9 – Gennaio ‘85

gennaio , 1985

La colpa è tutta delle mamme, che imperversano a pranzo e a cena con i loro spaghetti al pomodoro e la solita fettina! Finito il tempo in cui i giovani di sinistra circolavano coi capelli sporchi, sostando in pizzerie puzzolenti, perché erano convinti che vivere voleva dire soffrire, è subentrata negli stessi una gran voglia di godere anche dei piaceri della tavola. Maschietti e femministe hanno incominciato a discutere di vini e cucina: ma decenni di diseducazione, ignoranza e frustrazione hanno fatto sì che a Roma abbiano preso il sopravvento locali sempre più turpi, in cui giovani e meno giovani si precipitano, fuggendo dalle proprie case, a mangiare orribili pastrocchi, a bere vinacci mal tenuti, in ambienti kitsch e presuntuosi e a prezzi sempre più elevati.
Prima erano i locali alternativi e le vinerie che attraevano con la promessa di assaggini sfiziosetti; poi sono subentrati i veri ristoranti dai menu sempre più insoliti e stravaganti.
Uno di questi locali si chiama 11 merlo maschio e si trova in via del Governo Vecchio, al numero 12: la scena si presenta come un succedersi di stanzini, con molti specchietti colorati, frange e moquette, tavolini minuscoli e sedili di inarrivabile scomodità, accentuata dalla lunga attesa cui l’immancabile affollamento costringe gli avventori.

Un menù esotico con puntate franco-atesine. Noi abbiamo provato penne alla harissa, follia fredda e cruda, piccante e basta; una fonduta di crépes coi funghi che si presentava come uno straccetto di pasta coperto da un indefinibile e salato agglomerato di ingredienti; il filetto al cognac pareva, più che altro, un improbabile dessert al liquore; l’insalata Scick (!) era un delirio di foglie di lattuga in salsa rosa sprofondata in un gigantesco catino. A questo si aggiungevano hamburger della peggior tradizione e un allucinante panino arabo. Due giorni prima, avevamo notato, in un supermercato, un Prosecco dei Colli Trevigiani a 1.200 lire la bottiglia; qui lo abbiamo ritrovato a seimila. Il conto salato viene porto insieme a un mazzetto di sigari (allusiva ironia?). Come vedete basta saperci fare!

A poca distanza dal precedente, nella stessa via al numero125 c’è un locale chiamato lo
Chef du Village; la formula è qui più precisa: franco-araba, articolata in caffè moresco, ristorante francese e sala da thé; ogni sala con l’appropriato décor, pampini al soffitto, tappeti e tavolinetti intarsiati, tendoni rossi, bambù laccato di bianco, finte finestrine provenzali, video music senza audio. Lo chef veste in stile cosacco-maremmano, pochi gioielli e radi ricci biondo-grigi e, nel più puro stile villaggio, dirige alcune fanciulle che vi apparecchiano il tavolo con tovagliette di plastica verde speranza e posate avvolte nel tovagliolo di carta. Vi raccontiamo il nostro calvario: cocktail di scampi in salsa rosa, proprio come ve lo potete immaginare; tartine di paté di fegato d’oca espresse in desolati triangolini di pan carré al sapor di scatoletta; fettuccine alla sorrentina, alla mozzarella e guanciale, mal crude e insapori; pasta e fagioli marinara, che offende prima l’olfatto e poi il gusto; gnocchi al cervello, stranamente saporiti non scarsi. La tristezza sale con l’arrivo dei secondi: bistecca alle erbe, scaloppine alle mele e filetto al pepe verde sono i nomi diversi attribuiti all’identico pezzo di carne semi-cruda ricoperta di salsette variamente cattive; il cervello fritto è unto pesante; le cosiddette patate al forno paiono di pietra e nell’insalata dello chef torna la salsa rosa. Una carta dei vini squilibratissima che presenta ben 17 tra vini bianchi, spumanti e champagne, Lancers Matheus tra i rosé e solo tre vini rossi. Fuori carta, ci è stato offerto un S. Giocondo Antinori e abbiamo visto anche un Beaujolais Nouveau, che si son ben guardati dal proporci. Noi abbiamo bevuto una prima bottiglia di Sauvignon Ladeger inaspettatamente buona e quando ne abbiamo richiesta una seconda ci siamo visti portare in tavola una bottiglia diversa (e peggiore) senza nessuna spiegazione.

Ma dobbiamo dirvi che in questo deserto abbiamo trovato una gemma: dietro al bianco bancone del bar, sta una fanciulla dai capelli corti che, lì per lì, sembrerebbe un po’ aggressiva; ma che poi si rivela, simpatica, timida e gentile e che, quel che più conta, sa fare bene il mestiere di barista: prepara cocktail eccellenti, usando i giusti ingredienti, che miscela nei contenitori prescritti (e non tutti nello shaker): le siamo ancora grati per la consolazione che ci ha dato.

Come ormai usa, il conto è sconvolgentemente alto. Ritorniamo alle fettine della mamma?