Psicoanalisi contro n. 9 – Io risposi: “Non lo so”

gennaio , 1985

Molti, senza dubbio, hanno avuto questa strana e un po’ angosciosa esperienza: dopo aver ripetuto alcune volte una parola, una parola di uso consueto, che indica un oggetto o un concetto semplice, la sentono diventare puro suono, senza più significato. Si ripete la parola: gatto, gatto, gatto… e non si riesce più a capire che cosa voglia dire; che significato abbia quel suono; si sa e non si sa che cosa è il gatto: il gatto, il gatto, il gatto… L’ansia che sale è sottile, avvolgente, penetrante; ci si sente smarriti, come se mancasse il terreno sotto i piedi.

Vi è un’altra sensazione, ancora più terribile e angosciante: la perdita di senso del pronome Io. A me accadde un giorno: ero in campagna ed era estate, davanti a un muro caldo di sole, si sentivano le cicale — La mia dolce campagna del Canavese —. Toccai con la mano il muro, tiepido e ruvido; il campanile della parrocchia suonò le ore: un do diesis con tutti i suoi armonici, vibrò nell’aria immobile. Io dissi: «Io». Poi ripetei: «Io, io, io…» E mi smarrii…. Non ricordo come proseguì quella giornata. Altre persone mi hanno raccontato un’esperienza simile: si dice: «Io» e non si sa più cosa voglia dire. Oppure, ancora, uno può ripetere il proprio nome: «Giorgio, Maddalena, Io, Giorgio, Io, Maddalena»; ma Giorgio o Maddalena non hanno senso, non hanno più senso: sono soltanto un suono che prima ronza nel cervello, poi viene scandito ad alta voce: «Giorgio, Maddalena». Io mi sono sempre chiamato Giorgio, io Maddalena; ma ora Giorgio e Maddalena non vogliono dire più nulla, non hanno significato, diventano puro suono, ancora un’eco e poi più niente. È una sensazione che non ha nulla a che vedere con qualcosa di simile, come la perdita del significato filosofico dell’Io come coscienza, oppure della nostra posizione nel mondo, o la perdita del senso del nostro lavoro, dei nostri sentimenti: è qualcosa infatti di più complessivo e totalizzante. Io ho sempre usato questo pronome, fin da bambino ho risposto a questo nome ed ho sempre saputo che cosa designavano sia l’uno sia l’altro; anzi, quei suoni mi confermavano: proprio intorno ad essi, dentro di loro, io percepivo me stesso. Nei momenti in cui divengono puro suono, io ancora sento me stesso e percepisco il mondo; ma sento estranei quei termini che prima erano consueti, eppure non ho altre parole per sostituirli, perché ho sempre usato quel pronome e il mio nome, non tanto per rapportarmi a tutto il resto quanto per comprenderlo. È come se mi mancasse l’inizio della comprensione; anche se è pur vero che la comprensione non può mai avere un inizio assoluto…
Noi viviamo in un mondo pieno di significati; ma proprio i significati sono instabili. Il significato non è un’acquisizione stabile. Il significato è malamente appiccicato alle parole e dietro alle parole c’è qualcos’altro che ha, forse, un significato. Le parole stanno troppo strette addosso alle cose che designano e quando si scollano da queste diventano un suono che ci smarrisce: gatto, io, Giorgio, Maddalena… Provate a ripetere a lungo il vostro nome: non vi ritroverete più.
Le cose hanno un significato: il nome suggerisce qualcosa; ma è un suggerimento che subito sfuma e spesso si contraddice. Al bambino si mostrano oggetti, a questi oggetti si associa una parola, un suono. Il bambino guarda le labbra, ascolta il suono, vede l’oggetto; ma l’oggetto era prima delle labbra e del suono; egli lo aveva già percepito; però, forse, quelle parole, quei suoni, se pur non quelle labbra, le aveva già dentro.

Io credo nella trasmissione genetica dei concetti, almeno di alcuni, così come di alcune esperienze e fantasie. Perciò le labbra che, muovendosi, producono un suono e uniscono questo suono ad un oggetto, forse violentano l’esperienza interna del bambino, che ha in sé altre esperienze, altri ricordi, altre fantasie, altri suoni.
Ma l’essere umano è davvero così incomprensibile? È così incomprensibile perché è l’uomo stesso che deve comprendersi; e come può comprendersi un essere che non sa di dove viene e non sa ancora dove andrà? L’essere umano è sempre troppo complesso: le semplificazioni lo impoveriscono talmente che, talvolta, lo distruggono. Eppure la ricchezza dell’essere umano è quasi inesprimibile. Gli psicopedagogisti parlano di come il bimbo apprenda, delle tappe della sua evoluzione psicolinguistica, di come acquisisca i concetti, di come passi dal concreto all’astratto. Teorie che sono sempre riduttive; ma che sono riduttive perché non hanno, per lo più, la consapevolezza di essere tali. Credono di esaurire la totalità dell’esperienza umana.

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Io non penso che si viva in un mondo di illusioni. L’illusione non sta di fronte, dietro o sopra la realtà; ma la realtà si intreccia, convive con l’illusione; anche l’illusione ha la sua realtà se è riconosciuta. Uno dei due poli: illusione-realtà, deve però essere preso come punto di riferimento: l’illusione per misurare la realtà e la realtà per misurare l’illusione. Nessuno dei due punti di vista è sufficiente di per sé; ci si deve spostare continuamente dal punto di vista dell’illusione e guardare la realtà e viceversa, la verità continuamente contraddetta è l’unica possibilità umana.

La mente né soltanto scopre, né soltanto dà significati. Non li scopre perché altrimenti la verità oggettiva sarebbe una possibilità: se il significato fosse il disvelamento, basterebbe assistere al mondo della verità che si manifesta; ma così non è. Millenni di contraddizioni, se pur non hanno ancora fiaccato l’arroganza di qualcuno, stanno lì, immobili, a dimostrare che la verità non si disvela. La verità è una conquista e il significato delle cose non coincide con la verità della cosa. Il significato è anche un dono che la mente fa alla cosa. Se è un dono, di dove viene? Se non corrisponde alla cosa, la cosa che cosa è? La cosa non è altro che un frammento dell’essere; rimane nel suo desiderio di svelarsi; ma al suo disvelamento si sovrappone il dono che la mente fa. La volontà di cogliere il significato delle cose avvicina alla verità e, nello stesso tempo, ne allontana. Il passivo atteggiamento che attende il manifestarsi della cosa fermerà la mente umana sempre un passo prima della comprensione. Esiste un mondo, esistono gli uomini, esistono le cose. Gli uomini vanno verso le cose; le cose, forse, si dirigono verso gli uomini. In questo forse si annida un nuovo problema, che è sempre lo stesso, la vecchia domanda di Pilato: «Quid est veritas?»

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Che cos’è, allora, la verità della follia? «Il folle non è capace di intendere e di volere» e poi, ancora: «Il folle è pericoloso per sé e per gli altri» e poi ancora si può dire che «Il folle è colui che non rispetta le regole della società in cui si trova a vivere». Però, nello stesso tempo, il folle rispetta le regole del folle: per poter essere definito «folle» deve assumere un comportamento che lo renda riconoscibile come tale. Allora, rispetta alcune regole: il folle rispetta le regole come tutti; rispetta le sue regole di folle. Ma, se il folle rispetta le regole che la società ha imposto ai folli, il folle non è mai folle. Il folle è colui che rispetta regole che contraddicono altre regole. Non è possibile vivere senza regole: i comportamenti sono già tutti catalogati. La società non ha aspettato gli uomini singoli per darsi le regole. Allora le regole erano prima, come le idee trascendenti di Platone? Ma anche le idee sono nel mondo, chiuse in questo cerchio magico.
Nulla può trascendere il mondo, perché ogni luogo è «mondo». Anche il folle, quindi, rispetta alcune regole, forse tutte le regole che deve; non solo per essere riconosciuto dagli altri come folle, ma anche per riconoscere se stesso.

Si vive, allora, prigionieri di un copione monotono e sempre identico? Questa possibilità mi fa paura ed io la rigetto lontano da me. Certo è che nessuno riesce ad inventare del tutto il proprio comportamento: non lo inventa il folle, né l’impiegato del catasto, o il pescatore, o il minatore e neppure il rivoluzionario. Tutti hanno un comportamento che si richiama a gesti già consueti, riconoscibili. Perciò il folle ha un comportamento da folle.

Se prendete i trattati di psichiatria, vedrete che, quando parlano della psicosi o delle psicosi, descrivono soprattutto comportamenti. Le cause affondano in misteriosi intrichi organici e sociali. Se il folle è anche il frutto della descrizione della follia, ogni società avrà, ovviamente, le proprie follie. Poi, all’interno di ogni tipo di società, le varie correnti scientifiche, filosofiche, politiche, descriveranno la follia ed il folle in modi un po’ diversi. Poi ci sono io, il singolo, che ho una mia idea di follia, ne dò anch’io una descrizione, ma non mi posso fermare qui. I miei concetti di follia e di folle sono un po’ diversi da tutti gli altri. Allora, il folle non esiste, è soltanto nella fantasia di coloro che fantasticano la follia? Si potrebbe dire anche così; ma non perché la follia in sé non esista. Lo si potrebbe dire se si credesse appunto, che tutto sia illusione. La follia e il folle, come tali, esistono. Io percepisco la follia dentro di me e provo smarrimento e paura, sentimenti che mi porto addosso e da cui spero di sapermi difendere. Vedo la follia negli altri, in alcuni che si comportano da folli.
Anche la follia, in parte, si svela, si presenta. Ciò che, per il momento, è ancora oscuro è la sua origine: ma forse l’origine di tutto è oscura.

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Ho detto più volte che la malattia mentale grave insorge nell’essere umano quando si sovrappongono i due meccanismi difensivi primari: il narcisismo e il sadomasochismo, difese presenti da sempre nell’uomo. Non sono di certo originarie: prima c’è altro, c’è disponibilità alla vita e al piacere; ma la storia di ognuno è fatta anche di frustrazioni, contro le quali si mettono in atto le difese. Narcisismo e sadomasochismo sono presenti in tutti gli esseri umani, anche in quelli ritenuti psichicamente più sani. Proprio il sovrapporsi di questi due meccanismi difensivi chiude l’essere umano al mondo, o meglio: l’essere umano decide di comunicare con gesti, parole e fantasie incomprensibili agli altri, o almeno comprensibili solo nella loro ritualità di follia.

Sono consapevole che nessuna delle teorie più o meno scientifiche che tentano di descrivere e di comprendere la follia sono adeguate. Sia coloro che la ricercano nei traumi infantili, sia coloro che la ritengono soprattutto causata da una società ingiusta e malvagia e neppure coloro che tentano di trovare nell’organismo del folle qualche cosa di anomalo e costante nella sua anomalia, sono ancora riusciti a porre nelle mani di chi vuol curare questo disagio adeguati strumenti terapeutici o sufficienti parametri di comprensione. Ho detto che l’origine prima delle cose è sconosciuta, penso che forse rimarrà sempre ignota: questa è la condizione umana, almeno fin che l’uomo sarà fatto in questo modo.
Ma qui non voglio parlare delle cause prime, che affondano sempre in qualcosa di metafisico. Per metafisico non intendo irreale, metafisico vuol dire al di là della descrizione rigida di un mondo tra i tanti mondi possibili. Anche l’origine di una carie dentaria affonda nei sogni della metafisica. Per me, i sogni sono reali come la realtà. Sono la realtà che si specchia in un altro specchio — verrebbe da dire: deformante; ma sarebbe una banalizzazione —. Il sogno è uno specchio della realtà e basta. Ciò che chiamiamo realtà della veglia non è che un altro aspetto del rispecchiamento della realtà. Io stesso, dopo aver letto, studiato, osservato, ho dato i miei parametri: ho dato e mi sono dato parametri di lettura, per interpretare e comprendere ciò che io chiamo follia. Questi strumenti li sento inadeguati: c’è sempre qualcosa che mi sfugge; la contraddizione si annida dovunque, ma non è la sana contraddizione che permette di andare allegramente all’assalto della comprensione, bensì una contraddizione che mina spesso le fondamenta delle mie costruzioni teoriche; la sento lì, presente, cattiva, annidata nelle pieghe oscure del mio ragionamento; spero di non accorgemene e spero che gli altri non se ne accorgano. Però io credo anche in quello che dico; credo di avere capito, almeno un poco, l’essere umano, e quindi anche la sua esperienza di follia; ma sono consapevole che è troppo poco. Ovviamente la ricerca deve continuare: oggi, domani e ancora dopo; ma non si ha tempo di attendere, bisogna intervenire subito. Stranamente (questa è una mia personale esperienza, senza dubbio, altri avranno esperienze diverse), la cosiddetta follia è molto più aggredibile e curabile di quanto non si creda e soprattutto di quanto non dicano i trattati. Ricordo che, molti anni fa, uno psichiatra alle cui lezioni io assistevo, diceva spesso che la schizofrenia è la follia per eccellenza ed è inguaribile: se qualcuno ne guarisce è perché la diagnosi era sbagliata e non si trattava veramente di schizofrenia. Io ho avuto esperienze molto diverse: persone che quello psichiatra avrebbe definito schizofreniche sono guarite lavorando con me. Dico: guarire, in modo spudorato e compromettente. Io ho lottato disperatamente con altri che, insieme con me, sono guariti dalla schizofrenia, che è la follia per eccellenza. Io non accetto più questo termine nella mia nosografia e l’ho usato qui solo per raccontare di quel vecchio psichiatra. Ancora mi stupisce l’esiguità delle conoscenze messe a disposizione dalla ricerca. C’è un baratro oscuro tra le conoscenze, le chiavi di lettura e la capacità di intervenire. Temo che quel baratro sia molto profondo e non so se si riuscirà mai a colmarlo. Si farebbe un grande passo avanti nella comprensione del disagio mentale, se si potesse capire perché qualcuno diventa folle. Se esistesse un solo folle e se avessi avuto una sola esperienza di rapporto con un folle, credo che sarei convinto di saperlo, perché in ogni folle c’è una ragione della sua follia, o almeno io credo di trovarla, di vederla. Se però metto a confronto situazioni diverse, allora tutto mi si intorbida: non trovo più costanti sufficienti, mi accorgo di dover inventare troppo per trovare cause assolutamente non equivoche, costanti e che non siano addirittura uniche. Eppure la follia sta lì, di fronte a me, col suo linguaggio, i suoi riti, la sua sofferenza. Io intervengo, talvolta con sicurezza, anche se non so di dove venga questa tranquillità. Non è ancora tempo adesso di analizzare compiutamente ciò che io intendo per follia. Tra le esperienze più belle della mia vita io metto quella in cui vedo, davanti a me, lentamente, svanire la follia. In due abbiamo vinto i fantasmi; non li abbiamo distrutti, li abbiamo controllati. Lui ed io, assieme, ci ritroviamo qui, nel tempo presente, con un percorso doloroso e faticoso alle spalle. Poi, talvolta, l’ansia ritorna, quando la mente comincia di nuovo a vacillare; ma oramai sono concreto e fisicamente percepibile, e allora, con timore e tremore, nuovamente ci ritroviamo: lui ed io. Mi sorge dentro, allora, un sentimento di riconoscenza, che lascio lì, come una tranquilla tenerezza.

5
Mi telefonò il padre, cortese e disperato; mi disse che suo figlio era sempre stato bene: allegro, sano, sportivo, forse non troppo brillante a scuola; ma sufficientemente in gamba da cavarsela. Ora, a diciotto anni appena compiuti, improvvisamente, il ragazzo aveva perso la testa. Tutto era successo dopo la festa dei diciott’anni con gli amici, una grande festa. Loro, i genitori, non c’erano, e il mattino dopo il ragazzo non si volle svegliare; poi incominciò a dire che stava male, che i sogni non gli andavano via dal cervello, che alcune macchine giravano attorno alla casa, un villino, un po’ fuori città. Non uscì per qualche giorno: si chiudeva ad ascoltare musica e usciva di camera solo per i pasti, con gli occhi strani. Gli amici lo chiamavano, lui non voleva rispondere al telefono. Il padre e la madre parlavano tra loro, disperati: senza dubbio la droga, il fumo o forse… forse l’eroina. Una sera si fece una doccia, poi disse: «Esco». Aveva l’aria allegra; i genitori erano in ansia; tornò a casa, la notte, molto tardi. La madre si alzò; lui era in cucina, la madre gli si avvicinò, lo guardò negli occhi, lui aveva in mano un coltello, stava affettando il prosciutto, sorrideva. Con cura precisa affondò la lama nell’avambraccio nudo della madre, che rimase esterrefatta; lui, ridendo, corse a chiudersi in camera. Il medico di famiglia lo imbottì di psicofarmaci: parlava di delirio, di un ricovero. Un medico all’antica: forse anche qualche elettroshock. I genitori non volevano questo. Lui era inebetito dai farmaci, stava a letto ad ascoltare la musica, talvolta rideva, talvolta piangeva; continuava a parlare di quelle macchine che giravano intorno alla casa, che lo sorvegliavano, lo volevano aggredire; e poi parlava ancora di altre cose: di un nano, di un nano piccolo, piccolo; e qualche volta rideva e qualche volta piangeva. Adesso non voleva più prendere medicine, perché temeva lo volessero avvelenare. La voce del padre, al telefono, era sempre più triste, si sentiva un’ansia disperata. Io domandai: «Ma il ragazzo vuole venire da me?» Il padre mi rispose che lo voleva. Lui venne da me: tranquillo, un po’ barcollante. Un ragazzo bellissimo, straordinariamente bello e mite; sedette al mio fianco, senza interesse e senza timore. Incominciai a fargli domande, mi rispondeva minuziosamente e con indifferenza. Mi raccontò la sua vita: la vita di un ragazzo felice. Nato in una famiglia agiata, un fratello maggiore, un padre e una madre sufficientemente in accordo, la scuola, lo sport, molte ragazze, amici, viaggi, mai nessuna malattia. E adesso? Lui mi disse «Adesso niente, adesso mi perseguitano». Come mi confermarono i genitori, era sempre stato un bambino sereno, allegro, estroverso, sano; non aveva avuto mai particolari paure, anzi, fin da bambino, era molto coraggioso. La madre, mentre mi parlava, piangeva sommessamente: «Sapesse quanto mi brucia questa ferita al braccio!» Il padre era attonito; anche lui raccontava del suo bambino, di suo figlio, bello come nessun altro, e le ragazze e gli amici lo cercavano, da sempre. La madre mi domandò: «Perché tutto questo?» Io risposi: «Non lo so». Non c’era nessuna ragione, eppure il ragazzo, che continuava a venire da me accompagnato dai genitori, disinteressato, ma tranquillo, mi raccontava di paure interne, che non sapeva se aveva sempre avuto o se gli erano esplose improvvisamente dopo la festa dei suoi diciott’anni. «Avevi fumato?» Lui mi rispose: «Sì; ma avevo fumato anche prima, molte altre volte». Il fumo non era stato che la causa scatenante. Le paure e i fantasmi serpeggiavano dentro di lui, chissà fin da quando. Ma la vita esteriore era sempre trascorsa serena, senza grossi traumi: soltanto traumi interni. Come è possibile tutto questo? Quei traumi erano davvero soltanto interni? Lui mi riversava addosso fantasie terribili, avute da sempre; e la vita, fuori, scorreva, apparentemente tranquilla. Perché tutto questo?
L’altro me lo portarono due amici suoi: un ragazzo e una ragazza, petulanti, presuntuosi, insopportabili: loro sapevano tutto e avevano capito tutto. Il ragazzo, anche lui diciott’anni, o poco più, era sempre stato male. La madre era alcolista e non aveva mai badato ai figli: lui ed altri due ragazzi. Violenta e aggressiva, li legava e li picchiava. Il padre, inetto e imbelle, stupido, mi avevano dichiarato in coro i due, non aveva mai avuto voglia di lavorare. I due sapevano tutto e si erano preoccupati di farmi un resoconto completo, la prima volta che erano venuti, da soli, a parlarmi. «Noi lo conosciamo da quando eravamo piccoli. Lui a scuola spesso tremava, ricordava il ragazzo, già da allora suo compagno di classe. Tremava, se la faceva sotto e piangeva. Gli altri lo canzonavano e lo aggredivano. La madre era rissosa con tutti, non pagava i debiti». Il ragazzo e la ragazza avevano continuato a lungo a raccontare, petulanti e tronfi. Lui era lì un po’ spaurito, bruttino, con il volto coperto di abrasioni e di cicatrici. Anche il nonno era stato un alcolista. Lui non aveva mai avuto voglia di parlare con gli altri. Stava con loro, ma non parlava. Un giorno, in un bar, prese a bere un caffè, posando le labbra proprio nel punto dove il manico si attaccava alla tazzina; non volle dire il perché. Poi raccontò che sulla porta di una chiesa aveva incontrato un vecchio, grasso, scuro di carnagione e con i capelli bianchi, che gli aveva detto di essere Gesù Cristo; ma lui sapeva che era il diavolo, il diavolo che lo perseguitava. Quella fu la volta che parlò di più. Poi non volle più uscire di casa, prese a rintanarsi, ad essere sporco, a non mangiare. Un giorno scomparve. Il padre andò a dirlo agli amici. A quei due. Lo cercarono dai nonni, lo cercarono per le strade. Dopo due giorni arrivò una telefonata da un ospedale della città: l’avevano trovato, tutto ferito, in fondo ad una scarpata; ma non era stato un tentato suicidio, era scivolato, si era scorticato, fatto molto male. I due erano accorsi all’ospedale e lo avevano visto là, inebetito, che parlava di Gesù Cristo e del diavolo: due essenze in una.

«Forse non diceva proprio essenze, ma come se fosse» diceva la ragazza che era più sapiente… Poi, insieme, improvvisamente, i due erano diventati umani e mi avevano domandato, sinceramente accorati: «Perché tutto questo?» Io avevo risposto: «Non lo so».