Archivio di marzo 1984

Psicoanalisi contro n. 2 – Il figlio del musico

sabato, 17 marzo 1984

Da quanto tempo l’uomo è al mondo? Per rispondere a questa domanda bisognerebbe essere in grado di dare una definizione precisa di essere umano. Si potrebbe dire che l’uomo è al mondo da quando esiste il tempo. Ma il tempo è n’invenzione dell’uomo, perciò l’uomo esiste da sempre. Noi che ne sappiamo degli altri esseri, delle loro fantasie e del loro concetto di tempo? Quindi l’uomo, per l’uomo, è al mondo da quando esiste il suo tempo. L’uomo è al mondo dall’inizio dei tempi. Come Dio? L’uomo ha voluto porre Dio un istante prima di sé, perché altrimenti aveva paura di sprofondare nel nulla. L’uomo è colui che ha inventato il nulla. L’unica invenzione completamente umana è il nulla; ma il nulla è il nulla, quindi l’uomo non ha inventato niente, neppure la sua invenzione dei nulla; oppure, l’uomo è forse l’unico essere che abbia pensato il nulla; ma, di nuovo: che ne sappiamo noi degli altri esseri? Eppure io ho l’impressione che il nulla sia una proprietà dell’uomo. L’uomo ha inventato il nulla e poi lo ha riempito di Dio. O forse ha pensato a Dio e poi gli ha contrapposto il nulla. Così l’uomo spera di sfuggire a queste due entità terribili: la prima che riempie il tutto; la seconda che svuota il tutto. lo sto parlando del nulla e sto parlando di Dio; due concetti opposti e simili, forse sarebbe meglio contrapporre al nulla il tutto. Il tutto è ciò che non manca di nulla; il nulla è ciò che non ha neppure, una parte del tutto. Il tutto e il nulla non hanno parti. Tutto, nulla e Dio. Quindi Dio è la coincidenza di due opposti: tutto e nulla, come diceva quell’antico cardinale del quattrocento? Il cardinale del quattrocento aveva un manto di porpora; la porpora è rassicuratoria perché dà potere e perché è splendente, quindi quel cardinale poteva tranquillamente par- lare di Dio e dire che era la coincidenza degli opposti: il tutto e il nulla. Quel cardinale non diceva proprio così, perché era cardinale; ma io so che l’uomo ha bisogno di un fondamento, perché alle sue spalle pretende di avere sempre qualcos’altro. Dio allora deve essere un istante prima del tempo, il fondamento del tempo. La domanda che tutti si sono posti da bambini: l’essere umano da dove viene? È ben più semplice della domanda: da quando l’uomo è sulla terra? Perché per rispondere a questa seconda domanda bisogna avere una chiara definizione di uomo. Per rispondere alla prima basta essere bambini e saper fantasticare. Molti hanno fantasticato che la terra e tutto il sistema degli astri siano parte del corpo di un grande uomo, grandissimo, gigantesco, il quale, a sua volta, fa parte di un altro uomo che crede sia l’universo, e quell’universo… e così via. Quando si è adolescenti e si va, alla sera, in riva al mare e ci si sdraia, con l’amico o l’amica; mentre le madri aspettano, in casa, nell’ombra, con il ricatto della loro luce accesa, si guarda in su il cielo che sembra cadere addosso: allora si viene presi da uno smarrimento: l’infinito. Se si riuscisse a capire cos’è l’infinito, non si avrebbe più paura, o forse non si potrebbe neppure esistere. L’ansia dell’infinito è sottile, talvolta spaventa profondamente; la mente allora deve rifugiarsi da qualche parte, in un principio; e Dio diviene il fondamento. Dio, che è nato un istante prima dei tempo. Ma l’uomo vuole guardare anche dietro alle spalle di Dio e allora ritorna lo spavento. L’uomo, ripeto, è al mondo da sempre. Da sempre, perché è lui che ha inventato il tempo. Il catechismo dice che Dio ha creato l’uomo; e l’uomo, dico io, ha creato il tempo. Il mondo si venuto costruendo, lentamente, con l’uomo, per l’uomo e nell’uomo.

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Il tempo, il tutto, il nulla, Dio e l’infinito sono parole che esprimono concetti oscuri, sono stati messi a fondamento, ma la loro ambiguità rende instabile il mondo dell’uomo che su di essi si fonda. Qualcuno crede, ingenuamente, di dar stabilità al mondo negando quei concetti o anche non pensandoci; ma questa non è che una rozza, cattiva coscienza. Quei concetti roteano nell’inconscio di tutti e vogliono diventare parole. Ogni parola è sempre qualcosa di più di se stessa. Il suono è breve e circoscrivibile, ma il suo significato no. Ogni parola è sempre, in parte, incomprensibile. Non per nulla si è cercato di mettere all’inizio la parola. Ma anche la parola della parola si sbriciola nel tempo, tutto, nulla, Dio. infinito. E questi frammenti della parola delle parole continuano a ronzare dentro ad ognuno. Ma qual’è la parola della parole? È un suono, quindi un corpo, un corpo grande come l’universo e piccolo come l’uomo. L’uomo, che, dopo aver inventato il tempo, cerca disperatamente di fermarlo o di distruggerlo. Fermare il tempo per non invecchiare: distruggere il tempo per non accorgersi che passa. Rimanere immobili ad ascoltare il fluire del tempo è terrorizzante. Ci si accorge che il tempo coincide con il nulla; allora c’è bisogno di un fondamento; ma il fondamento è circoscritto nel mondo e il mondo per l’uomo può improvvisamente sparire e trasformarsi in morte. La paura della morte è di tutti; quando diviene paralizzante, quando si ha paura di andare a letto perché si teme di non svegliarsi, quando l’idea – non che si potrebbe morire – ma che – necessariamente – si dovrà morire, dà uno smarrimento angoscioso, intollerabile; allora si parla di tanatofobia. Dietro a tutte le fobie c’è sempre un desiderio; quindi in questo caso il desiderio della morte. La tanatofobia è l’esasperazione del desiderio della morte. Ma l’essenza del desiderio della morte, per tutti gli esseri umani, presenti e passati, e credo anche futuri, qui ed ora, là e allora è il desiderio di abolire la morte: si vorrebbe morire per non morire più. Si vorrebbe morire per vivere in un mondo senza la morte; quindi, si vorrebbe morire per vivere; ma certo, chi può voler morire per morire? La morte è come la fantasia dell’infinito; come ho detto, non esiste paura che non sia in qualche modo impastata col desiderio; quindi anche la paura della morte. Dietro ogni paura della morte, c’è un’altra paura; c’è paura di qualcosa che è della vita poi, ancora, ritorna la paura della morte. È proprio la paura della morte in sé che nasconde il desiderio di non morire. Oltre non si può andare, perché si può soltanto vivere. Io, quindi, dico che l’uomo è al mondo, anche se non so dire che cosa sia l’uomo.

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L’uomo, nel mondo e nel tempo si guarda attorno. Chi gli ha insegnato a guardarsi attorno? Nessuno; è ciò che gli stava attorno che lo ha costretto a farsi guardare. L’uomo, per nascere ha bisogno di due genitori, quindi, appena nato, è subito in tre. Quindi non è mai solo: i genitori e il figlio; la triade edipica, anche. Comunque, l’uomo non è mai stato solo, ha sempre avuto dei genitori, a loro volta hanno avuto altri genitori. L’uomo che non è mai stato solo; da sempre, osserva sé e gli altri e osserva il mondo che gli sta attorno. Sente dentro di sé tanti desideri; tantissimi altri li sente e li nega. Tutti cercano di capire sé, gli altri e il mondo al fine di realizzare i propri desideri. Per realizzare un desiderio è indispensabile essere in grado di capire e controllare; cioè compiere altri gesti che permettano a quel gesto di realizzarsi. Certo, i gesti stessi sono spinti da un desiderio; ma questo desiderio, spesso, è inconscio. Il desiderio inconscio fa compiere gesti che mirano a realizzare il desiderio conscio. Allora ci si sforza di capire e controllare. Capire è frutto di uno sforzo, di uno sforzo, però, che non conduce mai alla chiarezza della verità; ma perché la comprensione è sempre anche, un po’ invenzione. Per voler capire bisogna, prima, desiderare e il desiderio manipola ogni cosa, pur di realizzarsi. Io credo che anche la verità sia un desiderio, ma uno fra altri e questi altri che ne fanno della verità? Che capire voglia anche dire un po’ inventare è difficile da capire. O meglio: si fa fatica ad accettarlo perché allora non si capirebbe più cos’è la comprensione, se è anche invenzione. Eppure, se si capisce anche il meccanismo dell’invenzione, tutto è capito. Per controllare, invece, bisogna anche produrre qualcosa. Per controllare, bisogna compiere gesti indirizzati, che modifichino, in parte, ciò che si vuol controllare. E questa modifica, ovviamente, proprio perché è tale, muta l’oggetto che si vuol controllare. Comprensione e controllo sono, da sempre, i fini della scienza. L’uomo, da sempre, ha fatto gesti che ha cercato di capire e, dopo averli capiti, si è sforzato di usarli, per modificare se stesso e gli altri e il mondo; e poi ancora ha fabbricato oggetti, utili ad intervenire. Anche questi oggetti devono essere capiti; compresi nelle loro parti e nelle loro funzioni; e le parti e le funzioni di un oggetto dipendono dalla comprensione di ciò che sta accadendo attorno e di ciò che si vuole realizzare. Detto in parole molto semplici: l’uomo, nel tentativo di realizzare un desiderio, stare più caldo, farsi un ricovero più sicuro, un utensile più efficace, un mezzo di trasporto più rapido, ha costruito oggetti, per raggiungere quei fini che dipendono dai suoi desideri. Ma non ha potuto cominciare con l’atteggiamento neutrale di chi prima osserva, capisce, sa qual è il suo bene. Prende dei materiali e costruisce qualcosa di utile per il suo star meglio. L’uomo fin da subito ha dovuto fare, per sopravvivere e stare meglio. Cercare di sopravvivere è, sempre, troppo poco. Ogni movimento desiderante dipende da una vita che vuole sempre qualcosa di più. Sempre, fin da subito, ha cercato di sopravvivere meglio. Vivere è tutto; ma è anche troppo poco.

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L’uomo, mentre fa, capisce quello che fa; e, mentre capisce quello che fa, fa. Tecnica e scienza sono strettamente unite e non si può dire se la tecnica venga prima della scienza o la scienza prima della tecnica. Il divenire storico, attraverso la lotta dei desideri, ha diviso gli esseri umani in scienziati e in tecnici. Gli scienziati sono coloro che pensano, che capiscono, che progettano e che danno ad altri le indicazioni per costruire strumenti utili ad intervenire nel mondo.
I tecnici sono coloro che ricevono le indicazioni dagli scienziati e non dovrebbero sapere il perché primo dei gesti e delle cose che fanno. Debbono soprattutto obbedire e diventare esperti nella manipolazione e nella costruzione.
Gli scienziati, da lontano, dirigono tutto e quindi si ritengono superiori. In realtà, sia la distinzione tra scienziato e tecnico, sia la superiorità dei primo sul secondo, sono state imposte per ragioni che hanno ben poco a vedere con una buona scienza e una buona tecnica. Ogni operazione della ricerca umana è
sempre, allo stesso tempo, scientifica e tecnica. Però gli uomini debbono essere divisi ed organizzati gerarchicamente: alcuni debbono valere più degli altri, altri debbono valere di meno. Così è stato da sempre.
La pura e semplice divisione dei compiti che non ponga una gerarchia di valore è
un’illusione. Una serie complicatissima di fantasie, di desideri, intrecciandosi con più o meno dirette esigenze economiche, fanno sì che in ogni società le varie mansioni siano sentite da tutti saldamente inserite in una struttura gerarchica. Alcune sono nobili e prestigiose, altre meno, altre disonorevoli. Purtroppo in questa gerarchia l’uomo entra insieme con le mansioni che compie. Forse, al momento, è impossibile mutare davvero questa realtà delle cose. E quasi dei tutto inutile rendere uguali compensi per chi svolge le varie mansioni. Altrettanto inutile sarebbe abolire del tutto i compensi. Allora si potrebbero abolire le mansioni stesse; ma abolire i compiti che ogni uomo deve svolgere, è come abolire l’uomo.
Non esiste l’uomo interno e l’uomo esterno. Anzi, non esiste neppure l’uomo. Esistono soltanto gli uomini, i quali si trovano in un complicatissimo intreccio di desideri e di fantasie. Questi desideri e queste fantasie costruiscono piani di valore, continuamente. Quindi, è giusto che lo scienziato sia superiore al tecnico? Se sia giusto non lo so. Io so però che è falso. Per giustificare la superiorità della scienza sulla tecnica, si è detto che le nozioni scientifiche sono lunghe e faticose da acquisire e sono adatte a menti superiori. Proprio perché lo scienziato, non solo deve dare il fondamento ma anche deve costruire una metodologia di ricerca. La tecnica Sarebbe invece acquisibile più rapidamente; non avrebbe bisogno di fondamenti teorici ampi, e quindi sarebbe adatta per menti meno dotate. Tutto ciò, ripeto, è rigorosamente falso.
La scienza e la tecnica, proprio perché coincidono, si possono acquisire soltanto attraverso lunghi anni di lavoro sistematico ed accurato. La preparazione affrettata di molti tecnici li rende, inesorabilmente, pessimi tecnici e il disastro per la collettività è enorme. In realtà proprio perché la scienza e la tecnica sono indivisibili, affermo che i tecnici puri e gli scienziati puri non esistono.
Ogni scienziato non può risolvere la sua ricerca entro le pagine di uno o più trattati. Deve andare oltre e questo «oltre» è sempre anche tecnica. Cioè, la manipolazione di qualche cosa; e la lettura di questo qualche cosa, attraverso un linguaggio precostituito. La lettura circola, deve circolare senza posa, dalle pagine scritte agli strumenti, dagli strumenti ai fenomeni. Ben sapendo che anche le pagine scritte sono fenomeni e i fenomeni strumenti e che i fenomeni, talvolta, coincidono con gli strumenti. Cosi il tecnico deve fondare il suo muoversi sull’acquisizione di concetti rigorosamente astratti, che divengono concreti nel fare.
Un fare che, continuamente, verifica se stesso, e questa verifica deve fondarsi su una metodologia che, a sua volta, si richiama a concetti astratti. Anche qui è presente l’ombra del libro. Esistono, però, scienziati-tecnici che hanno ricevuto e voluto una preparazione più affrettata. Questi secondi sono inferiori, sono chiamati comunemente: i tecnici e debbono ubbidire. Se tutti fossero preparati allo stesso modo, non ci sarebbe nessuno che deve
obbedire? Io non lo credo. Gli uguali non esistono e inoltre, per fortuna, il mondo è desolatamente abitato da una grande maggioranza di imbecilli, che, essendo imbecilli, sono pure ignoranti, ed essendo ignoranti non possono sapere di esserlo. Così va il mondo.

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Gli scienziati, quelli con la S maiuscola, hanno inventato il laboratorio di ricerca. Il seicento, secolo splendido e delirante, ne ha fatte di tutti i colori. Ed ha inventato il laboratorio, distinguendolo non solo di fatto, perché già prima era così, ma dandone una giustificazione teorica cioè il laboratorio stesso veniva a far parte della metodologia scientifica. Galileo Galilei ha aggredito il castello in cui si arroccava la scienza di carta, che viveva in un mondo di carta: i libri degli antichi. Per lui la scienza vuole la sensata esperienza, ed è sensata se non ha paura di andare oltre il libro, di ritrovare la natura.
Figlio di un musico, Galileo Galilei sapeva che la musica non può essere solo pensata: la musica deve essere suonata, per vivere; la musica sulla carta non è musica. Gli scienziati hanno costruito il loro tempio: il laboratorio di ricerca, in cui vengono studiati gli oggetti di cui si vuol conoscere struttura e comportamento; ma ancora di più, nel laboratorio quei fenomeni che in natura avvengono spontaneamente debbono poter essere riprodotti. Soltanto se un fenomeno viene riprodotto da uno scienziato si è sicuri che questi sarà in grado di comprenderlo. Mi mancano ancora due elementi essenziali: 1) il metodo di lettura dei fenomeno; 2) il linguaggio da usare per descrivere il fenomeno, cioè, la lettura della lettura. Torniamo, per il momento, alla esigenza di riprodurre in laboratorio il fenomeno così come avviene in natura.

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La nostra cultura dice che è compito della scienza cercare di orientarsi nel mondo per appropriarsi dei suoi misteri per svelare i suoi segreti e controllare il flusso dei fenomeni. Il tirannico senso comune ha distinto, negli ultimi secoli, entro il campo della ricerca scientifica, due scienze fondamentali, che sono le scienze delle scienze: l’astronomia e la fisica, da un lato; la medicina, dall’altro lato. Certo, vi sono anche altre scienze riconosciute; ma il senso comune ritiene che esse siano sussidiarie; la matematica, in fondo, non è mai stata considerata una scienza da nessuno; è stata vista come ancella della scienza. La filosofia ha sempre preteso di inglobare la scienza e le scienze. Nonostante la ribellione di alcuni scienziati puri, il tentativo è sempre riuscito. La filosofia, che pretendesse o no di fondare la metodologia di tutte le scienze, ha sempre parlato di scienza e ha tentato di chiarirne il significato e i significati. Negli ultimi quattro secoli però, le varie scienze si sono date una struttura autonoma, delimitando il loro campo e chiarendo i loro obiettivi. La filosofia, come spesso fanno i bambini invadenti e petulanti, ha continuato, però, a intromettersi nella ricerca ricevendo talvolta frustrazioni e talvolta gratificazioni. L’ultima scienza ad emanciparsi dalla filosofia è stata la psicologia. La filosofia si è ribellata, con tenacia, a questa espropriazione: la psicologia parla della psiche dell’uomo, cioè delle caratteristiche che fanno l’uomo uomo, parla dei suoi sentimenti e del loro significato. Parla della ragione e del suo significato. La filosofia, nei secoli scorsi, ha cercato con precisa attenzione, di distinguere la psiche dal corpo; ma la psiche può coincidere con la mente o con l’anima, a seconda delle convinzioni. In realtà, la psiche dell’uomo è l’uomo e i filosofi hanno la presunzione di essere in grado di definire l’uomo, da sempre; quindi di definire la psiche. Perciò la psicologia sarebbe un aspetto fondamentale della filosofia. La filosofia, però, comprende, ma non interviene. Un filosofo può intervenire nel mondo; ma non come filosofo. Interverrà come politico, o come rivoluzionario; ma non come filosofo: la filosofia sta prima. Prima; quando? Prima dell’azione. Povera sciocca filosofia! Sei povera e sciocca, o filosofia, quando fai queste affermazioni, perché cosi facendo, giungi ad affermare cose veramente bizzarre ed anche inattendibili. La filosofia sarebbe la comprensione di ciò che è; dell’essere e del mondo. Ma la filosofia dà una verità che è sempre di parte e lo sanno anche i filosofi che la loro verità è una teoria.
Quindi la filosofia sarebbe il massimo dell’impegno, perché dà la verità in opposizione ad altre verità. Però rimane esterna a contemplare. La scienza invece, calata nel mondo, osserva la realtà e, vi si confronta direttamente e pretende di essere neutrale. La sua verità non è teorica, è pratica. Uno scienziato potrà discutere con un altro scienziato di qualche teoria scientifica;
ma la scienza resterà una, compatta, immobile. Come sei povera e sciocca, o scienza, quando fai queste affermazioni! Come può essere neutrale qualcosa che è così calata nel mondo, e così legata con il fare! Proprio per questo, la scienza ha respinto da sé la psicologia, dicendo: non è scienza, rimanga pure dominio della filosofia, che costruisce sogni e fantasie, coerenti, forse; ma improbabili e, per lo più inutili.
La psicologia, invece, or son due secoli, cerca di darsi la dignità di scienza. Ha scelto due strade: la prima, quella di radicare i fenomeni psichici strettamente nella mera materialità del sistema nervoso, cervello, nervi, cellule nervose. Una complessa architettura che produce pensieri. Conoscendo questa architettura si possono anche conoscere e controllare questi pensieri. La seconda strada ha tentato di sovrapporre all’organico cumulo delle cellule nervose una realtà più impalpabile, chiamata psiche; cercando, però, di liberarla dalle pastoie della metafisica.
La psiche, da un lato, si radicherebbe nelle cellule nervose, dall’altro si radicherebbe nel comportamento. Gli psicologi, allora, per diventare scienziati, hanno cercato di quantificare le produzioni della psiche; di osservare e catalogare i comportamenti umani che sono espressione di questa realtà psichica. Poi è venuta la Psicoanalisi, che ha parlato di qualcosa di impalpabile, impreciso e contraddittorio: l’inconscio, che sta nella psiche, ma che è oltre la psiche. Ecco allora gli scienziati, tutti gli scienziati, sia coloro che avevano respinto la psicologia considerandola una non scienza, sia coloro che cercavano di farla diventare una scienza, impostando un metodo di ricerca affine a quello delle altre scienze, hanno gridato allo scandalo dicendo: – Questa è la non scienza per eccellenza. La scienza deve osservare entità concrete e, soprattutto, deve poter riprodurre in laboratorio i fenomeni che studia, per meglio controllarli.

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Sigmund Freud si era formato dentro a questa atmosfera culturale. Tentò, dapprima, anche lui di fondare i fenomeni psichici sulla realtà dell’organizzazione della materia nervosa. Ma non ebbe il coraggio di proseguire queste ricerche e questi pensieri, perché era troppo presto.
Freud non avrebbe commesso certo le ingenuità degli psicologi sperimentali dell’epoca e quindi preferì tacere.
L’inconscio, però, urgeva; bisognava sistematizzarlo e, soprattutto, bisognava che la psicoanalisi diventasse una scienza, e per essere una scienza doveva comportarsi come tale. Freud come Galileo Galilei, costruiva con cura il suo laboratorio: uno studio, con un lettino impero e tanti oggetti di scavo. Gli oggetti possono non essere di scavo e il lettino può non essere impero; su quel lettino, Freud fece distendere l’oggetto della sua analisi: la psiche. Ne annullò, accuratamente, il corpo, nascondendolo a sé stesso e nascondendoglisi, mettendosi alle sue spalle, perché la psiche rimanesse pura e intatta alla sua osservazione. La psiche, in quel laboratorio, riproduce la sua storia. Il divenire di un fenomeno psichico è la storia di questo fenomeno, le sue traversie e i suoi traumi. Anche una goccia d’acqua, quando cade, ha le sue traversie e i suoi traumi. Anche la condensazione del vapore acqueo, anche la dilatazione di un corpo metallico, anche la reazione di due elementi che si incontrano in una provetta. Così fa la psiche: riproduce in quel laboratorio la sua storia. O meglio: Freud fa in modo che si riproduca. Su quel lettino, la psiche si manifesta.

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È un arteficio, dovrebbe essere un arteficio; o meglio: un arteficio naturale, come artefici naturali son tutti gli esperimenti di laboratorio, anche quelli sulle cavie. Il medico ricercatore e il biologo riproducono avvenimenti naturali sui corpi, spesso martoriati, e osservano.
Il transfert è la geniale invenzione di un genio, per riprodurre i fenomeni psichici in laboratorio.
Abolendo il corpo, impaccio inutile, il transfert riattualizza tutta una vita. Il terapeuta, che all’inizio, è un puro e semplice ricercatore, si dissolve. Per la psiche sdraiata sul lettino impero, diviene padre, madre, fratello, nonna; e quella psiche si comporta: come se. Il fenomeno, ecco, è riprodotto.

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Soltanto dopo, dopo che il fenomeno si è riprodotto e riprodotto, quell’essere, nascosto nell’ombra, che finora ha osservato, può intervenire terapeuticamente. Ma questo può accadere e può anche non accadere. Freud non era, infatti un buon terapeuta; non ha conosciuto strepitose guarigioni, e probabilmente non gli interessava molto curare. Gli interessava soprattutto che la psicoanalisi diventasse una scienza. Quegli scienziati studiosi di altre realtà, o studiosi della psiche con altre metodologie, che accusano la psicoanalisi di non essere una scienza, perché non ha una metodologia sperimentale, dicono una sciocchezza, derivante dalla loro animosità e dalla loro ignoranza. La scienza di Freud, invece, si è ben inserita in questa visione della ricerca scientifica. Ha i suoi laboratori, i suoi metodi di osservazione, le statistiche. Riproduce, osserva e analizza tutti i fenomeni di cui si occupa e, persino, quantifica. Dopo la prima fase, interviene con una seconda fase, di controllo, di terapia. Ogni scienza deve essere terapia e deve essere consapevole di questo. Ogni scienza non può essere limitata all’osservazione dei mondo e dei fenomeni che in esso avvengono; ma anche deve essere in grado di curare il mondo e coloro che lo abitano. La psicoanalisi freudiana, come scienza, si è quindi fondata secondo i modelli delle altre scienze. Perciò è una scienza sperimentale a pieno diritto.
Come ho detto, il suo metodo, i suoi presupposti e l’atteggiamento dei suoi ricercatori sono rigorosamente coerenti con la definizione di ricerca scientifica tipica della cultura ottocentesca per cui la scienza è una e deve essere uniforme. Oggi la rigidità e la univocità dei metodi scientifici è in crisi; crisi che riguarda per il momento gli scienziati più seri e preparati. Gli altri continuano a ripetere gli insulsi luoghi comuni dell’obiettività, dell’universalità e dello sperimentalismo. Considerando quest’ultimo come la rozza applicazione dell’osservazione del fenomeno per mezzo di uno strumento, dimenticando che già da tempo lo strumento stesso è stato considerato come fenomeno, quindi un filtro che trasmette anche altro, e spesso quindi riproduttore di errori su errori. Ma chi legge l’errore, la solita claudicante mente umana? La sensata esperienza con il suo linguaggio matematico ha dato molto agli uomini ma ha appesantito la ricerca come nei secoli passati aveva fatto l’aristotelismo. lo affermo che il linguaggio della scienza non può essere universale come non possono esserlo i suoi risultati. La psicoanalisi freudiana non è una vera scienza, o meglio, è una scienza un po’ vecchiotta perché è troppo rigorosamente una scienza tradizionale. Esalta troppo l’esperimento, il laboratorio, la statistica. Ha persino cercato di riprodurre la verifica dello strumento di osservazione. Forse proprio perché nella psicoanalisi è così evidente l’ingenuità della scienza di essere universale e obiettiva che gli altri scienziati per non essere discreditati e smascherati hanno preferito negarle il valore di scienza. Ma hanno fatto ciò pagando un prezzo ancora più alto, quello dei ridicolo. Sono quattro secoli che la scienza, tronfia della propria oggettività e neutralità, crede di essere quello che non è: appunto, scienza. In questo senso, anche la psicoanalisi non è scienza; perché le scienze, figlie di Galileo non sono scienza. Meglio dire che sono l’inizio della scienza; di una scienza abortita che bisogna far nascere. Galileo Galilei dimenticò troppo presto di essere figlio di un musico.

Psicoanalisi contro n. 1 – Lo spaventacavalli

venerdì, 16 marzo 1984

L’essere umano si costruisce vivendo. Quando sia iniziata la vita, nessuno lo sa, forse non è mai iniziata. La storia di ogni singolo uomo, però, ha avuto un inizio nel tempo, così si dice: al momento della nascita, cioè nel giorno in cui la società ha preso burocraticamente atto della sua esistenza oppure prima, come è più assennato credere, nel momento stesso del concepimento. In quell’istante, quella persona incomincia il suo viaggio in un ventre amico e nemico, e già in quel ventre incominciano le gioie e le tristezze.

L’uomo è uomo fin da subito. È perverso oltre che ridicolo, favoleggiare che vi sia un periodo in cui l’embrione o il feto non siano ancora l’essere umano. È assurdo fare il conto dei giorni per poter dire:

«ecco adesso sei uomo, da ora ti dobbiamo rispettare e difendere, fino a ieri no; eri troppo imperfetto persino per avere diritto alla vita; in cosa consista la perfezione dell’uomo lo possiamo decidere soltanto noi che siamo adulti e perfetti».

(continua…)

1 – Marzo ‘84

giovedì, 1 marzo 1984

Compiacenti senz’altro, e magari piacevoli per le signore bene nostrane e gli attori americani di passaggio, sono l’arredamento e l’atmosfera complessiva di El Toulà, il famoso ristorante di Via della Lupa, filiazione romana e, speriamo, non conforme dell’omonima e famosissima catena di ristoranti. Incredibili, invece, pappe stucchevoli e irritanti, sono le cose che anche i non americani si vedono offrire. Si può cominciare con un insulso aperitivo allo champagne e mandarino (che ci sia solo mandarino?), immergendo crudità in una gessosa salsa piacevolmente rosata, o spalmando sui crostini un neutro paté della casa. La zuppa di Jota alla triestina è un brodo acquoso in cui galleggiano verza e fagioli accuratamente privati dei loro originari sapori; gli gnocchi di ricotta alla tirolese sono vicini alla schizofrenia, e raccapriccio e tristezza si può solo provare per il cadaverico fegato all’uva o per la lombatina di vitello alla maggiorana. Precede la scelta dei dessert l’oltraggioso dono di una fragolotta terrosa. Buoni sia la bavarese che il gelato al cioccolato. Vini accuratamente scelti, ben tenuti e ben serviti. Il conto è vicino all’estorsione. Al tavolo a fianco, Jack Nicholson ha bevuto la sua quarta vodka, con un sorso di cola appresta il palato al sorbetto allo champagne, la sua compagna ha un golfino di angora ed è felice.

Tra le meraviglie di piazza Navona è ben situato il bancone del bar annesso al ristorante Mastrostefano. Pino, il barman, è il distinto signore che, con simpatia e cordialità opera con magia e prestidigitazione: alle sue spalle i liquori e gli altri ingredienti, tutti di ottime marche, che attendono di essere da lui trasformati in cocktails, long drinks e bevande sublimi. Per quanto numerosi siano gli ingredienti, il sapore che ne risulta, ogni volta diverso, è unitario, compatto e armonico. Le dosi sono calcolate ad occhio e i gesti hanno una rituale solennità; Pino spiega quello che sta facendo per voi con accondiscendente superiorità: potete bere i classicissimi Negroni, Manhattan, Bacardi, i più nuovi Rusty Nail, Niagara, Margherita, e mille altri. C’è anche la sorpresa assoluta di qualche deliziosa invenzione personale, si raccomanda tra questi l’Armastro. Un pò ubriachi fuori, evitate di cadere nella fontana dei fiumi.

1 – Marzo ‘84

giovedì, 1 marzo 1984

Un’opera architettonica è composta da tre elementi, nessuno dei quali è il più importante: 1) i materiali con le loro forme; 2) la luce; 3) il suono.
Le parole possono raccontare il ritmo della materia plasmata che si tende, si dilata, si rattrappisce. Ritmo da seguire in una fantasia di tensioni contrappuntistiche.
L’architettura non è mai una semplice melodia con accompagnamento; la polifonia le è connaturata ed essenziale. Non armonie che sottostanno ad un discorso melodico; ma un intrecciarsi continuo di voci palpabili che, più o meno canonicamente, si rincorrono e si annodano in strette, per, di nuovo, sciogliersi. Le parole, ancora, con l’ausilio fotografico, riescono a descrivere la luce, che è, sempre, anche ombra; ma come è possibile descrivere il suono di fronte, il meraviglioso suono tattile che è presenza, di fronte; ed attorno al rimbombo di una voce, di un passo; il suono di un silenzio? Borromini, gioiello tra i gioielli di Roma, nei secoli sconciato e deturpato, continua a sbalordire per la perfezione del gioco di questi tre elementi: materia, luce, suono.

Che piccola cosa è, invece, Borromini raccontato da A. Blunt: una descrizione confusa, considerazioni banali, ripresa di molte ovvietà delle storie dell’arte. «Geometria, matematica, stucchi, bizzarrie pre-rococò, derivazioni dell’Ultimo Michelangelo», eccetera. E poi, continuamente ripetuto, un errore (forse del traduttore, ma ugualmente irritante), per cui le frequentissime forme ellittiche sono sempre chiamate ovali. Anche il tentativo finale di umanizzare Francesco Castelli, detto il Borromini, facendo raccontare da lui stesso il suo suicidio, è buttato lì, senza efficacia. Ma le opere di Borromini sono belle, anche, da pensare e, quindi, chissà perché, questo libro si legge d’un fiato.

ANTHONY BLUNT, Vita e opere di Borromini, Ed. Laterza, pp . 335 Lit. 30.000.

1 – Marzo ‘84

giovedì, 1 marzo 1984

Gioacchino Rossini è un genio del teatro, oltre che un genio della musica.
La sua «Cenerentola», messa in cena al Teatro dell’Opera di Roma, diverte, affascina e, talvolta, commuove. Non è una fiaba: Cenerentola è un personaggio cui la musica dona sfaccettature di carattere ampie e minuziose. Fin da quando all’inizio canta: «Una volta c’era un re…» si capisce che è un personaggio che va ben oltre i limiti del genere dell’opera buffa. Non è vero neppure che gli altri personaggi siano convenzionali: qui la musica sostituisce completamente il libretto e, allora, altro che convenzionalità! I concertati sono ampi e articolati; oppure brevi nel disegnare piccoli quadretti, in cui le melodie, con pochi guizzi, si intrecciano a creare effetti stupefacenti.
Il direttore, Gabriele Ferro, non si è mai slabbrato nello stiracchiare la partitura alla ricerca di mollezze fiabesche che non esistono in quest’opera rossiniana. L’interpretazione di Lucia Valentini Terrai era magistrale, anche dal punto di vista della presenza scenica. Cenerentola esibiva un ottimo fraseggio, con intonazione precisa, non sporcata da glissati fuori stile. Pure gli altri cantanti hanno saputo esprimere una vocalità intelligente e professionalmente più che corretta. Regia, scene e costumi hanno reso uno spettacolo vivace e colorito sul bianconero del fondo.

1 – Marzo ‘84

giovedì, 1 marzo 1984

Uno splendido lavoro di artigianato teatrale è la realizzazione del Don Carlos di Friedrich Schiller, messo in scena al Teatro Eliseo di via Nazionale, con la regia di Gabriele Lavia, che è anche il protagonista e risulta anche come riduttore e traduttore dell’originale tedesco. Il personaggio di Don Carlos, nell’interpretazione di Lavia, è un po’ eccessivo; ma ugualmente emozionante e ben inserito dalla regia in uno spettacolo complessivamente più che corretto. Su tutti grandeggia Ivo Garrani, perfetto nell’interpretazione di Filippo II, reso con ricchezza di sfumature che accompagnano il personaggio da splendidi momenti di grandezza a suggestioni di sottile trivialità.
Un pezzo di bravura degno di comparire in un’antologia di virtuosismi della storia del teatro è il personaggio del Grande Inquisitore interpretato da Ettore Toscano. Quasi tutti del resto fanno bene quel che devono fare, mantenendo un buon ritmo ad uno spettacolo che dura molte ore. La scenografia e i costumi sono efficaci nel sottolineare lo sfacelo e l’oppressione. Purtroppo gli effetti sonori ricordano un aeroporto o le vibrazioni sonore dei videogames e sono un po’ insulsi. Una considerazione deve essere fatta sul testo che non è certo all’altezza di tanto sforzo e abilità. Del resto ammettiamo che, soprattutto dopo che Verdi ci ha dato il suo Don Carlos, possente e veramente travolgente, le vecchie e retoriche battute di Schiller, zuccherose e pseudofilosofiche hanno perduto per noi la credibilità e ci fanno sorridere e questo non è l’effetto che Schiller si era proposto.

02 – Marzo ‘84

giovedì, 1 marzo 1984

La crinolina

Sono in molti, amici e nemici, a pensare che PSICOANALISI CONTRO sia un’organizzazione creata per il ripristino della crinolina.
La crinolina è stata, a suo tempo, la gabbia ingombrante che sosteneva la leggiadria esteriore di ampie vesti femminili.
L’evolversi della civiltà ha liberato le donne da quell’ingombro e dal bisogno di parere leggiadre.
La errata opinione è probabilmente dovuta all’atteggiamento, a dir poco, antimodernista, di Sandro Gindro e dei suoi intimi.
A un rapido sguardo deve fare impressione tutto quel rifarsi a greche mitologie e a botteghe artigianali.
Il gusto del barocco, la scelta a favore della figura e contro l’astrattismo in pittura; Aristosseno e Mozart che vengono citati ad ogni piè sospinto, a scorno dei musicisti post-dodecafonici; Richelieu additato come modello di uomo politico: tutto ciò fa temere un gusto passatista in campo estetico e una determinazione reazionaria in politica, che riporterebbe ben più indietro della stessa crinolina. C’è da temere il ritorno di tuniche arcadiche e di coturni!
C’è invece, in PSICOANALISI CONTRO, una precisa volontà di non avvalersi di alcun alibi facilmente modernista, nella ricerca di mutamenti che debbono essere di sostanza. Gli stessi alibi è importante non avvallarli in coloro con i quali accade di incontrarsi e scontrarsi.
Amare il barocco e affermare che, in pittura, si preferiscono i figurativi, non significa trastullarsi in nostalgie borrominiane ed evocare spiriti caravaggeschi a riempire le tele del presente; ma, molto meno semplicemente, scegliere e volere che i nostri architetti e i nostri pittori sappiano porsi rispetto alla realtà odierna con la stessa forza che quei creatori seppero dimostrare allora.
La scelta della figura rispetto all’astratto nasce poi, oltre che dal gusto opinabile, anche da una fondamentale e documentata convinzione che l’uomo non abbia la possibilità psichica di pensare e vedere altro che figure (quali e quante dipende dall’estro individuale e collettivo).
La musica riconosce oggi, anch’essa, di avere un grosso problema di linguaggio; problema che non si può certo pensare di risolvere spolverando minuetti e riesumando le armonie frigie, ma gioverebbe certo ai nostri musicisti maggior cultura, in senso greco, e maggior mozartiana capacità e umiltà. Richelieu è stato un uomo politico di eccezionale grandezza e negarlo è da imbecilli; come è da imbecilli non accorgersi che gli uomini politici, cui si guarda come ai grandi del momento, appaiono al confronto, ben meschine figure.
La rivoluzione, culturale e politica, non tanto si giova della negazione del passato, quanto si giova dell’acquisizione del passato stesso, in chiave critica e consapevole; se non si vuole, appunto, correre il rischio di celebrare il perizoma dello schiavo come l’indumento simbolico di una società che si è liberata della crinolina.

01 – Marzo ‘84

giovedì, 1 marzo 1984

Lettere provinciali

La periferia culturale è stata, per anni, considerata una delle più infelici situazioni del pensiero produttivo. Dei modi possibili di superare il limiti del provincialismo, uno, soprattutto, ha prevalso e prevale: la soggezione ai modelli “internazionali”.
La sudditanza delle province ad alcune capitali dell’intelletto è stata sancita da sempre: Alessandria e New York sono due punti sufficientemente distanti fra di loro, nel tempo e nello spazio, che depongono per la validità di questa ipotesi.
Non casualmente, infatti, si verifica da sempre, che coincidano i luoghi dell’imperialismo culturale con quelli dell’imperialismo economico. Sembra che pensi di più chi ha più soldi.
Tutto quello che non viene espresso dalle egemonie culturali è stato bollato di provincialismo.
In provincia, le lettere e le arti possono rivendicare per sé un culto autoctono, subito contraddistinto come folclore; ciò avviene a livelli più o meno ampi e profondi, si va dalla negritudine di Franz Fanon al recupero della cultura occitanica.
Come reazione a questa ghettizzazione, si è venuto anche a formare un urgente bisogno di universalismo.
Con il non stupefacente risultato che il provincialismo è più opprimente proprio dove l’esigenza universalistica viene trasmessa e percepita nel modo linguisticamente e concettualmente appiattito dei media a più grande diffusione.
Dopo lo squallore e i dubbi risultati delle esperienze autartiche, siamo ora alle prese con l’approssimazione generalizzata dei rotocalchi che continuano a proporre al lettore medio-borghese della Brianza il modello culturale ed antropologico della Virginia.
Il meccanico di Rivalta è dettagliatamente informato sui fenomeni di degenerazione sociale che provoca il mancato inserimento dei portoricani nel Bronx, e sua moglie conosce vita pubblica e privata della top-cover-girl di Bazar.
Lo stesso avviene se si scende al fotoromanzo o se si sale all’attualità scientifica: il bisogno di sprovincializzarsi si realizza, quasi esclusivamente, col cercare di conoscere, poco e male, qualcosa di ciò che avviene il più possibile lontano da noi.

Psicoanalisi, cultura e arte possono, però, anche essere realtà originali, facilmente raggiungibili. Realtà che possono essere approfondite attraverso l’impegno e lo stretto contatto con le realtà cui si riferiscono.
La capacità di sottrarsi all’egemonia del grande mezzo di comunicazione, può dipendere molto dalla qualità del modello alternativo.

Quelli che scrivono e coloro che leggono questo tipo di “letteratura diversa” debbono anche essere consapevoli della frustrazione che, con altri elementi, sta all’origine della scelta, per evitare che l’invidia giochi il ruolo determinante e crei così altro provincialismo.

1 – Marzo ‘84

giovedì, 1 marzo 1984

Alla galleria Pinacoteca di Piazza di Spagna n. 9 abbiamo visto le «Sanguigne di Pietro Annigoni». Annigoni è un pittore considerato tradizionalista e addirittura un po’ reazionario, sia per la sua tecnica, buona, ma un po’ fuori del tempo; sia per essere stato ritrattista di alcuni grandi contemporanei. Ritratti, quelli di questi personaggi, che permettono una considerazione su come i potenti di oggi siano più tirannici e ottusi dei tiranni di un tempo, forse solo perché sono più ignoranti. Nei ritratti di papi e di regnanti del Seicento, sui troni e sotto gli ermellini, si vedono persone che il pittore ha raffigurato con tutta la loro perfidia, astuzia, fatiscenza e cattiveria, oltreché potenza. La banalità dei mass-media e il bisogno di vendere hanno costretto anche Annigoni a fare concessioni al gusto del rotocalco. Ma in questa mostra, libero da ufficialità, questo «pittore della realtà» riesce ad emozionare e ad inquietare. Non sono grandi cose; ma sono ritratti forti, il loro realismo non è solo illustrativo e sono psicologicamente acuti.

Espressione della banalità di una psicologia d’accatto sono invece i tentativi esposti alla Gradiva, in via della Fontanella 5, da Ennio Calabria. I pretenziosi dipinti di Calabria non arrivano a trovare né unità stilistica, né unità poetica. Visti con diverse ottiche, naturali e fotografiche, gesti e oggetti, retorici e volgari, prendono forma attraverso una somma di stili e una gran ricchezza di colori genericamente piacevoli e sciocchi.