10 – Febbraio ‘85

febbraio , 1985

Martedì otto gennaio è andato in scena al Teatro delle Arti in Roma Madame Bovary di M. Franciosa e G. Sbragia da G. Flaubert. Madame Bovary non è soltanto una splendida opera della narrativa francese, è anche una perfetta macchina teatrale (noi abbiamo il sospetto che debba essere così per i migliori romanzi): un ritmo lento e sottile pervade tutta l’opera di Flaubert, in questo romanzo tutto è previsto e prevedibile e, nello stesso tempo, inaspettato. Il pasticcio invece che ne hanno ricavato Sbragia e Franciosa, ciancicando e tagliuzzando dal testo flaubertiano, è una delle cose meno teatrali che abbiamo visto quest’anno sui palcoscenici romani. Nella sala, fredda per ragioni climatiche, la noia cominciò a serpeggiare, divenendo via via più pesante. Le storie di una borghese di provincia, moglie di un meschino mediconzolo, le sue libidini, le sue malinconie, i suoi furori e la sua terribile morte, si snodavano sul palcoscenico in episodi slegati, che un’infinità di idee sceniche (compresa quella di far interpretare da Giancarlo Sbragia sia Charles Bovary che Gustave Flaubert) non riuscivano a trasformare in qualcosa di teatralmente sensato. In una scena, di Vittorio Rossi, continuamente mutevole per il continuo scorrere di pannelli che fondevano e trasformavano gli ambienti l’uno nell’altro, il dramma non arrivava a costruirsi; il racconto finale della terribile agonia, splendido monologo teatrale di Sbragia nelle vesti di Flaubert, arrivava infatti ormai troppo tardi: la noia e il freddo avevano congelato il cervello e i piedi degli spettatori, e la cosa aveva così un’aria solo più schifosetta, volgare, da grand guignol.

Pessima la recitazione di Giovanna Ralli nei panni di Emma Bovary che faceva del personaggio una frigida e opaca donnina per bene che, verso la fine, diventava, improvvisamente volgarissima: non una modulazione, non un passaggio più o meno sottile; e poi: perché una madame Bovary volgare? Buona la recitazione di tutti gli altri, professionisti corretti ed adeguati. Decisamente ottima l’interpretazione di Giancarlo Sbragia, nella sua duplice veste: laido e misero il medico, ironico e disilluso il poeta (bravo anche nella macchietta del sindaco che fa il suo discorso sulla piazza del paese). Dissennato ci è parso il commento musicale di Federico Amendola: distorsioni sonore senza senso lo rendevano inefficace e sciatto. La regia era dello stesso Sbragia.
Irrimediabilmente disgustosa è stata al teatro Valle al messinscena de Le Tre Sorelle di Anton Cechov curata dal regista cecoslovacco Otomar Krejca, il quale è riuscito a rendere insulsa e grottesca operetta uno dei migliori testi della storia del teatro universale. Anche qui la provincia, e tre sorelle che sognano Mosca. Grandi e piccoli drammi, possenti però come quel
li della tragedia antica, e il mondo che brulica intorno, ricco di personaggi indimenticabili, uno sparo finale che distrugge una illusione mai sorta. Fra ridicoli tendaggi, gli attori correvano avanti e indietro in modo dissennato, recitando tutte la battute con la stessa intonazione, un po’ stentorea, come di chi legge forte le voci di una enciclopedia: ci si sarebbe anche potuti divertire se non fosse stato che lo spettacolo era molto lungo. Chi era il peggiore? Non si può dire: Krejca è riuscito a massacrare tutti, ridotti a poveri pupazzetti che si dimenavano per far capire non si sa che. Soltanto un interprete si sottrae alla condanna: il bravo Ferruccio De Ceresa, che recitava la sua parte e sembrava capitato lì per caso, magari da un’altra messinscena, fatta da un vero regista. E la cosa risultava stravagante. Non pensiamo che ci sia soltanto un modo di realizzare un lavoro teatrale, ma cercare di renderlo stupido, questo non bisogna mai farlo. Quando non si ha la cultura per affrontare certi testi, è meglio lasciarli in biblioteca.

La storia di Tommaso Beckett, arcivescovo di Canterbury, in conflitto con il suo Re, Enrico II, in piena lotta tra Stato e Chiesa nell’Inghilterra medioevale, è stata narrata in molti modi: in modo ammirabile da T.S. Eliot nel suo Assassinio nella Cattedrale dove la grandezza del personaggio risalta incontrastata. Ma se, per un caso improbabile, uno spettatore che non conoscesse molto bene l’italiano fosse arrivato in ritardo al teatro Quirino e avesse dovuto seguire, solo orecchiando dai tendaggi, il momento in cui l’arcivescovo parla con le donne di Canterbury, avrebbe pensato che si stesse rappresentando la scena di un sacrestano di campagna che battibecca con le galline del suo pollaio. Si trattava invece della scena in cui l’arcivescovo dice cose mirabili e profonde a un gruppo di donne che parlano dei loro timori con sottile poesia, di fronte a una grandezza più grande di loro. Il Tommaso Beckett di Giulio Bosetti non è un Tommaso Beckett; di questo grande personaggio va perduto tutto: il dubbio e la fede, i raffrenati impeti d’ira e l’eroismo finale. La voce di Bosetti risultava piatta, esile, così è stata sprecata e vilipesa la predica di Natale in cui l’arcivescovo preannuncia l’imminente martirio: ne è venuta fuori una piccola omelia insulsa e noiosa, e anche i gesti erano sì enfatici, ma senza forza. E che dire delle «galline»? Una sequela di strilli guidati in modo pessimo da Marina Bonfigli. Eppure il testo è splendido e bene lo hanno saputo rendere Valerio Andrei, Edoardo Siravo, Walter Toschi e Massimo Ghini, bravi nelle doppie parti dei quattro cavalieri e dei quattro tentatori. Efficaci i monaci Franco Santelli, Pierluigi Misasi e Paolo Bernardi.
La musica era usata con precisione: talora un gregoriano puro, talatra eseguita in scena, in un buon contrappunto a tre guidato dal bravo Jean Hebert. Le scenografie solenni ed emotivamente efficaci erano di Mario Ceroli. I costumi (rutilanti di materiali e colori le armature dei guerrieri di gusto new wave; sobri e raffinati quelli degli altri personaggi) erano di Nanà Cecchi. Buona la traduzione di Tommaso Giglio e Raffaele La Capria, vivace, anche se ha abolito qualche riferimento al pubblico inglese.
Che dire della regia di Giuseppe Patroni Griffi? Siamo molto perplessi: l’impianto è intelligente e i movimenti sono teatralmente efficaci; ma perché cadere preda di un sacrestano e di un gruppo di galline?