9 – Gennaio ‘85

gennaio , 1985

Non succede olto spesso di assistere a rappresentazioni come quella del Berretto a Sonagli di Luigi Pirandello, andata in scena al teatro Quirino con la regia di L. Squarzina e con Paolo Stoppa nel personaggio di Ciampa. La breve commedia dell’autore siciliano è tesa e compatta: non c’è una battuta di troppo – e, per un teatro che si regge esclusivamente sulla parola, ciò è molto -. È una storia di gelosia; ma rivela drammi ben più profondi. Più profondo di tutti è il dramma di Ciampa, che la sua padrona non esita a travolgere per la sua personale soddisfazione: il marito la tradisce con la moglie giovane e bella del vecchio Ciampa e lei non si perita di creare un pubblico scandalo che forse turberà il ritmo tranquillo della piccola società borghese; ma che certo rischia di distruggere completamente il vecchio Ciampa, messo al bivio tra il ridicolo e il delitto riparatore. Lo stratagemma della follia, vera e simulata, risolverà crudelmente e incruentemente la vicenda. Vogliamo, prima di tutto, parlare della regia di Squarzina che, ancora una volta, è sbalorditiva: precisa, ma discreta; tutto è calcolato, ma il calcolo serve esclusivamente ad esaltare ogni possibilità del testo. Nessuna sopraffazione ed ottusa violenza da parte del regista: gli attori (Miriam Crotti, Anna Maria Bottini, Stefano Lescovelli, Carla Calò, Rita Livesi, Anna Priori) si esprimono con la parola e con il corpo, perfettamente guidati ed assolutamente liberi; liberi anche di recitare male. Abbiamo detto: «Recitare male». Un’affermazione pesante di cui ci facciamo pieno carico: accenti standard, movimenti eccessivi. Per fortuna, la mano salda del regista teneva tutto in pugno e quelle enfatiche concitazioni parevano essere solo più pretesti: quasi il dramma si svolgesse altrove. Là dove spiccava un ottimo attore: Alberto Sorrentino, il delegato di polizia, commovente e laido, come quasi tutti i personaggi di Pirandello, spietati con se stessi e con gli altri, perché vili e disorientati; ma con un fondo di grandezza dato dalla disperata volontà di non rinunciare a vivere, cercando di illudersi di avere un senso: un senso che l’attore ha saputo dare, in ogni momento, al personaggio. Il commento musicale a cura di Paolo Terni era discreto, entrava al punto giusto, sottolineando efficacemente alcune atmosfere, ritirandosi poi timidamente; anche questa una scelta registica perfetta: non un accordo di troppo.

Le scene e i costumi di Gianfranco Padovani erano giusti nel realismo degli abiti e nell’eccesso opprimente degli ambienti che si chiudevano sui personaggi fino a schiacciarli.
E poi: Paolo Stoppa. Fin dal suo primo apparire sulla scena l’atmosfera si caricava di un grande ed intenso pathos. La rapidità del succedersi delle espressioni, la lentezza incisiva dei gesti, presentavano come meglio non si potrebbe la situazione del personaggio, insieme con la voce: voce meravigliosa, non perché bella di quella bellezza radiofonica di cui abbiamo piene le orecchie; anzi: impastata, sabbiosa un po’ nasale. Ogni battuta era detta in modo tale che, dopo averla udita, veniva di pensare che solo così la si potesse dire. Sappiamo che non è vero; però ogni grande interpretazione deve sembrare allo spettatore, in quel momento e lì, l’unica possibile.

Ripetiamo: grande interpretazione!