Psicoanalisi contro n. 10 – Il cuore di Achille

febbraio , 1985

È ormai diventata classica, nei confronti della salute mentale, la divisione in tre grandi classi, per cui vi sono i sani di mente, i nevrotici e, infine, gli psicotici. Sani sarebbero coloro che sono sufficientemente integrati nell’ambiente e nella società in cui vivono; che riescono ad espletare le loro mansioni con equilibrio, che non hanno inibizioni troppo gravi, tali da bloccare le principali attività psicofisiche; i cui sentimenti sono espressi con adeguatezza; le cui emozioni non sono mai incontrollabili; per i quali la sofferenza per una perdita dura il tempo giusto e viene poi superata, potremmo dire: smaltita; e che eccedono soltanto fin dove è permesso; il cui linguaggio è sufficientemente articolato; che comprendono il mondo e gli altri e sono in grado di farsi comprendere. In costoro la tristezza non diviene mai lugubre inerzia e l’allegria non si trasforma mai in gesti scomposti e in attività sfrenate, pericolose e inconcludenti. Persone che hanno paura fin dove è lecito aver paura; gente che non è terrorizzata dalle malattie o dalla morte; che fa l’amore seguendo le regole prescritte.

Tante altre caratteristiche si potrebbero descrivere di questo tipo di persona, considerata sana di mente.
Poi ci sono i nevrotici. La malattia può essere più o meno grave, i disturbi del comportamento rendono però il nevrotico meno comprensibile dell’individuo «sano». Gli altri lo capiscono poco ed egli stesso non si capisce molto: si sente oppresso da comandi che gli impongono una vita di sofferenza, da idee e fantasie ossessive; gesti cui non gli è possibile rinunciare e dei quali percepisce però la pesante inutilità rattrappiscono la sua vita, rendendola faticosa.
È affetto da disturbi della nutrizione, paure e improvvise e immotivate, timore di affrontare gli altri, difficoltà nei rapporti sessuali, senso di catastrofe imminente. Ha l’impressione di vivere sempre in un sogno. Improvvisamente ha il terrore di compiere un gesto assurdo: buttarsi da una finestra, mettersi ad urlare nel mezzo di una rappresentazione teatrale, mentre tutti gli altri sono silenziosi e attenti; di ferire con un coltello la persona amata. Non ha il coraggio di andare in automobile, di attraversare la strada, di prendere l’ascensore.

Questa prigionia viene chiamata nevrosi.
Quando la sensazione di sentirsi separati dal mondo aumenta, quando si ha la sensazione di vivere come in un sogno e tutto si distorce, parlare diventa difficile, gli altri non capiscono più perché sono tutti persecutori e bisogna dare un volto a chi perseguita e ricostruire i meccanismi della persecuzione; quando i fantasmi acquistano realtà, parlano, si possono vedere e toccare, sono lì per aggredire e per essere aggrediti; quando bisognerà punire qualcuno, il mondo; allora abbiamo la psicosi. Ogni psicosi è diversa dalle altre, ma per piccoli particolari; per lo più, la follia è caratterizzata da un monotono ripresentarsi degli stessi sintomi. Chi ha detto che il folle è uno stravagante? Chi ha detto che la follia è ribellione ed esplodente originalità? La follia è monotona, ripetitiva. I folli conoscono tre o quattro copioni e vi si calano, con il desiderio di distruggere, di ferire.

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Già alla fine dell’ottocento, la ricerca psicoanalitica ha scompigliato un poco queste carte, con una saggezza fin troppo carica di buon senso. Se, da un lato, è la psicoanalisi stessa che ha contribuito a fondare questa tripartizione, dall’altro, la psicoanalisi ha mostrato, più che dimostrato, come nella vita quotidiana esista una «psicopatologia» non dissimile da quella delle nevrosi o addirittura della follia.
I lapsus e gli atti mancati sono gesti incomprensibili, che hanno tutta la carica inquietante dei gesti assurdi dei nevrotici. E poi i sogni, gli smarrimenti improvvisi. Come si può ancora dire: fin qui si è normali, di qui a là si è nevrotici e poi psicotici?
La psicologia, la psicoanalisi e la psichiatria procedono su questi due binari: da un lato, vi è la distinzione metodologica tra lo stato di salute mentale e la nevrosi e la psicosi; dall’altro, la convinzione che quella della salute mentale sia solo un’ipotesi.
I meccanismi della psiche sono cosi ricchi e articolati che è troppo difficile riuscire a determinare con esattezza quando sono sani e quando sono malati. Rimangono, certo, le manifestazioni macroscopiche; rimane soprattutto la sofferenza; ma la sofferenza di dove viene? Di dentro o di fuori? Senza dubbio, non soltanto di dentro: le angosce, le paure, i fantasmi, i rituali, sorgono dal nostro inconscio; ma noi siamo il frutto di un mondo. Noi siamo prigionieri di tali e tanti condizionamenti che tutto ciò che sembra nascosto negli abissi della persona era un tempo fuori, attorno. Nessuno si fa da sé; ognuno di noi è costruito, lentamente, da un mondo che, a sua volta, è stato costruito da qualcosa di esterno, e così via, non voglio dire all’infinito, ma dico: così via…

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Sono ormai due secoli che, con ostinata costanza, compaiono ricerche scientifiche che fanno coincidere la struttura psichica con quella del sistema nervoso centrale. Alla fine dell’ottocento addirittura J. Moleschott e O. Vogt avevano sostenuto che l’uomo è solo ciò che mangia, che il genio è una questione di fosforo e che il cervello secerne pensiero come il rene secerne urina.
Dal 1600 fino all’inizio del nostro secolo, la medicina ha cercato, talvolta con maniacale ossessività, di dividere l’essere umano in apparati. La persona sarebbe, perciò, il risultato di una serie di meccanismi quasi indipendenti, incastrati gli uni negli altri. Non è mai stato detto esplicitamente che l’apparato cardiocircolatorio sia una struttura autonoma da quello respiratorio, anzi se ne son sempre messe in evidenza le interdipendenze, però l’atteggiamento è stato quello di considerarli autonomi. Queste organizzazioni meccaniche, dotate di un centro, di una periferia e di una teleologia, dovrebbero essere studiate e, quando si inceppano, reintegrate nella loro funzionalità da specialisti. Ecco la distinzione tra medico e specialista: il primo, lentamente, ha perso di significato: il laboratorio di analisi e lo specialista lo hanno infatti espropriato di ogni funzione. Forse a far ciò hanno contribuito anche gli organismi mutualistici, ma questo è un altro discorso.

Oggi il cosiddetto medico generico è colui che fa certificati per giustificare l’assenza dal lavoro, avalla, con la sua firma su di un foglietto, i medicamenti che il paziente si prescrive da sé; spesso è assolutamente disorientato di fronte alla sintomatologia che gli si presenta, perciò il suo compito si riduce alla prescrizione di analisi di laboratorio o al rinvio ad uno specialista.
Anche la figura dello specialista sta perdendo di significato, costretto sempre più frequentemente a ricorrere alle «analisi obiettive» del laboratorio. Le macchine messe a punto dall’ingegneria medica sono senza dubbio più sensibili degli organi di senso del più esperto e maturo dei clinici. L’occhio che scruta, la mano che palpa sono strumenti ingenui e ridicoli, oltre che imprecisi, al confronto con sofisticate apparecchiature artificiali, che non solo sono assai più sensibili, ma sono anche immuni dall’approssimazione dell’emotività. Così, fatta la diagnosi, basta sfogliare un prontuario in cui stanno le indicazioni, con pochi e chiari parametri e discriminanti, come età e sesso, che permettono di trovare il farmaco adatto, la giusta posologia e annesse statistiche e prognosi. Tutto questo è un po’ fantascientifico, ma lentamente, nel medico, avanza il processo di sfiducia nella propria scienza.
La vera causa delle malattie è, per lo più, sconosciuta; se ne conoscono le cause seconde, terze e quarte. Scoprire la causa prima delle malattie vorrebbe dire scoprire la causa della salute; e la causa della salute affonda nel significato della vita dell’uomo e non solo: nel significato di tutto ciò che vive, ma tutto ciò che vive è tutto ciò che è.
Ecco il ritorno della metafisica. Proprio per questo alcuni preferiscono curarsi con le cosiddette medicine alternative: c’è chi strilla contro gli antibiotici e sorbisce tisane all’impazzata; c’è chi legge nel corso delle stelle e non mangia carni. Altri fanno cose diverse, scelgono metodi di cura stravaganti ed esotici.

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Come, ho detto, la medicina delle università occidentali ha ormai diviso l’essere umano in tante sottostrutture che si reggono ad incastro. La psicoanalisi, dopo aver tentato anch’essa di far coincidere il funzionamento psichico col funzionamento neuronale, ha abbandonato questa strada e ha parlato di apparato psichico; ma senza cambiare atteggiamento: solo aggiungendo un apparato in più, con una sua struttura, un suo centro e una periferia; apparato che ha il suo funzionamento e quindi anche i suoi guasti.
Una gran parte di questo apparato funziona entro il mistero dell’inconscio, il quale, nel suo profondo è radicato al soma.

La psiche, così organizzata, è sbalorditivamente simile all’anima di cui parlavano gli antichi filosofi e di cui parlano molte religioni. La psicoanalisi, scaltramente, ha avuto il buon gusto di non riparlare della glandola pineale; ma Renato Descartes viveva nel Seicento, secolo scientificamente più spudorato, quando si cercava di andare fino in fondo alle cose, anche a costo di dire qualche sciocchezza.
La psicoanalisi ha poi parlato di psicosomatica. Dapprima scoprì le cosiddette «conversioni isteriche»: la funzionalità di un organo viene disturbata da fattori psichici; ecco l’improvvisa cecità, l’anestesia di un arto, un dolore lancinante, come un chiodo piantato nella testa, una ipersensibilità della cute, pruriti, arrossamenti. L’organismo non pare realmente malato, tutto dovrebbe funzionare, eppure l’isterico dice di non vedere più, o di avere perso la sensibilità ad un braccio, o di sentire un chiodo conficcato in mezzo al capo. È la psiche che, attraverso la compiacenza somatica, parla.
Si è andati poi oltre: la psiche influenzerebbe il sistema nervoso centrale. Il sistema nervoso centrale, quello periferico e tutti gli altri organi possono essere disturbati nel loro funzionamento da questa misteriosa entità chiamata psiche e, più ancora, da questa misteriosissima sua parte detta inconscio. La psiche però non solo può alterare la funzionalità di un organo, ma può anche far sì che esso realmente si ammali.
Queste sarebbero le cosiddette malattie psicosomatiche.

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Lentamente, l’essere umano che era stato diviso in tanti apparati, interdipendenti, ma autonomi, riconquista la sua antica dicotomia: anima e corpo, psiche e soma. È il trionfo del Dottor Angelico, Tommaso d’Aquino.
La psicosomatica divide l’uomo in due: l’anima e il corpo. Alcune malattie sono causate dall’anima; ma chi fa ammalare l’anima?
A questo punto bisognerebbe parlare del demonio. Ritorna il problema del libero arbitrio: a Tommaso si contrappone Martin Lutero.
Ma queste sono storie che abbiamo già sentito; storie che non tramontano mai. Tutto è quindi soltanto una ripetizione? Può darsi; ma ogni ripetizione è anche sempre una novità. Ben lo sanno i musicisti che la seconda volta che un’idea musicale ricompare in un brano, anche quando è assolutamente identica, per il solo fatto di comparire per la seconda volta, acquista significati profondamente diversi; il perché lo si ignora, ma è diversa per il semplice fatto di essere ripetuta.
Quello che ritorna è sempre un po’ diverso. Gli essere umani ripetono spesso cose già dette, sforzandosi di farle apparire cose nuove e originali: queste sono anche leggi di mercato.
Anch’io ripeto cose vecchie di millenni e cerco, con astuzia e con ingenuità, di dar loro nuovo smalto, per renderle più luccicanti.
La scienza non è altro che un’industria di lustrini?

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La psicosomatica, così come viene grossolanamente divulgata, ha diviso nuovamente l’uomo in due; ma questa divisione potremmo anche leggerla come un tentativo di riunificare ciò che era stato sparso e parcellizzato. La macchina uomo, dopo essere stata divisa in sottostrutture meccaniche che la compongono, lentamente, si va ricostituendo. Di nuovo, l’essere umano ha soltanto più due parti: la psiche e il soma. Si potrà andare oltre? Si potrà finalmente riprendere la strada dove l’aveva interrotta la ricerca platonica?
Al pensiero ellenico ripugnava la divisione tra anima e corpo. Platone è lo Zenone della Grecia intera: portando alle estreme conseguenze la dicotomia anima﷓corpo è riuscito a farne vedere l’inconciliabile contraddizione.
Tutta la cultura greca precedente aveva negato di fatto che il corpo fosse qualcosa di distinto dall’anima, o, peggio ancora, di inferiore. L’uomo è questo: questi occhi, questa bocca, questi genitali, questi capelli e questi pensieri.
Platone prima, nel Parmenide, rende assurda la trascendenza, poi, nel Timeo, la nega. Il mondo è chiuso in se stesso, ripiegato in un cerchio magico. Di lì saremmo dovuti partire, di lì siamo partiti; ma forse è stata presa la strada sbagliata. O almeno non è stata presa la strada che io avrei voluto che il mondo prendesse.
Pur se m’accorgo di essere ridicolo, nella mia convinzione di sapere quale avrebbe dovuto essere la strada giusta, sta di fatto che io ritengo di dover ricominciare di là e quindi mi ribello alla grossolana distinzione tra psiche e soma.

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Io sono io. Io sono il mio corpo e la mia anima, la mia anima e il mio corpo. Questo non è un discorso teologico. Non parlo della sopravvivenza, sono certo comunque che finché si sopravvive si sopravvive tutti interi. Cosa vuol dire tutti interi? Vuol dire tutti interi: quello che è è intero. Non è il corpo che muore, se mai è una parte del corpo; ma noi tutti interi, se sopravviviamo, sopravviviamo.
Questo è un atteggiamento teorico. Praticamente quali conseguenze potrebbe avere? Potrebbe avere due esiti negativi: il primo, di portare all’assoluta paralisi della ricerca. Se l’essere umano è una totalità, non divisibile in parti, l’essere umano è quello che è. Poiché descrivere è sempre dividere in parti, curare è sempre dividere la parte sana da quella malata. La scienza, per capire, deve quindi necessariamente dividere; se non vuole dividere, rinuncia a capire: l’uomo le sta lì, di fronte. Lo scienziato stesso è, dentro di sé, uno e immobile, del tutto impenetrabile ad ogni possibilità di cura. L’altro esito negativo è quello che mi porta, dopo questa bella petizione di principio, ad accettare che tutto di fatto rimanga come prima, poiché non so cosa fare di diverso non potendo cancellare con un gesto di volontà millenni di separazione anima﷓corpo. Si dice che l’essere umano è uno e deve essere uno; ma poi, quando si interviene, si interviene come se esistesse la psiche con le malattie psichiche, il corpo con le malattie che derivano da un disagio psichico e poi tante parti del corpo con malattie soltanto organiche. Io spero però che ci sia una terza possibilità, che non è ancora quella che ha come esito il capovolgimento dei criteri operativi. Oggi, bisogna riconoscerlo, non abbiamo né i parametri sufficienti per comprendere un così radicale capovolgimento, né strumenti tecnici sufficientemente raffinati. Quella petizione di principio deve rimanere come un punto di partenza per la ricerca. Bisogna, lentamente, mutare gli stessi presupposti della logica su cui si fonda la descrizione dell’uomo. L’uomo è anche la descrizione che se ne fà, ed è questo uomo che inventa questa sua descrizione. La metafisica è sempre in agguato: è fondamentale però non averne paura. Uno scienziato che abbia paura della metafisica è uno scienziato vile. La scienza non ha bisogno di vigliacchi, questi servono soltanto a ripetere slogan o formulette.
Lo scienziato vile si arrocca sulle definizioni tradizionali che lui chiama scienza sperimentale.

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Non è più il caso di ripercorrere il tragitto per cui nella coscienza occidentale si sono strutturati il concetto di anima e il concetto di corpo. È una storia inestricabile, che si perde lontano, dietro le nostre spalle. Io, però, mi sento sempre due; e, se io mi sento due, penso che così si sentano anche gli altri. L’autocoscienza è il momento massimo della nostra duplicità: io che percepisco me. Quando pronuncio il pronome Io, a che cosa penso? E se dovessi situare questa paroletta, dove localizzerei il suono Io? In un punto. In un punto in mezzo alla testa. Anche per gli altri è così? Non lo so. Tutti gli altri, presenti e passati, non li conosco e non li ho conosciuti. Io che penso a me. Il mio nome che cos’è? Il mio piede o la mia mano? Mia: io sono la mia mano o la mia mano è mia? Se io sono tutto intero, io sono la mia mano, o, almeno, anche la mia mano. Se io penso alla mia mano, la mia mano è mia e non è l’Io. Il mio Io è in un punto, è un punto. Quante parti di me io posso perdere rimanendo Io? Io mi sarò perso del tutto quando avrò perso la vita. I miei capelli sono i miei capelli e quando, dal barbiere cadono, prima sull’asciugamani che mi sta sulle spalle e poi in terra, è una parte di me che se ne va? Io sono meno Io? Il mio Io si è rimpicciolito, si è impoverito? La mia bocca: io pronuncio Io con una vibrazione che ruota in questa cavità, sonoramente, ed esce; gli altri la sentono, ma anche io sento dentro il mio Io. Dentro il mio Io. Ma: Io è un punto, un punto piccolissimo, il punto geometrico, senza dimensione? No e sì allo stesso tempo. No, perché ciò che non ha dimensione non esiste. Io dico: tutto deve avere una dimensione, almeno mentale.

Ecco perché il nulla non è pensabile: perché non ha una dimensione. Ciò che non è pensabile non esiste? Per l’essere umano no. Non vuol dire che non esista in assoluto, ma è come se.
Io quindi ha una dimensione; ma, se lo penso con una dimensione, è composto di parti. È quindi un corpo che sta dentro all’Io ed è circondato dall’Io che è il corpo di questo Io, che non è l’Io. Ma, allora, il corpo non è mai l’Io. Eppure io voglio essere Io dalla testa ai piedi, non voglio che i miei capelli non siano Io. Anche se cadono addirittura, mi lasciano, indipendentemente dalla mia volontà. Oh con quanto mio dispiacere! Gli antichi greci non avevano operato, forse, questa distinzione così precisa tra anima e corpo, soprattutto nelle epoche più antiche. L’uomo dei poemi omerici parlava con se stesso, con i vari se stesso. Achille parlava al suo cuore: «Stai zitto cuore…». Lui e il suo cuore. E così agli altri organi. Era più intero perché era più spezzettato; ma questo spezzettamento non era la rigida strutturazione in apparati che ha poi fatto la medicina positivistica.
L’antico greco parlava con se stesso, il suo cuore gli rispondeva; ma soltanto perché lui lo pensava; pensava al suo cuore e il suo cuore era lì: «Cuore frena i battiti; cuore calma la tua ira». Chi era più potente: l’Io o il cuore? Dove era l’Io? L’Io parlava e si confrontava con altre parti di se stesso. Ecco un modo di non essere spezzato in due: diviso in tante parti viventi, talora estranee, ricche della ricchezza dell’inconscio.

L’uomo greco era proprio così?
Non è facile entrare dentro le fantasie e le sensazioni di persone vissute molti anni prima di noi, molti secoli. Però è anche possibile, poiché noi ne siamo i figli. Noi pensiamo così anche perché loro pensarono in quel modo. Ne consegue che il punto massimo della mia interezza è il momento massimo della mia inconsapevolezza: non essere presente a me stesso; quindi essere strumento di altri. Tutta la mia persona pulsa e vive, ma non sa di se stessa e siccome il mondo continua a ruotarle intorno, a incontrarsi e a scontrarsi con essa, la mia persona è totalmente preda. Io non credo che sia una buona condizione l’essere preda. È importante lasciarsi andare; è importante non irrigidirsi nella frigidità; anzi: non solo è importante, è fondamentale. È altrettanto importante e fondamentale essere e sapere di essere: cogliere l’Io che coglie l’Io.

È impossibile essere totalmente uno: solo l’alienazione o la stupidità fanno sì che l’Io smarrisca se stesso. Io, orgoglioso della mia cultura occidentale, non voglio smarrirmi, non voglio annullarmi. Io voglio sapere di me, conoscermi, parlare con me. Preferisco non evitare il problema. So di sentirmi almeno due: Io e me. Però voglio anche essere uno. Forse, la mia unità riuscirò a trovarla quando saprò sufficientemente abbandonarmi agli altri.