conoscono le cause seconde, terze e quarte. Scoprire la causa prima delle malattie vorrebbe dire scoprire la causa della salute; e la causa della salute affonda nel significato della vita dell’uomo e non solo: nel significato di tutto ciò che vive, ma tutto ciò che vive è tutto ciò che è.
Ecco il ritorno della metafisica. Proprio per questo alcuni preferiscono curarsi con le cosiddette medicine alternative: c’è chi strilla contro gli antibiotici e sorbisce tisane all’impazzata; c’è chi legge nel corso delle stelle e non mangia carni. Altri fanno cose diverse, scelgono metodi di cura stravaganti ed esotici.

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Come, ho detto, la medicina delle università occidentali ha ormai diviso l’essere umano in tante sottostrutture che si reggono ad incastro. La psicoanalisi, dopo aver tentato anch’essa di far coincidere il funzionamento psichico col funzionamento neuronale, ha abbandonato questa strada e ha parlato di apparato psichico; ma senza cambiare atteggiamento: solo aggiungendo un apparato in più, con una sua struttura, un suo centro e una periferia; apparato che ha il suo funzionamento e quindi anche i suoi guasti.
Una gran parte di questo apparato funziona entro il mistero dell’inconscio, il quale, nel suo profondo è radicato al soma.

La psiche, così organizzata, è sbalorditivamente simile all’anima di cui parlavano gli antichi filosofi e di cui parlano molte religioni. La psicoanalisi, scaltramente, ha avuto il buon gusto di non riparlare della glandola pineale; ma Renato Descartes viveva nel Seicento, secolo scientificamente più spudorato, quando si cercava di andare fino in fondo alle cose, anche a costo di dire qualche sciocchezza.
La psicoanalisi ha poi parlato di psicosomatica. Dapprima scoprì le cosiddette «conversioni isteriche»: la funzionalità di un organo viene disturbata da fattori psichici; ecco l’improvvisa cecità, l’anestesia di un arto, un dolore lancinante, come un chiodo piantato nella testa, una ipersensibilità della cute, pruriti, arrossamenti. L’organismo non pare realmente malato, tutto dovrebbe funzionare, eppure l’isterico dice di non vedere più, o di avere perso la sensibilità ad un braccio, o di sentire un chiodo conficcato in mezzo al capo. È la psiche che, attraverso la compiacenza somatica, parla.
Si è andati poi oltre: la psiche influenzerebbe il sistema nervoso centrale. Il sistema nervoso centrale, quello periferico e tutti gli altri organi possono essere disturbati nel loro funzionamento da questa misteriosa entità chiamata psiche e, più ancora, da questa misteriosissima sua parte detta inconscio. La psiche però non solo può alterare la funzionalità di un organo, ma può anche far sì che esso realmente si ammali.
Queste sarebbero le cosiddette malattie psicosomatiche.

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Lentamente, l’essere umano che era stato diviso in tanti apparati, interdipendenti, ma autonomi, riconquista la sua antica dicotomia: anima e corpo, psiche e soma. È il trionfo del Dottor Angelico, Tommaso d’Aquino.
La psicosomatica divide l’uomo in due: l’anima e il corpo. Alcune malattie sono causate dall’anima; ma chi fa ammalare l’anima?
A questo punto bisognerebbe parlare del demonio. Ritorna il problema del libero arbitrio: a Tommaso si contrappone Martin Lutero.
Ma queste sono storie che abbiamo già sentito; storie che non tramontano mai. Tutto è quindi soltanto una ripetizione? Può darsi; ma ogni ripetizione è anche sempre una novità. Ben lo sanno i musicisti che la seconda volta che un’idea musicale ricompare in un brano, anche quando è assolutamente identica, per il solo fatto di comparire per la seconda volta, acquista significati profondamente diversi; il perché lo si ignora, ma è diversa per il semplice fatto di essere ripetuta.
Quello che ritorna è sempre un po’ diverso. Gli essere umani ripetono spesso cose già dette, sforzandosi di farle apparire cose nuove e originali: queste sono anche leggi di mercato.
Anch’io ripeto cose vecchie di millenni e cerco, con astuzia e con ingenuità, di dar loro nuovo smalto, per renderle più luccicanti.
La scienza non è altro che un’industria di lustrini?

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La psicosomatica, così come viene grossolanamente divulgata, ha diviso nuovamente l’uomo in due; ma questa divisione potremmo anche leggerla come un tentativo di riunificare ciò che era stato sparso e parcellizzato. La macchina uomo, dopo essere stata divisa in sottostrutture meccaniche che la compongono, lentamente, si va ricostituendo. Di nuovo, l’essere umano ha soltanto più due parti: la psiche e il soma. Si potrà andare oltre? Si potrà finalmente riprendere la strada dove l’aveva interrotta la ricerca platonica?
Al pensiero ellenico ripugnava la divisione tra anima e corpo. Platone è lo Zenone della Grecia intera: portando alle estreme conseguenze la dicotomia anima﷓corpo è riuscito a farne vedere l’inconciliabile contraddizione.
Tutta la cultura greca precedente aveva negato di fatto che il corpo fosse qualcosa di distinto dall’anima, o, peggio ancora, di inferiore. L’uomo è questo: questi occhi, questa bocca, questi genitali, questi capelli e questi pensieri.
Platone prima, nel Parmenide, rende assurda la trascendenza, poi, nel Timeo, la nega. Il mondo è chiuso in se stesso, ripiegato in un cerchio magico. Di lì saremmo dovuti partire, di lì siamo partiti; ma forse è stata presa la strada sbagliata. O almeno non è stata presa la strada che io avrei voluto che il mondo prendesse.
Pur se m’accorgo di essere ridicolo, nella mia convinzione di sapere quale avrebbe dovuto essere la strada giusta, sta di fatto che io ritengo di dover ricominciare di là e quindi mi ribello alla grossolana distinzione tra psiche e soma.

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Io sono io. Io sono il mio corpo e la mia anima, la mia anima e il mio corpo. Questo non è un discorso teologico. Non parlo della sopravvivenza, sono certo comunque che finché si sopravvive si sopravvive tutti interi. Cosa vuol dire tutti interi? Vuol dire tutti interi: quello che è è intero. Non è il corpo che muore, se mai è una parte del corpo; ma noi tutti interi, se sopravviviamo, sopravviviamo.
Questo è un atteggiamento teorico. Praticamente quali conseguenze potrebbe avere? Potrebbe avere due esiti negativi: il primo, di portare all’assoluta paralisi della ricerca. Se l’essere umano è una totalità, non divisibile in parti, l’essere umano è quello che è. Poiché descrivere è sempre dividere in parti, curare è sempre dividere la parte sana da quella malata. La scienza, per capire, deve quindi necessariamente dividere; se non vuole dividere, rinuncia a capire: l’uomo le sta lì, di fronte. Lo scienziato stesso è, dentro di sé, uno e immobile, del tutto impenetrabile ad ogni possibilità di cura. L’altro esito negativo è quello che mi porta, dopo questa bella petizione di principio, ad accettare che tutto di fatto rimanga come prima, poiché non so cosa fare di diverso non potendo cancellare con un gesto di volontà millenni di separazione anima﷓corpo. Si dice che l’essere umano è uno e deve essere uno; ma poi, quando si interviene, si interviene come se esistesse la psiche con le malattie psichiche, il corpo con le malattie che derivano da un disagio psichico e poi tante parti del corpo con malattie soltanto organiche. Io spero però che ci sia una terza possibilità, che non è ancora quella che ha come esito il capovolgimento dei criteri operativi. Oggi, bisogna riconoscerlo, non abbiamo né i parametri sufficienti per comprendere un così radicale capovolgimento, né strumenti tecnici sufficientemente raffinati. Quella petizione di principio deve rimanere come un punto di partenza per la ricerca. Bisogna, lentamente, mutare gli stessi presupposti della logica su cui si fonda la descrizione dell’uomo. L’uomo è anche la descrizione che se ne fà, ed è questo uomo che inventa questa sua descrizione. La metafisica è sempre in agguato: è fondamentale però non averne paura. Uno scienziato che abbia paura della metafisica è uno scienziato vile. La scienza non ha bisogno di vigliacchi, questi servono soltanto a ripetere slogan o formulette.
Lo scienziato vile si arrocca sulle definizioni tradizionali che lui chiama scienza sperimentale.

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Non è più il caso di ripercorrere il tragitto per cui nella coscienza occidentale si sono strutturati il concetto di anima e il concetto di corpo. È una storia inestricabile, che si perde lontano, dietro le nostre spalle. Io, però, mi sento sempre due; e, se io mi sento due, penso che così si sentano anche gli altri. L’autocoscienza è il momento massimo della nostra duplicità: io che percepisco me. Quando pronuncio il pronome Io, a che cosa penso? E se dovessi situare questa paroletta, dove localizzerei il suono Io? In un punto. In un punto in mezzo alla testa. Anche per gli altri è così? Non lo so. Tutti gli altri, presenti e passati, non li conosco e non li ho conosciuti. Io che penso a me. Il mio nome che cos’è? Il mio piede o la mia mano? Mia: io sono la mia mano o la mia mano è mia? Se io sono tutto intero, io sono la mia mano, o, almeno, anche la mia mano. Se io penso alla mia mano, la mia mano è mia e non è l’Io. Il mio Io è in un punto, è un punto. Quante parti di me io posso perdere rimanendo Io? Io mi sarò perso del tutto quando avrò perso la vita. I miei capelli sono i miei capelli e quando, dal barbiere cadono, prima sull’asciugamani che mi sta sulle spalle e poi in terra, è una parte di me che se ne va? Io sono meno Io? Il mio Io si è rimpicciolito, si è impoverito? La mia bocca: io pronuncio Io con una vibrazione che ruota in questa cavità, sonoramente, ed esce; gli altri la sentono, ma anche io sento dentro il mio Io. Dentro il mio Io. Ma: Io è un punto, un punto piccolissimo, il punto geometrico, senza dimensione? No e sì allo stesso tempo. No, perché ciò che non ha dimensione non esiste. Io dico: tutto deve avere una dimensione, almeno mentale.

Ecco perché il nulla non è pensabile: perché non ha una dimensione. Ciò che non è pensabile non esiste? Per l’essere umano no. Non vuol dire che non esista in assoluto, ma è come se.
Io quindi ha una dimensione; ma, se lo penso con una dimensione, è composto di parti. È quindi un corpo che sta dentro all’Io ed è circondato dall’Io che è il corpo di questo Io, che non è l’Io. Ma, allora, il corpo non è mai l’Io. Eppure io voglio essere Io dalla testa ai piedi, non voglio che i miei capelli non siano Io. Anche se cadono addirittura, mi lasciano, indipendentemente dalla mia volontà. Oh con quanto mio dispiacere! Gli antichi greci non avevano operato, forse, questa distinzione così precisa tra anima e corpo, soprattutto nelle epoche più antiche. L’uomo dei poemi omerici parlava con se stesso, con i vari se stesso. Achille parlava al suo cuore: «Stai zitto cuore…». Lui e il suo cuore. E così agli altri organi. Era più intero perché era più spezzettato; ma questo spezzettamento non era la rigida strutturazione in apparati che ha poi fatto la medicina positivistica.
L’antico greco parlava con se stesso, il suo cuore gli rispondeva; ma soltanto perché lui lo pensava; pensava al suo cuore e il suo cuore era lì: «Cuore frena i battiti; cuore calma la tua ira». Chi era più potente: l’Io o il cuore? Dove era l’Io? L’Io parlava e si confrontava con altre parti di se stesso. Ecco un modo di non essere spezzato in due: diviso in tante parti viventi, talora estranee, ricche della ricchezza dell’inconscio.

L’uomo greco era proprio così?
Non è facile entrare dentro le fantasie e le sensazioni di persone vissute molti anni prima di noi, molti secoli. Però è anche possibile, poiché noi ne siamo i figli. Noi pensiamo così anche perché loro pensarono in quel modo. Ne consegue che il punto massimo della mia interezza è il momento massimo della mia inconsapevolezza: non essere presente a me stesso; quindi essere strumento di altri. Tutta la mia persona pulsa e vive, ma non sa di se stessa e siccome il mondo continua a ruotarle intorno, a incontrarsi e a scontrarsi con essa, la mia persona è totalmente preda. Io non credo che sia una buona condizione l’essere preda. È importante lasciarsi andare; è importante non irrigidirsi nella frigidità; anzi: non solo è importante, è fondamentale. È altrettanto importante e fondamentale essere e sapere di essere: cogliere l’Io che coglie l’Io.

È impossibile essere totalmente uno: solo l’alienazione o la stupidità fanno sì che l’Io smarrisca se stesso. Io, orgoglioso della mia cultura occidentale, non voglio smarrirmi, non voglio annullarmi. Io voglio sapere di me, conoscermi, parlare con me. Preferisco non evitare il problema. So di sentirmi almeno due: Io e me. Però voglio anche essere uno. Forse, la mia unità riuscirò a trovarla quando saprò sufficientemente abbandonarmi agli altri.

10 – Febbraio ‘85

venerdì, 1 febbraio 1985

In via delle Coppelle, al numero 5, c’è un ristorante dall’aria insolita, Quinzi e Gabrieli cui si accede per una porta che dà su una specie di vestibolo; a destra e a sinistra ci sono due ampie sale dai grandi finestroni aperti nelle mura spesse e dagli alti soffitti. Le sale sono con le pareti dipinte a dare un’illusione di terrazze aperte sul mare. I cuochi lavorano, bene in vista, al di là di un basso muretto. Appena seduti al tavolo ci si sente a proprio agio, il servizio è simpatico e cordiale, un po’ ammiccante, senza nulla dello stile impettito o freddo di certi camerieri. Un’ampia scelta di bottiglie si può vedere, dietro la tenda, sui ripiani immensi dei finestroni, vini di pregio e vini intelligenti. Siamo convinti che, in un ristorante, ciò che si beve non sia meno importante di ciò che si mangia; eppure molti ristoratori non hanno ancora voluto capirlo, perciò accade troppo spesso che a piatti magari preparati con perizia vengano accostati vini inqualificabili e senza alcun rapporto col tipo di cucina. Qui ciò non accade.

Prima di tutto bisogna dire che questo è un ristorante di pesce, davvero freschissimo, di ottima qualità, servito in porzioni abbondanti (e questo è davvero un miracolo). Si può iniziare con ostriche e tartufi di mare, profumati e gustosi; la scelta dei primi comprende un buon risotto del pescatore, ben cotto, con i sapori tutti amalgamati, saporito; dei buoni, se pure un po’ esili, spaghetti alle vongole e datteri, o con scampi e gamberetti. Tra i secondi, tutti eccellenti, una superba triglia al pomodoro, che troneggia nel piatto turgida e carnosa; scampi e mazzancolle grigliati con sapiente maestria. Una sorpresa gradita il profiterol al cioccolato (si dice che sia fatto in casa e potrebbe essere anche vero): saporito e denso al punto giusto il cioccolato, sottile e croccante la pasta dei croque en bouche. Ben serviti, appropriati ed eccellenti un Cartizze Canevel ed il Sauvignon di Rocca Bernarda. Un particolare che depone a favore della classe del locale ci pare giusto renderlo noto: l’assenza, accanto al piatto, di quel volgare strumento detto «coltello da pesce», immancabile in troppi ristoranti e che comunque non deve mai essere usato. Il prezzo non si può dire basso; ma, tenuto conto della qualità delle materie prime impiegate, non è certo esoso.
Come è piacevole sedersi ai tavoli del Passetto in via Zanardelli: un’atmosfera calda e accogliente si spande per le sale un po’ allungate dalle pareti arricchite di legni e bordeggiate dai lunghi panconi rivestiti di velluto; il servizio è corretto e tranquillo; anche gli avventori hanno l’aria distesa: molti sono i turisti, ma ci sono anche molti romani. Un posto poi in cui si mangia bene: una cucina classica, senza stravaganze, e dove si beve anche benissimo, persino i due vini della casa sono ottimi, soprattutto il bianco, saporitissimo, con una delicata punta di amaro, quanto mai gradevole. La lista dei vini è varia, tra i tanti che abbiamo assaggiato citiamo un Grumello del 1978 dal bel colore rosso maturo, dalla buona stoffa, di spirito nobile.
Ci siamo ormai abituati a gustare tantissimi dei suoi piatti; citiamo quindi alla rinfusa: le cozze al gratin, le classiche costolette di agnello alla Villeroy; vi consigliamo uno dei nostri piatti preferiti: l’anatra brasata con cipolline; ma vi sconsigliamo i vol au vent alla finanziera, perché la finanziera non è tale e il piatto è poco gustoso; tra i primi citiamo i tortellini pasticciati, ben cotti e senza panna e i gustosi cannelloni. I dolci non sono la cosa migliore; ma il Mont Blanc è ben fatto. Il prezzo, non basso, pare però quasi mite, se confrontato con quello di molti altri locali della zona di piazza Navona.

10 – Febbraio ‘85

venerdì, 1 febbraio 1985

Lo spettatore non frigido e con una buona conoscenza della storia della musica dal punto di vista dell’esecuzione è veramente andato alle stelle la sera del venerdì 14 dicembre all’auditorium di V. della Conciliazione, dove, per la stagione da camera di S. Cecilia, Lorin Maazel ha diretto The Chamber Orchestra of Europe, esibendosi anche come violinista. La musica insieme si fa così: con piacere, con voglia e con buon gusto. I Concerti delle Quattro Stagioni da «Il Cimento del l’Armonia e dell’Inventione» del 1725 sono stati eseguiti alla perfezione musicalmente, storicamente e spettacolarmente.

Niente dell’impettita e rigida precisione di troppe esecuzioni contemporanee e, daltra parte, nessuna sbrodolatezza o sdolcinatura romanticheggiante; il fraseggio era preciso ora dolce, ora pungente, i forti e i piano si alternavano senza echi e languori. La musica era quasi presa d’assalto, e noi pensiamo che Vivaldi suonasse proprio così le sue Quattro Stagioni, così come ha fatto Maazel. Riconosciamo, ma non ci ha disturbato, c’era qualche piccola imprecisione anche di intonazione.

Certo il Guadagnini del 1783 avrebbe potuto tuonare di più; ma a che pro? Ottima poi, nella sua sottile malinconia, l’interpretazione della “Pavane pour une infante défunte”, di M. Ravel struggente e mai dolciastra. Stupenda l’interpretazione della Sinfonia n. 8 in fa maggiore di L. van Beethoven. Una sinfonia che non pretende un grande organico orchestrale, ricca di idee, talora sapida, talora profondissima. Qui l’esecuzione dell’orchestra è stata ineccepibile; mai una slabbratura, mai un’imprecisione, e sì che Maazel ha osato molto: pause tenute un istante più di quanto sia tradizione tenerle, capriole disinvolte; ma chi capisce bene la musica può avvicinarsi a un grande come Beethoven con umiltà anche un po’ sbarazzina. Il pubblico era talmente coinvolto che abbiamo avuto tutti, quella sera, l’impressione di aver fatto «musica insieme».

10 – Febbraio ‘85

venerdì, 1 febbraio 1985

Il bel libro di Svetlana Alpers, P. L’arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, (Boringhieri, pagg. 416, Lit. 50.000) potrebbe sembrare rivolto soltanto agli specialisti; invece è un libro così chiaro, semplice e senza astrusità, che può essere letto con profitto anche da chi, pur amando il mondo della pittura, non intenda occuparsene in modo specifico. In dubbiamente le analisi sono circostanziate e precise, le affermazioni sorrette da una valida documentazione, con attenti riferimenti culturali e il tutto è corredato da un buon numero di riproduzioni, purtroppo in bianco e nero. La pittura olandese del Seicento, apparentemente così chiara nella sua fotografica immediatezza, è, nello stesso tempo facile e difficile da capire, come tutte le esperienze artistiche profonde.

Il confronto tra il modo di far pittura italiano e quello nordico è ovvio, ma indispensabile. La prospettiva che in Italia segue le regole di Leon Battista Alberti presuppone un unico spettatore all’esterno e tutta la composizione del quadro viene orientata in relazione ad un unico punto di fuga; la prospettiva olandese è invece polidirezionale, come se si riproducesse non qualcosa che viene osservato da una distanza determinata, ma l’atto stesso del vedere. Come essere dentro il quadro? Come le immagini si riproducono sulla retina? Gli olandesi erano affascinati dalla camera oscura; ed ecco gli stretti rapporti tra ricerche matematiche, scientifiche, filosofiche e le opere degli artisti olandesi, buoni artigiani, che succhiano avidamente questo clima: in esse la trascendenza diviene presenza calligrafica. L’autrice analizza con intelligenza alcune opere e le figure dei più grandi rappresentati della pittura olandese, guidando il lettore alla scoperta di una pittura che alle prime sembrava così chiara e che alla fine del libro è diventata più comprensibile e più oscura, allo stesso tempo; si fa chiaro infatti che non è tutta lì, in quelle nature morte, in quei ritratti di donne al cucito: c’è altro, c’è qualcosa di inesauribile, come è giusto che avvenga per tutte le opere d’arte. Ci dice infine l’autrice: «La mia indagine sull’arte olandese del Seicento mirava a definire i sistemi di convenzioni, le metafore dominati, i presupposti intellettuali e le pratiche culturali su cui quell’arte era fondata. Pur non avendo esaminato tutti gli artisti di primo piano, né tutti i generi considerati essenziali, il mio sforzo potrà dirsi riuscito ove arrivi a fornire una visione d’insieme dell’arte olandese».

10 – Febbraio ‘85

venerdì, 1 febbraio 1985

Martedì otto gennaio è andato in scena al Teatro delle Arti in Roma Madame Bovary di M. Franciosa e G. Sbragia da G. Flaubert. Madame Bovary non è soltanto una splendida opera della narrativa francese, è anche una perfetta macchina teatrale (noi abbiamo il sospetto che debba essere così per i migliori romanzi): un ritmo lento e sottile pervade tutta l’opera di Flaubert, in questo romanzo tutto è previsto e prevedibile e, nello stesso tempo, inaspettato. Il pasticcio invece che ne hanno ricavato Sbragia e Franciosa, ciancicando e tagliuzzando dal testo flaubertiano, è una delle cose meno teatrali che abbiamo visto quest’anno sui palcoscenici romani. Nella sala, fredda per ragioni climatiche, la noia cominciò a serpeggiare, divenendo via via più pesante. Le storie di una borghese di provincia, moglie di un meschino mediconzolo, le sue libidini, le sue malinconie, i suoi furori e la sua terribile morte, si snodavano sul palcoscenico in episodi slegati, che un’infinità di idee sceniche (compresa quella di far interpretare da Giancarlo Sbragia sia Charles Bovary che Gustave Flaubert) non riuscivano a trasformare in qualcosa di teatralmente sensato. In una scena, di Vittorio Rossi, continuamente mutevole per il continuo scorrere di pannelli che fondevano e trasformavano gli ambienti l’uno nell’altro, il dramma non arrivava a costruirsi; il racconto finale della terribile agonia, splendido monologo teatrale di Sbragia nelle vesti di Flaubert, arrivava infatti ormai troppo tardi: la noia e il freddo avevano congelato il cervello e i piedi degli spettatori, e la cosa aveva così un’aria solo più schifosetta, volgare, da grand guignol.

Pessima la recitazione di Giovanna Ralli nei panni di Emma Bovary che faceva del personaggio una frigida e opaca donnina per bene che, verso la fine, diventava, improvvisamente volgarissima: non una modulazione, non un passaggio più o meno sottile; e poi: perché una madame Bovary volgare? Buona la recitazione di tutti gli altri, professionisti corretti ed adeguati. Decisamente ottima l’interpretazione di Giancarlo Sbragia, nella sua duplice veste: laido e misero il medico, ironico e disilluso il poeta (bravo anche nella macchietta del sindaco che fa il suo discorso sulla piazza del paese). Dissennato ci è parso il commento musicale di Federico Amendola: distorsioni sonore senza senso lo rendevano inefficace e sciatto. La regia era dello stesso Sbragia.
Irrimediabilmente disgustosa è stata al teatro Valle al messinscena de Le Tre Sorelle di Anton Cechov curata dal regista cecoslovacco Otomar Krejca, il quale è riuscito a rendere insulsa e grottesca operetta uno dei migliori testi della storia del teatro universale. Anche qui la provincia, e tre sorelle che sognano Mosca. Grandi e piccoli drammi, possenti però come quel
li della tragedia antica, e il mondo che brulica intorno, ricco di personaggi indimenticabili, uno sparo finale che distrugge una illusione mai sorta. Fra ridicoli tendaggi, gli attori correvano avanti e indietro in modo dissennato, recitando tutte la battute con la stessa intonazione, un po’ stentorea, come di chi legge forte le voci di una enciclopedia: ci si sarebbe anche potuti divertire se non fosse stato che lo spettacolo era molto lungo. Chi era il peggiore? Non si può dire: Krejca è riuscito a massacrare tutti, ridotti a poveri pupazzetti che si dimenavano per far capire non si sa che. Soltanto un interprete si sottrae alla condanna: il bravo Ferruccio De Ceresa, che recitava la sua parte e sembrava capitato lì per caso, magari da un’altra messinscena, fatta da un vero regista. E la cosa risultava stravagante. Non pensiamo che ci sia soltanto un modo di realizzare un lavoro teatrale, ma cercare di renderlo stupido, questo non bisogna mai farlo. Quando non si ha la cultura per affrontare certi testi, è meglio lasciarli in biblioteca.

La storia di Tommaso Beckett, arcivescovo di Canterbury, in conflitto con il suo Re, Enrico II, in piena lotta tra Stato e Chiesa nell’Inghilterra medioevale, è stata narrata in molti modi: in modo ammirabile da T.S. Eliot nel suo Assassinio nella Cattedrale dove la grandezza del personaggio risalta incontrastata. Ma se, per un caso improbabile, uno spettatore che non conoscesse molto bene l’italiano fosse arrivato in ritardo al teatro Quirino e avesse dovuto seguire, solo orecchiando dai tendaggi, il momento in cui l’arcivescovo parla con le donne di Canterbury, avrebbe pensato che si stesse rappresentando la scena di un sacrestano di campagna che battibecca con le galline del suo pollaio. Si trattava invece della scena in cui l’arcivescovo dice cose mirabili e profonde a un gruppo di donne che parlano dei loro timori con sottile poesia, di fronte a una grandezza più grande di loro. Il Tommaso Beckett di Giulio Bosetti non è un Tommaso Beckett; di questo grande personaggio va perduto tutto: il dubbio e la fede, i raffrenati impeti d’ira e l’eroismo finale. La voce di Bosetti risultava piatta, esile, così è stata sprecata e vilipesa la predica di Natale in cui l’arcivescovo preannuncia l’imminente martirio: ne è venuta fuori una piccola omelia insulsa e noiosa, e anche i gesti erano sì enfatici, ma senza forza. E che dire delle «galline»? Una sequela di strilli guidati in modo pessimo da Marina Bonfigli. Eppure il testo è splendido e bene lo hanno saputo rendere Valerio Andrei, Edoardo Siravo, Walter Toschi e Massimo Ghini, bravi nelle doppie parti dei quattro cavalieri e dei quattro tentatori. Efficaci i monaci Franco Santelli, Pierluigi Misasi e Paolo Bernardi.
La musica era usata con precisione: talora un gregoriano puro, talatra eseguita in scena, in un buon contrappunto a tre guidato dal bravo Jean Hebert. Le scenografie solenni ed emotivamente efficaci erano di Mario Ceroli. I costumi (rutilanti di materiali e colori le armature dei guerrieri di gusto new wave; sobri e raffinati quelli degli altri personaggi) erano di Nanà Cecchi. Buona la traduzione di Tommaso Giglio e Raffaele La Capria, vivace, anche se ha abolito qualche riferimento al pubblico inglese.
Che dire della regia di Giuseppe Patroni Griffi? Siamo molto perplessi: l’impianto è intelligente e i movimenti sono teatralmente efficaci; ma perché cadere preda di un sacrestano e di un gruppo di galline?

Psicoanalisi contro n. 10 – A me non piacciono i musei

venerdì, 1 febbraio 1985

Io sono un accanito frequentatore di musei. Sarebbe meglio dire, che ne sono un divoratore.
Questi strani palazzi, per me, contengono le meraviglie del mondo. Io faccio parte di quella sparuta e stravagante schiera di persone che frequentano, anche, i musei della propria città. Sono certo che esistono romani che hanno visitato il museo del vino di Beaune nel castello dei duchi di Borgogna e non hanno mai messo piede al museo Barracco, in Roma, naturalmente. Forse, non lo sapevate?
I musei, però, sono terribili; non sono il luogo ove abitano le Muse, ma il luogo ove queste vengono vilipese, insultate, imprigionate.

Le opere d’arte figurativa non sono nate per i musei. Apollo, corrucciato, non si rassegna a questa umiliazione. I musei di oggi hanno tutti la squallida opacità dei più tristi palazzi ministeriali con custodi scortesi e inefficaci, ottusamente tirannici, senza discernimento. Eppure, in Italia, sono stati trasformarti in musei palazzi di una bellezza assoluta. Ma, nelle loro sale che desolazione!
Quale artista serio produrrebbe un quadro o una scultura avendo in mente un museo. I musei sono la tomba dell’arte. Io non riesco a staccarmi da questa necrofilia, ma, vi prego, cambiate atteggiamento, o amici, quando entrate in un museo. Quale atteggiamento? Mi potreste chiedere. «Non importa quale, ma diverso da quello che assumete ora».

Esiste un cielo teso e azzurro. Qualche volta verde, rosso e violetto. Esiste una terra bruna, profumata, con papaveri gialli e rossi a primavera. Piccole pianure polverose, fiumi scheletrici, montagne lucenti di sole. Eppoi, un mare, tante isole. L’estate molti turisti ignudi non cercano nulla, per fortuna. Ed ecco Micene, Atene, Capo Sunion, l’Olimpo, l’Arcadia, e i monti dell’Epiro. Qua e là, in Grecia, qualche museo, una collina, la Acropoli d’Atene, papaveri rossi e gialli. Come denti cariati gemono le colonne del Partenone, belle soltanto per il cielo azzurro, intensamente azzurro. I turisti ignudi si rivestono e vanno a vedere quei mozziconi di colonne: quattro pietre polverose. Eppoi, entrano nei musei, squallidi e maltenuti. Eppoi, ancora, il vento che a Capo Sunion fischia. Poseidone, nudo nella sua bellezza, che afferma il primato del maschio, dolce e tenero sotto il cielo azzurro, poi grigio, poi violetto e poi di nuovo azzurro. Dell’antica Ellade è rimasto il terreno, i monti e il cielo. L’Ellade è morta sull’Acropoli, a Micene, a Corinto, nella piana di Olimpia; è morta, soprattutto, nei poveri musei sgangherati.
Io non amo i musei. Eppure è l’unico luogo dove possiamo vedere ciò che è stato prodotto: statue, quadri, suppellettili, fantasie.

I musei più brutti del mondo sono quelli londinesi: freddi, aridi, opachi, polverosi; una successione infinita di opere d’arte male illuminate, ben custodite. Tante, troppe, senza senso, i musei londinesi: ma, questo è di tutti i musei.

I musei, un sogno di Alessandria, Tolomeo I e Tolomeo II, e ancora prima la Pinacoteca dei Propilei con le opere di Polignoto. Ma, qui le opere erano tesoro di un Dio, sacre e significanti.

Io non amo i musei: in Grecia accarezzo la terra e ascolto il peso del cielo e del sole. Io preferisco le chiese dove le opere d’arte sono ancora vive; dove qualcuno dà loro un significato. Un prete stanco biascica la sua messa sotto una pala del Maratta; due soli fedeli o spettatori, è la stessa cosa, nell’ombra della chiesa. Nella chiesa le opere d’arte hanno ancora un senso perché sono lì perché debbono essere lì. Nei musei sono spaurite, istupidite. Lunghe file di turisti, come formiche, guardano nei musei; sono turisti vestiti, non hanno neppure il coraggio di essere nudi. Flaccidi e sudati, vocianti e imbecilli. Per fortuna, ogni tanto, in qualche museo un altare, e lì sostano le frotte degli imbecilli per guardare la «Gioconda» di Leonardo, al Louvre, un bel palazzo nella sua monumentalità un po’ fredda e nordica. Lì c’è lei: la «Gioconda». Un quadro bruttino, insignificante; un sorriso teso, anzi un piccolo ghigno; una fronte ottusa, radi capelli mal dipinti, due mani rigide, poco naturali; il braccio destro avvolto da una manica con pieghe stantie, irrimediabilmente mal fatte, ed un fondale di cartapesta. La «Gioconda», che importa che sia un quadro mediocre. Tanti imbecilli la guardano, e anche non imbecilli. E lei rimane lì, giallina e verdastra, come su di un altare. Lì ha il suo significato. Io amo soltanto i pochi altari di alcuni musei, ma non i musei. Io preferisco la terra secca, il cielo azzurro, bianco, viola, nero, marrone. Le opere d’arte debbono avere un senso, essere anche per me. Non mi va di pagare un biglietto. Non si può fare diversamente, ma a me non va.

10 – Febbraio ‘85

venerdì, 1 febbraio 1985

Parlando

La tentazione del silenzio è grande quanto la fatica della parola e la tentazione della parola alletta ogni giorno di meno.
Parlare è un dovere verso se stessi che ha bisogno di credersi dovere verso gli altri. Perché la parola non sia che il risuono di un corpo nell’aria deve essere mossa dall’amore, così almeno diceva Paolo di Tarso.
Quasi tutte le parole che risuonano oggi sono però piene dell’amore di sé, anche Paolo era pieno d’amore di sé.
Tacere significherebbe forse spogliarsi dell’amor proprio; ma l’opera non sarebbe particolarmente meritoria poiché avrebbe il risultato di lasciare lo spazio alle parole degli altri, o a un silenzio simile alla morte.
La parola è quindi anche un’espressione di vita, per l’uomo. E allora diventa importante la qualità delle parole, come è importante la qualità della vita.
Le parole sono buone e cattive, non sono mai disinteressate; ma questo non è il peggiore dei mali possibili. Il male, se mai, sta nel negare che parliamo per il nostro vantaggio o nel voler credere che le parole di un altro siano pronunciate contro l’interesse di chi parla e per il “bene comune”.
Il bene comune incomincia dal bene del singolo, la lotta per un domani migliore incomincia dal tentativo di superare il malessere di oggi: l’ecologia può essere un progetto di preservazione planetaria solo se garantisce oggi il miglior modo di sopravvivenza possibile.
Le parole della cultura non si sottraggono a questo minimo principio di economia esistenziale: anche l’uomo di scienza, come il politico e come il prete parla soprattutto a proprio vantaggio.
Il prete, prima, poi il politico e infine lo scienziato hanno però capito, fin da subito, che le loro parole avrebbero avuto più effetto se fossero state pronunciate in nome degli altri: la res publica è così diventata uno dei motori della storia e ciò è stato senz’altro un bene. La cosa pubblica non basta però a garantire gli interessi di tutti, può garantire una base minima sociale su cui gli individui e le parti fondano la contrattazione.
Il meccanismo della contrattazione è stato inquinato fin dalle sue origini dal tentativo della truffa e la parola è parsa lo strumento più adatto per condurre a termine buoni affari, anche perché è uno strumento poco costoso.
I profeti e i filosofi, i politici e i poeti, gli artisti e gli scienziati hanno concluso molti buoni affari vendendo parole e gli affari migliori li hanno conclusi quando sono riusciti a convincere che stavano parlando per il bene degli altri. E’ solo una piccola ingenuità illuministica quella di credere che un tale meccanismo possa venire demistificato; ma è una pericolosa ingenuità idealistica convincersi che tacere abbia maggior dignità morale.
La verità certo ci guadagnerebbe ad essere detta fino in fondo; ma la verità è così vicina a ciascuno di noi e così lontana da tutti che la si può solo ricercare, parlando e tacendo; ma soprattutto parlando.

10 – Febbraio ‘85

venerdì, 1 febbraio 1985

Una bella mostra, intelligente quella di Degas e l’Italia, allestita a Villa Medici. Come dice il titolo, non si tratta di una panoramica completa dell’opera del pittore francese e, come ammette anche Jean Leymarie nella prefazione al catalogo, neanche di un raggruppamento completo delle opere che Degas ha eseguito in Italia, oppure ispirate all’Italia. Degas non amava la natura, lo infastidiva, lui preferiva la sua Parigi, gli piaceva vedere il cielo di tra le case, osservare gli alberi dei boulevards e dei giardinetti. I cavalli li preferiva all’ippodromo e attaccati alle carrozze. Amava il chiuso dei locali, un cabaret, una camera, le ballerine, la folla. Come mai fu così affascinato e anche così segnato dall’Italia? L’Italia è un paese in cui la natura è una presenza invadente e oppressiva quasi, e ciò nell’Ottocento era ancor più vero di oggi: Roma era una piccola città che potremmo definire di campagna.

Questa mostra ci conduce alla scoperta di alcune linee ai pensiero di un poeta del mondo; non una confessione, per fortuna! Dai disegni traspaiono squarci di fantasie preparatorie a opere successive, «impressioni» non impressioniste, che, talvolta, con due tratti di matita creano già un’opera completa e l’opera completata sarà poi altro, tutt’altro. Si vede, però, che anche la natura dell’Italia non lo interessava molto e neanche la gente italiana: La veduta di Napoli o Il convento di Trinità dei Monti. Lo affascinava l’arte, gli interessava analizzare come altri artisti nel passato avevano visto il mondo: da Paolo Uccello a Mantegna e Veronese, e poi fantasie classicheggianti: Michelangelo e Botticelli e neoclassiche: gli studi preparatori alla Semiramide. Degas sembra aver prestato meno attenzione all’Italia che aveva davanti agli occhi che a quella vista nelle opere d’arte e nei suoi sogni e in cui si è rispecchiato. Probabilmente l’Italia gli faceva anche paura, la sentiva troppo immediata e diretta, magari violenta. Degas è lontano dalla natura e ne è vicino allo stesso tempo; ma da sempre arte e natura si interscambiano. Guai a mettere troppo l’accento sul Degas psicologico, come sempre per esempio si fa guardando il ritratto della Famiglia Bellelli. Tutti gli artisti sono psicologi, altrimenti non sarebbero artisti.