Archivio di gennaio 1985

Psicoanalisi contro n. 9 – Io risposi: “Non lo so”

martedì, 1 gennaio 1985

Molti, senza dubbio, hanno avuto questa strana e un po’ angosciosa esperienza: dopo aver ripetuto alcune volte una parola, una parola di uso consueto, che indica un oggetto o un concetto semplice, la sentono diventare puro suono, senza più significato. Si ripete la parola: gatto, gatto, gatto… e non si riesce più a capire che cosa voglia dire; che significato abbia quel suono; si sa e non si sa che cosa è il gatto: il gatto, il gatto, il gatto… L’ansia che sale è sottile, avvolgente, penetrante; ci si sente smarriti, come se mancasse il terreno sotto i piedi.

Vi è un’altra sensazione, ancora più terribile e angosciante: la perdita di senso del pronome Io. A me accadde un giorno: ero in campagna ed era estate, davanti a un muro caldo di sole, si sentivano le cicale — La mia dolce campagna del Canavese —. Toccai con la mano il muro, tiepido e ruvido; il campanile della parrocchia suonò le ore: un do diesis con tutti i suoi armonici, vibrò nell’aria immobile. Io dissi: «Io». Poi ripetei: «Io, io, io…» E mi smarrii…. Non ricordo come proseguì quella giornata. Altre persone mi hanno raccontato un’esperienza simile: si dice: «Io» e non si sa più cosa voglia dire. Oppure, ancora, uno può ripetere il proprio nome: «Giorgio, Maddalena, Io, Giorgio, Io, Maddalena»; ma Giorgio o Maddalena non hanno senso, non hanno più senso: sono soltanto un suono che prima ronza nel cervello, poi viene scandito ad alta voce: «Giorgio, Maddalena». Io mi sono sempre chiamato Giorgio, io Maddalena; ma ora Giorgio e Maddalena non vogliono dire più nulla, non hanno significato, diventano puro suono, ancora un’eco e poi più niente. È una sensazione che non ha nulla a che vedere con qualcosa di simile, come la perdita del significato filosofico dell’Io come coscienza, oppure della nostra posizione nel mondo, o la perdita del senso del nostro lavoro, dei nostri sentimenti: è qualcosa infatti di più complessivo e totalizzante. Io ho sempre usato questo pronome, fin da bambino ho risposto a questo nome ed ho sempre saputo che cosa designavano sia l’uno sia l’altro; anzi, quei suoni mi confermavano: proprio intorno ad essi, dentro di loro, io percepivo me stesso. Nei momenti in cui divengono puro suono, io ancora sento me stesso e percepisco il mondo; ma sento estranei quei termini che prima erano consueti, eppure non ho altre parole per sostituirli, perché ho sempre usato quel pronome e il mio nome, non tanto per rapportarmi a tutto il resto quanto per comprenderlo. È come se mi mancasse l’inizio della comprensione; anche se è pur vero che la comprensione non può mai avere un inizio assoluto…
Noi viviamo in un mondo pieno di significati; ma proprio i significati sono instabili. Il significato non è un’acquisizione stabile. Il significato è malamente appiccicato alle parole e dietro alle parole c’è qualcos’altro che ha, forse, un significato. Le parole stanno troppo strette addosso alle cose che designano e quando si scollano da queste diventano un suono che ci smarrisce: gatto, io, Giorgio, Maddalena… Provate a ripetere a lungo il vostro nome: non vi ritroverete più.
Le cose hanno un significato: il nome suggerisce qualcosa; ma è un suggerimento che subito sfuma e spesso si contraddice. Al bambino si mostrano oggetti, a questi oggetti si associa una parola, un suono. Il bambino guarda le labbra, ascolta il suono, vede l’oggetto; ma l’oggetto era prima delle labbra e del suono; egli lo aveva già percepito; però, forse, quelle parole, quei suoni, se pur non quelle labbra, le aveva già dentro.

Io credo nella trasmissione genetica dei concetti, almeno di alcuni, così come di alcune esperienze e fantasie. Perciò le labbra che, muovendosi, producono un suono e uniscono questo suono ad un oggetto, forse violentano l’esperienza interna del bambino, che ha in sé altre esperienze, altri ricordi, altre fantasie, altri suoni.
Ma l’essere umano è davvero così incomprensibile? È così incomprensibile perché è l’uomo stesso che deve comprendersi; e come può comprendersi un essere che non sa di dove viene e non sa ancora dove andrà? L’essere umano è sempre troppo complesso: le semplificazioni lo impoveriscono talmente che, talvolta, lo distruggono. Eppure la ricchezza dell’essere umano è quasi inesprimibile. Gli psicopedagogisti parlano di come il bimbo apprenda, delle tappe della sua evoluzione psicolinguistica, di come acquisisca i concetti, di come passi dal concreto all’astratto. Teorie che sono sempre riduttive; ma che sono riduttive perché non hanno, per lo più, la consapevolezza di essere tali. Credono di esaurire la totalità dell’esperienza umana.

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Io non penso che si viva in un mondo di illusioni. L’illusione non sta di fronte, dietro o sopra la realtà; ma la realtà si intreccia, convive con l’illusione; anche l’illusione ha la sua realtà se è riconosciuta. Uno dei due poli: illusione-realtà, deve però essere preso come punto di riferimento: l’illusione per misurare la realtà e la realtà per misurare l’illusione. Nessuno dei due punti di vista è sufficiente di per sé; ci si deve spostare continuamente dal punto di vista dell’illusione e guardare la realtà e viceversa, la verità continuamente contraddetta è l’unica possibilità umana.

La mente né soltanto scopre, né soltanto dà significati. Non li scopre perché altrimenti la verità oggettiva sarebbe una possibilità: se il significato fosse il disvelamento, basterebbe assistere al mondo della verità che si manifesta; ma così non è. Millenni di contraddizioni, se pur non hanno ancora fiaccato l’arroganza di qualcuno, stanno lì, immobili, a dimostrare che la verità non si disvela. La verità è una conquista e il significato delle cose non coincide con la verità della cosa. Il significato è anche un dono che la mente fa alla cosa. Se è un dono, di dove viene? Se non corrisponde alla cosa, la cosa che cosa è? La cosa non è altro che un frammento dell’essere; rimane nel suo desiderio di svelarsi; ma al suo disvelamento si sovrappone il dono che la mente fa. La volontà di cogliere il significato delle cose avvicina alla verità e, nello stesso tempo, ne allontana. Il passivo atteggiamento che attende il manifestarsi della cosa fermerà la mente umana sempre un passo prima della comprensione. Esiste un mondo, esistono gli uomini, esistono le cose. Gli uomini vanno verso le cose; le cose, forse, si dirigono verso gli uomini. In questo forse si annida un nuovo problema, che è sempre lo stesso, la vecchia domanda di Pilato: «Quid est veritas?»

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Che cos’è, allora, la verità della follia? «Il folle non è capace di intendere e di volere» e poi, ancora: «Il folle è pericoloso per sé e per gli altri» e poi ancora si può dire che «Il folle è colui che non rispetta le regole della società in cui si trova a vivere». Però, nello stesso tempo, il folle rispetta le regole del folle: per poter essere definito «folle» deve assumere un comportamento che lo renda riconoscibile come tale. Allora, rispetta alcune regole: il folle rispetta le regole come tutti; rispetta le sue regole di folle. Ma, se il folle rispetta le regole che la società ha imposto ai folli, il folle non è mai folle. Il folle è colui che rispetta regole che contraddicono altre regole. Non è possibile vivere senza regole: i comportamenti sono già tutti catalogati. La società non ha aspettato gli uomini singoli per darsi le regole. Allora le regole erano prima, come le idee trascendenti di Platone? Ma anche le idee sono nel mondo, chiuse in questo cerchio magico.
Nulla può trascendere il mondo, perché ogni luogo è «mondo». Anche il folle, quindi, rispetta alcune regole, forse tutte le regole che deve; non solo per essere riconosciuto dagli altri come folle, ma anche per riconoscere se stesso.

Si vive, allora, prigionieri di un copione monotono e sempre identico? Questa possibilità mi fa paura ed io la rigetto lontano da me. Certo è che nessuno riesce ad inventare del tutto il proprio comportamento: non lo inventa il folle, né l’impiegato del catasto, o il pescatore, o il minatore e neppure il rivoluzionario. Tutti hanno un comportamento che si richiama a gesti già consueti, riconoscibili. Perciò il folle ha un comportamento da folle.

Se prendete i trattati di psichiatria, vedrete che, quando parlano della psicosi o delle psicosi, descrivono soprattutto comportamenti. Le cause affondano in misteriosi intrichi organici e sociali. Se il folle è anche il frutto della descrizione della follia, ogni società avrà, ovviamente, le proprie follie. Poi, all’interno di ogni tipo di società, le varie correnti scientifiche, filosofiche, politiche, descriveranno la follia ed il folle in modi un po’ diversi. Poi ci sono io, il singolo, che ho una mia idea di follia, ne dò anch’io una descrizione, ma non mi posso fermare qui. I miei concetti di follia e di folle sono un po’ diversi da tutti gli altri. Allora, il folle non esiste, è soltanto nella fantasia di coloro che fantasticano la follia? Si potrebbe dire anche così; ma non perché la follia in sé non esista. Lo si potrebbe dire se si credesse appunto, che tutto sia illusione. La follia e il folle, come tali, esistono. Io percepisco la follia dentro di me e provo smarrimento e paura, sentimenti che mi porto addosso e da cui spero di sapermi difendere. Vedo la follia negli altri, in alcuni che si comportano da folli.
Anche la follia, in parte, si svela, si presenta. Ciò che, per il momento, è ancora oscuro è la sua origine: ma forse l’origine di tutto è oscura.

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Ho detto più volte che la malattia mentale grave insorge nell’essere umano quando si sovrappongono i due meccanismi difensivi primari: il narcisismo e il sadomasochismo, difese presenti da sempre nell’uomo. Non sono di certo originarie: prima c’è altro, c’è disponibilità alla vita e al piacere; ma la storia di ognuno è fatta anche di frustrazioni, contro le quali si mettono in atto le difese. Narcisismo e sadomasochismo sono presenti in tutti gli esseri umani, anche in quelli ritenuti psichicamente più sani. Proprio il sovrapporsi di questi due meccanismi difensivi chiude l’essere umano al mondo, o meglio: l’essere umano decide di comunicare con gesti, parole e fantasie incomprensibili agli altri, o almeno comprensibili solo nella loro ritualità di follia.

Sono consapevole che nessuna delle teorie più o meno scientifiche che tentano di descrivere e di comprendere la follia sono adeguate. Sia coloro che la ricercano nei traumi infantili, sia coloro che la ritengono soprattutto causata da una società ingiusta e malvagia e neppure coloro che tentano di trovare nell’organismo del folle qualche cosa di anomalo e costante nella sua anomalia, sono ancora riusciti a porre nelle mani di chi vuol curare questo disagio adeguati strumenti terapeutici o sufficienti parametri di comprensione. Ho detto che l’origine prima delle cose è sconosciuta, penso che forse rimarrà sempre ignota: questa è la condizione umana, almeno fin che l’uomo sarà fatto in questo modo.
Ma qui non voglio parlare delle cause prime, che affondano sempre in qualcosa di metafisico. Per metafisico non intendo irreale, metafisico vuol dire al di là della descrizione rigida di un mondo tra i tanti mondi possibili. Anche l’origine di una carie dentaria affonda nei sogni della metafisica. Per me, i sogni sono reali come la realtà. Sono la realtà che si specchia in un altro specchio — verrebbe da dire: deformante; ma sarebbe una banalizzazione —. Il sogno è uno specchio della realtà e basta. Ciò che chiamiamo realtà della veglia non è che un altro aspetto del rispecchiamento della realtà. Io stesso, dopo aver letto, studiato, osservato, ho dato i miei parametri: ho dato e mi sono dato parametri di lettura, per interpretare e comprendere ciò che io chiamo follia. Questi strumenti li sento inadeguati: c’è sempre qualcosa che mi sfugge; la contraddizione si annida dovunque, ma non è la sana contraddizione che permette di andare allegramente all’assalto della comprensione, bensì una contraddizione che mina spesso le fondamenta delle mie costruzioni teoriche; la sento lì, presente, cattiva, annidata nelle pieghe oscure del mio ragionamento; spero di non accorgemene e spero che gli altri non se ne accorgano. Però io credo anche in quello che dico; credo di avere capito, almeno un poco, l’essere umano, e quindi anche la sua esperienza di follia; ma sono consapevole che è troppo poco. Ovviamente la ricerca deve continuare: oggi, domani e ancora dopo; ma non si ha tempo di attendere, bisogna intervenire subito. Stranamente (questa è una mia personale esperienza, senza dubbio, altri avranno esperienze diverse), la cosiddetta follia è molto più aggredibile e curabile di quanto non si creda e soprattutto di quanto non dicano i trattati. Ricordo che, molti anni fa, uno psichiatra alle cui lezioni io assistevo, diceva spesso che la schizofrenia è la follia per eccellenza ed è inguaribile: se qualcuno ne guarisce è perché la diagnosi era sbagliata e non si trattava veramente di schizofrenia. Io ho avuto esperienze molto diverse: persone che quello psichiatra avrebbe definito schizofreniche sono guarite lavorando con me. Dico: guarire, in modo spudorato e compromettente. Io ho lottato disperatamente con altri che, insieme con me, sono guariti dalla schizofrenia, che è la follia per eccellenza. Io non accetto più questo termine nella mia nosografia e l’ho usato qui solo per raccontare di quel vecchio psichiatra. Ancora mi stupisce l’esiguità delle conoscenze messe a disposizione dalla ricerca. C’è un baratro oscuro tra le conoscenze, le chiavi di lettura e la capacità di intervenire. Temo che quel baratro sia molto profondo e non so se si riuscirà mai a colmarlo. Si farebbe un grande passo avanti nella comprensione del disagio mentale, se si potesse capire perché qualcuno diventa folle. Se esistesse un solo folle e se avessi avuto una sola esperienza di rapporto con un folle, credo che sarei convinto di saperlo, perché in ogni folle c’è una ragione della sua follia, o almeno io credo di trovarla, di vederla. Se però metto a confronto situazioni diverse, allora tutto mi si intorbida: non trovo più costanti sufficienti, mi accorgo di dover inventare troppo per trovare cause assolutamente non equivoche, costanti e che non siano addirittura uniche. Eppure la follia sta lì, di fronte a me, col suo linguaggio, i suoi riti, la sua sofferenza. Io intervengo, talvolta con sicurezza, anche se non so di dove venga questa tranquillità. Non è ancora tempo adesso di analizzare compiutamente ciò che io intendo per follia. Tra le esperienze più belle della mia vita io metto quella in cui vedo, davanti a me, lentamente, svanire la follia. In due abbiamo vinto i fantasmi; non li abbiamo distrutti, li abbiamo controllati. Lui ed io, assieme, ci ritroviamo qui, nel tempo presente, con un percorso doloroso e faticoso alle spalle. Poi, talvolta, l’ansia ritorna, quando la mente comincia di nuovo a vacillare; ma oramai sono concreto e fisicamente percepibile, e allora, con timore e tremore, nuovamente ci ritroviamo: lui ed io. Mi sorge dentro, allora, un sentimento di riconoscenza, che lascio lì, come una tranquilla tenerezza.

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Mi telefonò il padre, cortese e disperato; mi disse che suo figlio era sempre stato bene: allegro, sano, sportivo, forse non troppo brillante a scuola; ma sufficientemente in gamba da cavarsela. Ora, a diciotto anni appena compiuti, improvvisamente, il ragazzo aveva perso la testa. Tutto era successo dopo la festa dei diciott’anni con gli amici, una grande festa. Loro, i genitori, non c’erano, e il mattino dopo il ragazzo non si volle svegliare; poi incominciò a dire che stava male, che i sogni non gli andavano via dal cervello, che alcune macchine giravano attorno alla casa, un villino, un po’ fuori città. Non uscì per qualche giorno: si chiudeva ad ascoltare musica e usciva di camera solo per i pasti, con gli occhi strani. Gli amici lo chiamavano, lui non voleva rispondere al telefono. Il padre e la madre parlavano tra loro, disperati: senza dubbio la droga, il fumo o forse… forse l’eroina. Una sera si fece una doccia, poi disse: «Esco». Aveva l’aria allegra; i genitori erano in ansia; tornò a casa, la notte, molto tardi. La madre si alzò; lui era in cucina, la madre gli si avvicinò, lo guardò negli occhi, lui aveva in mano un coltello, stava affettando il prosciutto, sorrideva. Con cura precisa affondò la lama nell’avambraccio nudo della madre, che rimase esterrefatta; lui, ridendo, corse a chiudersi in camera. Il medico di famiglia lo imbottì di psicofarmaci: parlava di delirio, di un ricovero. Un medico all’antica: forse anche qualche elettroshock. I genitori non volevano questo. Lui era inebetito dai farmaci, stava a letto ad ascoltare la musica, talvolta rideva, talvolta piangeva; continuava a parlare di quelle macchine che giravano intorno alla casa, che lo sorvegliavano, lo volevano aggredire; e poi parlava ancora di altre cose: di un nano, di un nano piccolo, piccolo; e qualche volta rideva e qualche volta piangeva. Adesso non voleva più prendere medicine, perché temeva lo volessero avvelenare. La voce del padre, al telefono, era sempre più triste, si sentiva un’ansia disperata. Io domandai: «Ma il ragazzo vuole venire da me?» Il padre mi rispose che lo voleva. Lui venne da me: tranquillo, un po’ barcollante. Un ragazzo bellissimo, straordinariamente bello e mite; sedette al mio fianco, senza interesse e senza timore. Incominciai a fargli domande, mi rispondeva minuziosamente e con indifferenza. Mi raccontò la sua vita: la vita di un ragazzo felice. Nato in una famiglia agiata, un fratello maggiore, un padre e una madre sufficientemente in accordo, la scuola, lo sport, molte ragazze, amici, viaggi, mai nessuna malattia. E adesso? Lui mi disse «Adesso niente, adesso mi perseguitano». Come mi confermarono i genitori, era sempre stato un bambino sereno, allegro, estroverso, sano; non aveva avuto mai particolari paure, anzi, fin da bambino, era molto coraggioso. La madre, mentre mi parlava, piangeva sommessamente: «Sapesse quanto mi brucia questa ferita al braccio!» Il padre era attonito; anche lui raccontava del suo bambino, di suo figlio, bello come nessun altro, e le ragazze e gli amici lo cercavano, da sempre. La madre mi domandò: «Perché tutto questo?» Io risposi: «Non lo so». Non c’era nessuna ragione, eppure il ragazzo, che continuava a venire da me accompagnato dai genitori, disinteressato, ma tranquillo, mi raccontava di paure interne, che non sapeva se aveva sempre avuto o se gli erano esplose improvvisamente dopo la festa dei suoi diciott’anni. «Avevi fumato?» Lui mi rispose: «Sì; ma avevo fumato anche prima, molte altre volte». Il fumo non era stato che la causa scatenante. Le paure e i fantasmi serpeggiavano dentro di lui, chissà fin da quando. Ma la vita esteriore era sempre trascorsa serena, senza grossi traumi: soltanto traumi interni. Come è possibile tutto questo? Quei traumi erano davvero soltanto interni? Lui mi riversava addosso fantasie terribili, avute da sempre; e la vita, fuori, scorreva, apparentemente tranquilla. Perché tutto questo?
L’altro me lo portarono due amici suoi: un ragazzo e una ragazza, petulanti, presuntuosi, insopportabili: loro sapevano tutto e avevano capito tutto. Il ragazzo, anche lui diciott’anni, o poco più, era sempre stato male. La madre era alcolista e non aveva mai badato ai figli: lui ed altri due ragazzi. Violenta e aggressiva, li legava e li picchiava. Il padre, inetto e imbelle, stupido, mi avevano dichiarato in coro i due, non aveva mai avuto voglia di lavorare. I due sapevano tutto e si erano preoccupati di farmi un resoconto completo, la prima volta che erano venuti, da soli, a parlarmi. «Noi lo conosciamo da quando eravamo piccoli. Lui a scuola spesso tremava, ricordava il ragazzo, già da allora suo compagno di classe. Tremava, se la faceva sotto e piangeva. Gli altri lo canzonavano e lo aggredivano. La madre era rissosa con tutti, non pagava i debiti». Il ragazzo e la ragazza avevano continuato a lungo a raccontare, petulanti e tronfi. Lui era lì un po’ spaurito, bruttino, con il volto coperto di abrasioni e di cicatrici. Anche il nonno era stato un alcolista. Lui non aveva mai avuto voglia di parlare con gli altri. Stava con loro, ma non parlava. Un giorno, in un bar, prese a bere un caffè, posando le labbra proprio nel punto dove il manico si attaccava alla tazzina; non volle dire il perché. Poi raccontò che sulla porta di una chiesa aveva incontrato un vecchio, grasso, scuro di carnagione e con i capelli bianchi, che gli aveva detto di essere Gesù Cristo; ma lui sapeva che era il diavolo, il diavolo che lo perseguitava. Quella fu la volta che parlò di più. Poi non volle più uscire di casa, prese a rintanarsi, ad essere sporco, a non mangiare. Un giorno scomparve. Il padre andò a dirlo agli amici. A quei due. Lo cercarono dai nonni, lo cercarono per le strade. Dopo due giorni arrivò una telefonata da un ospedale della città: l’avevano trovato, tutto ferito, in fondo ad una scarpata; ma non era stato un tentato suicidio, era scivolato, si era scorticato, fatto molto male. I due erano accorsi all’ospedale e lo avevano visto là, inebetito, che parlava di Gesù Cristo e del diavolo: due essenze in una.

«Forse non diceva proprio essenze, ma come se fosse» diceva la ragazza che era più sapiente… Poi, insieme, improvvisamente, i due erano diventati umani e mi avevano domandato, sinceramente accorati: «Perché tutto questo?» Io avevo risposto: «Non lo so».

9 – Gennaio ‘85

martedì, 1 gennaio 1985

La colpa è tutta delle mamme, che imperversano a pranzo e a cena con i loro spaghetti al pomodoro e la solita fettina! Finito il tempo in cui i giovani di sinistra circolavano coi capelli sporchi, sostando in pizzerie puzzolenti, perché erano convinti che vivere voleva dire soffrire, è subentrata negli stessi una gran voglia di godere anche dei piaceri della tavola. Maschietti e femministe hanno incominciato a discutere di vini e cucina: ma decenni di diseducazione, ignoranza e frustrazione hanno fatto sì che a Roma abbiano preso il sopravvento locali sempre più turpi, in cui giovani e meno giovani si precipitano, fuggendo dalle proprie case, a mangiare orribili pastrocchi, a bere vinacci mal tenuti, in ambienti kitsch e presuntuosi e a prezzi sempre più elevati.
Prima erano i locali alternativi e le vinerie che attraevano con la promessa di assaggini sfiziosetti; poi sono subentrati i veri ristoranti dai menu sempre più insoliti e stravaganti.
Uno di questi locali si chiama 11 merlo maschio e si trova in via del Governo Vecchio, al numero 12: la scena si presenta come un succedersi di stanzini, con molti specchietti colorati, frange e moquette, tavolini minuscoli e sedili di inarrivabile scomodità, accentuata dalla lunga attesa cui l’immancabile affollamento costringe gli avventori.

Un menù esotico con puntate franco-atesine. Noi abbiamo provato penne alla harissa, follia fredda e cruda, piccante e basta; una fonduta di crépes coi funghi che si presentava come uno straccetto di pasta coperto da un indefinibile e salato agglomerato di ingredienti; il filetto al cognac pareva, più che altro, un improbabile dessert al liquore; l’insalata Scick (!) era un delirio di foglie di lattuga in salsa rosa sprofondata in un gigantesco catino. A questo si aggiungevano hamburger della peggior tradizione e un allucinante panino arabo. Due giorni prima, avevamo notato, in un supermercato, un Prosecco dei Colli Trevigiani a 1.200 lire la bottiglia; qui lo abbiamo ritrovato a seimila. Il conto salato viene porto insieme a un mazzetto di sigari (allusiva ironia?). Come vedete basta saperci fare!

A poca distanza dal precedente, nella stessa via al numero125 c’è un locale chiamato lo
Chef du Village; la formula è qui più precisa: franco-araba, articolata in caffè moresco, ristorante francese e sala da thé; ogni sala con l’appropriato décor, pampini al soffitto, tappeti e tavolinetti intarsiati, tendoni rossi, bambù laccato di bianco, finte finestrine provenzali, video music senza audio. Lo chef veste in stile cosacco-maremmano, pochi gioielli e radi ricci biondo-grigi e, nel più puro stile villaggio, dirige alcune fanciulle che vi apparecchiano il tavolo con tovagliette di plastica verde speranza e posate avvolte nel tovagliolo di carta. Vi raccontiamo il nostro calvario: cocktail di scampi in salsa rosa, proprio come ve lo potete immaginare; tartine di paté di fegato d’oca espresse in desolati triangolini di pan carré al sapor di scatoletta; fettuccine alla sorrentina, alla mozzarella e guanciale, mal crude e insapori; pasta e fagioli marinara, che offende prima l’olfatto e poi il gusto; gnocchi al cervello, stranamente saporiti non scarsi. La tristezza sale con l’arrivo dei secondi: bistecca alle erbe, scaloppine alle mele e filetto al pepe verde sono i nomi diversi attribuiti all’identico pezzo di carne semi-cruda ricoperta di salsette variamente cattive; il cervello fritto è unto pesante; le cosiddette patate al forno paiono di pietra e nell’insalata dello chef torna la salsa rosa. Una carta dei vini squilibratissima che presenta ben 17 tra vini bianchi, spumanti e champagne, Lancers Matheus tra i rosé e solo tre vini rossi. Fuori carta, ci è stato offerto un S. Giocondo Antinori e abbiamo visto anche un Beaujolais Nouveau, che si son ben guardati dal proporci. Noi abbiamo bevuto una prima bottiglia di Sauvignon Ladeger inaspettatamente buona e quando ne abbiamo richiesta una seconda ci siamo visti portare in tavola una bottiglia diversa (e peggiore) senza nessuna spiegazione.

Ma dobbiamo dirvi che in questo deserto abbiamo trovato una gemma: dietro al bianco bancone del bar, sta una fanciulla dai capelli corti che, lì per lì, sembrerebbe un po’ aggressiva; ma che poi si rivela, simpatica, timida e gentile e che, quel che più conta, sa fare bene il mestiere di barista: prepara cocktail eccellenti, usando i giusti ingredienti, che miscela nei contenitori prescritti (e non tutti nello shaker): le siamo ancora grati per la consolazione che ci ha dato.

Come ormai usa, il conto è sconvolgentemente alto. Ritorniamo alle fettine della mamma?

9 – Gennaio ‘85

martedì, 1 gennaio 1985

Questa volta vogliamo parlare di due libri che hanno qualcosa in comune: la loro natura di raccolte di saggi scritti in varie epoche, la somiglianza degli stili e la collocazione geografica e culturale dei due autori, entrambi docenti all’università di Torino.

I Costumi della Traviata di Massimo Mila (Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1984, pagg. 325 Lit. 25.000) raccoglie una serie di articoli e saggi scritti in tempi diversi e ordinati secondo un criterio che non è quello cronologico della loro stesura, ma quello di un itinerario ragionato lungo la storia dell’opera in musica dalle origini ai nostri giorni. Non però nella forma di una storia del divenire di questo genere artistico; ma attraverso sprazzi di luce che illuminano un aspetto, un momento di questo evolversi. La scrittura sciolta e semplice rende la lettura quanto mai piacevole. Le osservazioni, sempre intelligenti, talvolta pungono, fanno riflettere sui problemi dell’arte e del suo significato – e non solo dell’arte musicale – ieri e oggi.

Il teatro in musica sorge a Firenze nel tardo Cinquecento, ha il suo assetto di genere autonomo nel Seicento, continuamente si trasforma – come i costumi della Traviata, opera che viene presa come punto nodale del divenire del melodramma -. Fino a che l’Ulisse di Luigi Dallapiccola apre il problema se oggi abbia ancora senso questa forma d’arte. I vecchi linguaggi sono superati; ma i nuovi riescono a parlare in teatro? Un’opera nuova deve essere rodata, come una macchina, dice Mila, e solo alla fine del rodaggio si sarà in grado di dare un giudizio. Vale ancora la pena di far raccontare storie cantate dall’inizio alla fine con accompagnamento dell’orchestra? Perché no? Si potrebbe rispondere.
Le acute osservazioni di Mila stimolano miriadi di riflessioni nell’ascoltatore e nel compositore; e, in effetti, vien voglia di dire: Perché no?

Il libro di Noberto Bobbio Il Futuro della Democrazia (Einaudi, Torino, 1984, pagg. 170, Lit. 12.000) è un libro estremamente intelligente e terribilmente pericoloso. Le analisi sono lucide, precise e chiare. Guai però se il libro cadesse in mano di uno stupido: indurrebbe in costui la convizione panglossiana che, questo in cui viviamo, sia il migliore dei mondi possibili. Bobbio è un illuminista saggio, quindi, sotto sotto, è un ottimista e spera in un mondo migliore retto da una buona democrazia. Ci spera; ma, da tutte le parti salta fuori che non ci crede troppo. Il primo saggio, che dà il titolo alla raccolta, mette molta ansia e paura: parla delle promesse non mantenute della democrazia, che sono sei – e sono così gravi che, alla fine il lettore si domanda se la democrazia sia una possibilità umana -. Negli altri articoli continua disperatamente a convincerci di sì, di sì e di sì: problemi politici, filosofici e giuridici sono esposti con semplice precisione, ma ovunque serpeggia l’inquietante ipotesi che, tutto sommato, la democrazia sia un falso storico e una gigantesca illusione. Questo piccolo libro è anche utilissimo a chi vuole avere una panoramica sulla filosofia politica dall’antica Grecia ad oggi. Tutti possono capire e i lettori intelligenti sono indubbiamente stimolati alla riflessione. Nonostante tutto, vi è un invito continuo a lottare perché diventi vero che il governo della democrazia sia anche il governo delle (buone) leggi.

9 – Gennaio ‘85

martedì, 1 gennaio 1985

Dà sempre una gran tristezza trovarsi di fronte ad un lavoro eseguito con dilettantesca sciatteria; quando poi questo accade con un’opera di Mozart sorge nell’animo anche un senso di ribrezzo. Siamo rimasti veramente stupefatti del modo in cui Peter Maag ha diretto il Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, con cui si è inaugurata la stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma. L’orchestra, opaca e confusa, tentava disperatamente di affossare lo splendore della musica, per fortuna senza riuscirci. Tutto era impreciso, approssimativo, come ad una prima lettura; ma Peter Maag è un solido musicista e conosce molto bene Mozart: non riusciamo proprio a spiegarci come ciò sia accaduto. Già l’Ouverture è stata contrassegnata da una assoluta opacità e da molta confusione: le due parti in cui è divisa non erano minimamente distinte tra loro. Anche nel resto dell’opera tutto risultava impreciso, mentre ogni frase musicale, ogni colpo dei timpani, ogni particolare ha un suo preciso significato, sempre; è inutile analizzare brano per brano. E che tristezza quei tromboni, che devono caratterizzare la presenza metafisica ed inquietante del fantasma del Commendatore che erano invece quasi gettati via, senza farne risaltare alcuna drammatica potenza! L’orecchio, qualche volta, si riposava piacevolmente nei recitativi secchi, ascoltando le meravigliose e teatralissime capriole del clavicembalo. Abbastanza dissennata è stata la scelta degli interpreti, in primo luogo quella di affidare il personaggio di Leporello a Bruno Pola, una bella voce di basso, per nulla comico, voce profonda e tragica, affatto in contrasto con l’impostazione solo buffonesca data al personaggio nei gesti e nelle azioni. Stridente e ridicolo il confronto con il personaggio del Commendatore interpretato da Bengt Rundgren, la cui voce, ben intonata, risultava esile e frivola, da soubrette di rivista. Correte, ma piatte e psicologicamente non delineate, le figure di Donna Anna, impersonata da Winifred Faix Brown, e di Donna Elvira, cui dava voce Mariana Nicolesco: Mozart non lo si può soltanto cantare eseguendo le note e basta. Ottima Adelina Scarabelli, nella parte di una deliziosa Zerlina, dalla voce duttile e fresca, unita a una grande scioltezza e adeguata presenza scenica; buono pure il Masetto di Domenico Trimarchi. Bravo, vibrante e rotondo, anche se forse troppo austero e rigido nei movimenti Thomas Moser, nei panni di Don Ottavio. Bravissimo, secondo noi, Silvano Carroli: voce adatta per Don Giovanni, ricca di armonici, precisa nelle note alte e in quelle basse, ironica e tragica. Certo, una voce ancora acerba, ma che rivela uno studio attento; la persona stessa ha dimostrato di avere una buona capacità teatrale, con gesti e movimenti giusti e in accordo con la voce. Le scene di Michel Lebois, i costumi di Emmanuel Peduzzi e Jacques Schmidt, le luci di Alain Poisson, le coreografie di Flavio Bennati erano invece «orchestrate» da Jerome Savary, la cui regia faceva da buon pendant alla direzione di Maag, anche un po’ peggio che dilettantesca: ottusa, laida e sciatta. Un assemblaggio di marchingegni e trovatine, come diapositive, diavoletti e tette al vento che parevano soprattutto voler evitare ogni cifra di lettura sospettabile di essere mozartiana, con grandi oscillazioni dal feuilleton al circo, al vampirismo televisivo.

Una cosa che ci ha fatto molto piacere è stata la polemica, la sera della prima, tra i fischi del loggione e gli applausi degli entusiasti. Qualche cretino tra gli invitati in smoking ha detto arricciando il naso: Ma che vadano a Roma-Lazio! Meno male invece che c’è qualcuno – ma diranno che è pagato – che si appassiona e urla al Teatro dell’Opera per il Don Giovanni di W.A. Mozart!

Psicoanalisi contro n. 9 – “Là ci darem la mano”

martedì, 1 gennaio 1985

Sono secoli, anzi millenni, che i sapienti dibattono il problema della bellezza. La domanda che è sottesa a tutte le dotte disquisizioni è la seguente: «È bello ciò che piace, o piace ciò che è bello?» Problema probabilmente insolubile, ma che ritorna ogni qualvolta si parla di arte. Allora il problema va posto su di un altro piano: «L’arte esprime il bello oppure l’arte esprime e ogni espressione, se è profonda, diviene bella?» Ogni gruppo sociale ha il suo concetto di bello. Al bambino si mostra un piccolo fiore azzurro e gli si dice: «Come è bello!» E lui osserva e pensa: «È bello!» Poi lo si accarezza e gli si dice: «Come sei bello!» E lui, un giorno, si metterà davanti allo specchio e sarà convinto di vedere un bambino bello. In una stanza c’è un quadro con un’orribile cornice dorata: un rettangolo di legno, su cui oscene roselline di legno, impietosamente, incorniciano un dipinto; il quadro rappresenta una marina: un irritante blu volgare, con onde di spuma bianca, rigida, una casetta rossa sulla riva, una vela gialla laggiù, e qui, davanti a tutto, una roccia irta e grigiastra; dalla descrizione non si capisce quanto quella immagine sia brutta, eppure quel quadro si trova in una stanza piena di oggetti «sacri»: divani intoccabili e in un armadio una bottiglia di liquore, quel quadro è in mezzo alla parete bianca. Il bambino entra socchiudendo lentamente la porta: lì nel mezzo, come su di un altare sta quella marina: l’opera d’arte della casa. Il bambino un giorno cominciò a domandarsi: «Ma è veramente bella?» La mamma, il papà, la nonna, dicevano di sì; ciononostante il bambino pensava: «Ma è veramente bella?» Una volta, sul balcone, ebbe il coraggio di dire a se stesso «È brutta». Provò un grande senso di colpa, eppure ripetè: «È brutta». Questa storia me la raccontò un tale durante una seduta di psicoanalisi, dopo aver fatto un sogno in cui si era rappresentata una scena splendida: un mare, una casetta, una vela gialla, una roccia grigia. Aveva fatto precedere il racconto dall’affermazione: «Questa notte ho fatto un sogno meraviglioso, ho visto una scena splendida, che mi piacerebbe poter dipingere, se fossi un pittore; era una cosa meravigliosa, era la bellezza!» Facendo in seguito le associazioni, affiorò quell’immagine e quel quadro. Io non dissi nulla; trascorse il tempo della seduta e quella persona se ne andò barcollando; era l’ultima persona che avrei incontrato quel giorno: mi alzai; dovevo uscire per andare ad un concerto; ma ugualmente mi sedetti al pianoforte: la mano destra cominciò a fare sulla tastiera prima una melodia, sinuosa, in la: la si do diesis re la… cantavo: «La… la»; la nota la si trasformò nell’avverbio là: «Là ci darem la mano…». Allora la mano accennò quella melodia del Don Giovanni di Mozart, aggiunsi sulla tastiera anche la mano sinistra, feci una variazione, poi ancora la melodia da sola, bella: «Là ci darem la mano…» Quella è la bellezza: un accennato giuoco di seduzione, di Don Giovanni verso una fanciulla che non è però un’ingenua, anzi è proterva e dongiovannesca come lui, ma lei riesce a sedurre, mentre Don Giovanni non ci riesce.

In Don Giovanni è espresso tutto l’odio di Mozart per le donne: l’unico contatto fisico che il personaggio del Don Giovanni mozartiano ha in tutta l’opera è con la fredda mano del commendatore. Don Giovanni non bacia mai, né abbraccia nessuno; Don Giovanni non insegue le donne, ma la trasgressione. Don Giovanni: un maestro senza maestro. Per questo è dannato a cadere nelle fiamme dell’inferno. Ecco un altro: la; il la su cui urla il suo «No!» Un rifiuto a diventare un imbecille, con moglie e quattro figli: «Non più andrai farfallone amoroso…» Eppure il farfallone continuerà il suo eterno andare. Mozart odiava le donne perché amava il mondo. Il piccolo e volgare Lorenzo Da Ponte, ottuso e sciatto, rabberciava versi con un’efficacia grassoccia, talvolta con un’istintiva teatrale sapienza, ma quei versi non sono che il pretesto: è quella musica che dice tutto. Ma che cosa dice? Dice la bellezza? Allora la vita è bella? La vita è soltanto bella? E l’odio può essere bellezza? Ma quello era un odio inconsapevole. Aver vagheggiato un personaggio, essersi identificato con un eroe che ha come suo unico scopo quello di sedurre le donne, ed avere poi scritto un’opera in cui il seduttore non riesce in realtà a possederne alcuna: «Deh vieni alla finestra, o bell’idol mio…». E il mandolino fa un’altra melodia, ironica: l’idolo è alla finestra, lontano, il mandolino sorride. Allora la vita è bella? Mozart l’ha resa bella. Mozart aveva paura delle donne: ci giocava e ci scherzava: «Son orse benigne, colombe maligne…». Ma questo ancora è un libretto. Eppure la satira pungente viene dalla melodia, queste due frasi sono lì, flaccide, inerti. Sentitele cantare nelle orecchie: c’è anche tenerezza, un’infinita tenerezza per Susanna, per Pamina, per donna Elvira e anche per Bastiana.

La musica può esprimere il brutto? Quella di Mozart non può. Eppure io ritengo che la musica di Mozart possa esprimere tutto quello che al mondo c’è! Allora nel mondo non c’è il brutto? Il brutto è nell’allontanamento; nell’allontanamento dalla bellezza.
Io ho un punto di riferimento assoluto: la musica di Wolfango Amedeo Mozart. Per me è non solo la bellezza; ma tutto il mondo. In questo c’è una contraddizione che non saprò mai risolvere; forse perché non voglio. Se la musica di Mozart è bella, non può esprimere il brutto e se non esprime il brutto non esprime che una parte del mondo. Ancora: è così bella, che è più bella della realtà del mondo; quindi non esprime il mondo. La musica di Mozart non esiste, essa è una mia fantasia. Eppure la sento sotto le mie dita quando la suono, nelle orecchie quando l’ascolto; quelle note mi escono dalla gola quando le canto e diventano una melodia in cui mi smarrisco e per cui mi entusiasmo. Il Don Giovanni è un’opera che racchiude il mondo e la vita, in cui non c’è il brutto. Dopo il «No» di Don Giovanni, ecco che arrivano gli altri: le persone per bene, insieme con i tutori della legge, per arrestare Don Giovanni, l’assassino. Leporello dice loro con tono biblico: «Più non cercate. Lontano andò». Quelli rimangono di stucco, quella stupida coppia di Ottavio e donna Anna, lei proterva e lui pronto a farsi castrare; Zerlina e Masetto, che se ne andranno a cena con gli amici, lei prenderà lui per mano, e anche per il naso, come ha sempre fatto; donna Elvira, l’unica che ricorderà Giovanni con amore, se ne andrà in un ritiro; Leporello si cercherà un altro padrone. È questo un concertato meraviglioso: dopo le fiamme dell’inferno, dopo i tromboni del Commendatore e l’urlo di Don Giovanni ritorna la serenità della vita: una musica bellissima, per esprimere la banalità. Allora, Mozart riesce ad esprimere il mondo? Ma quelli sono esseri banali. La vita riprende nel suo squallore, ma se fosse sempre accompagnata dalla musica di Mozart? «Là ci darem la mano, là mi dirai di sì».

9 – Gennaio ‘85

martedì, 1 gennaio 1985

Non succede olto spesso di assistere a rappresentazioni come quella del Berretto a Sonagli di Luigi Pirandello, andata in scena al teatro Quirino con la regia di L. Squarzina e con Paolo Stoppa nel personaggio di Ciampa. La breve commedia dell’autore siciliano è tesa e compatta: non c’è una battuta di troppo – e, per un teatro che si regge esclusivamente sulla parola, ciò è molto -. È una storia di gelosia; ma rivela drammi ben più profondi. Più profondo di tutti è il dramma di Ciampa, che la sua padrona non esita a travolgere per la sua personale soddisfazione: il marito la tradisce con la moglie giovane e bella del vecchio Ciampa e lei non si perita di creare un pubblico scandalo che forse turberà il ritmo tranquillo della piccola società borghese; ma che certo rischia di distruggere completamente il vecchio Ciampa, messo al bivio tra il ridicolo e il delitto riparatore. Lo stratagemma della follia, vera e simulata, risolverà crudelmente e incruentemente la vicenda. Vogliamo, prima di tutto, parlare della regia di Squarzina che, ancora una volta, è sbalorditiva: precisa, ma discreta; tutto è calcolato, ma il calcolo serve esclusivamente ad esaltare ogni possibilità del testo. Nessuna sopraffazione ed ottusa violenza da parte del regista: gli attori (Miriam Crotti, Anna Maria Bottini, Stefano Lescovelli, Carla Calò, Rita Livesi, Anna Priori) si esprimono con la parola e con il corpo, perfettamente guidati ed assolutamente liberi; liberi anche di recitare male. Abbiamo detto: «Recitare male». Un’affermazione pesante di cui ci facciamo pieno carico: accenti standard, movimenti eccessivi. Per fortuna, la mano salda del regista teneva tutto in pugno e quelle enfatiche concitazioni parevano essere solo più pretesti: quasi il dramma si svolgesse altrove. Là dove spiccava un ottimo attore: Alberto Sorrentino, il delegato di polizia, commovente e laido, come quasi tutti i personaggi di Pirandello, spietati con se stessi e con gli altri, perché vili e disorientati; ma con un fondo di grandezza dato dalla disperata volontà di non rinunciare a vivere, cercando di illudersi di avere un senso: un senso che l’attore ha saputo dare, in ogni momento, al personaggio. Il commento musicale a cura di Paolo Terni era discreto, entrava al punto giusto, sottolineando efficacemente alcune atmosfere, ritirandosi poi timidamente; anche questa una scelta registica perfetta: non un accordo di troppo.

Le scene e i costumi di Gianfranco Padovani erano giusti nel realismo degli abiti e nell’eccesso opprimente degli ambienti che si chiudevano sui personaggi fino a schiacciarli.
E poi: Paolo Stoppa. Fin dal suo primo apparire sulla scena l’atmosfera si caricava di un grande ed intenso pathos. La rapidità del succedersi delle espressioni, la lentezza incisiva dei gesti, presentavano come meglio non si potrebbe la situazione del personaggio, insieme con la voce: voce meravigliosa, non perché bella di quella bellezza radiofonica di cui abbiamo piene le orecchie; anzi: impastata, sabbiosa un po’ nasale. Ogni battuta era detta in modo tale che, dopo averla udita, veniva di pensare che solo così la si potesse dire. Sappiamo che non è vero; però ogni grande interpretazione deve sembrare allo spettatore, in quel momento e lì, l’unica possibile.

Ripetiamo: grande interpretazione!

09 – Gennaio ‘85

martedì, 1 gennaio 1985

Caino e Abele

Il fantasma della libertà si agita al vento di ogni scandalo; ma la libertà giace sepolta, forse da sempre, o almeno dal giorno in cui è stato ucciso Abele.
Non la libertà di dire, ché, anzi, ogni cosa viene detta e le censure sono megafoni. Siamo liberi di usare la parola persino contro il potere, perché i suoi bavagli sono pieni di buchi e la soppressione brutale di chi parla ha tempi che non sono, quasi mai, immediati – e il problema, se mai, è quello di trovare orecchie capaci di sentire, poiché il numero e il volume delle voci rende impercettibili quelle più deboli -.
Ma la libertà di dire viene vanificata dalla quantità e dalla qualità del dire.
Si dice tantissimo: sulla democrazia e sull’eutanasia, sull’entropia e sulla mafia.
Il dire è quasi sempre fondato sul sentito dire e si esercita sul detto da altri, in una vera e propria orgia di opinioni, che hanno però come scopo, non tanto quello del dibattito delle idee, quanto quello dello scontro dei giudizi.

Il giudizio che si basa sull’opinione ha una costante: che è quella di essere una condanna. Ora, non è un caso che, insieme con la condanna, venga anche deciso che l’opinione dell’altro, o addirittura l’altro, non hanno diritto di esistere.
L’altra opinione e l’altra persona non hanno quindi diritto alla stessa libertà che si reclama per sé.
Due sono i vizi fondamentali di un tale modo di procedere.
Il primo vizio è che, in ogni caso, non si vuole ammettere che si considera pratica assolutamente legittima la soppressione dell’opinione, quando non della persona, dell’altro.
Il secondo vizio è che si considera sufficiente che il proprio giudizio sia basato sull’opinione e non abbia bisogno assolutamente di essere verificato dalla conoscenza.
Mentre si reclama il diritto alla libertà di dire quel che si pensa su qualunque cosa, non ci si impone il dovere di conoscere ciò di cui si parla.

Il creatore di opinioni è diventato il persuasore che non si assume responsabilità personali; ma che insegna a scegliere le idee e le persone.
Il linciaggio morale attraverso i grandi mezzi di comunicazione spicciola si presenta come l’alternativa positiva al gulag o alla desaparicion. Cattolici o marxisti, fascisti o borghesi, militanti tutti nel partito della opinione e dell’ignoranza e in nome di questi due principi pronti a distruggere ogni diverso.
A costo magari di un livellamento forzato di ogni sua peculiarità; attraverso l’uso di quella gran pialla che è il qualunquismo.
Il fantasma della libertà è forse nato dal sangue della prima vittima umana e Caino aveva la vocazione del columnist!

9 – Gennaio ‘85

martedì, 1 gennaio 1985

Per parlare della bella mostra di Riccardo Tommasi Ferroni alla Galleria Rondanini, di piazza Rondanini, ci si potrebbe invischiare nell’elencazione di una lunga serie di nomi di pittori: dai manieristia a David, che la sua opera fa affiorare alla memoria: «…e lì ricorda questo, e là ricorda quell’altro…»; ma, secondo noi, dirlo significa non aver capito la pittura di Tommasi Ferroni. Certo, vi sono molte citazioni; ma lo stile è autonomo, personale e coraggioso – ci vuole coraggio a dipingere bene – assolutamente inserito nel dibattito estetico contemporaneo. Una pittura non mistificante, lontana da fumosi intellettualismi e da quella miseria spirituale che ama travestirsi da austerità. Di fronte a chi guarda si apre un bel respiro luminoso e colorato; la luce radente si insinua dappertutto, in un attento dialogo con le ombre, che stanno lì a significare una leggera inquietudine; il disegno è preciso, talvolta ossessivamente realistico e taluni oggetti: una scarpa, un sacco nero di plastica, hanno l’aria stupita, come se fossero colti in una loro fantastica nudità.

Grande anche la ricchezza degli argomenti: bibbia e vangelo, ciclisti e cupole, un Mal di Roma annotato tra i ruderi dove annaspano gatti randagi o in campagne dove si svolgono epiche battaglie che sono del mondo della storia non meno che di quello del sogno.