1 – Marzo ‘84

marzo , 1984

Un’opera architettonica è composta da tre elementi, nessuno dei quali è il più importante: 1) i materiali con le loro forme; 2) la luce; 3) il suono.
Le parole possono raccontare il ritmo della materia plasmata che si tende, si dilata, si rattrappisce. Ritmo da seguire in una fantasia di tensioni contrappuntistiche.
L’architettura non è mai una semplice melodia con accompagnamento; la polifonia le è connaturata ed essenziale. Non armonie che sottostanno ad un discorso melodico; ma un intrecciarsi continuo di voci palpabili che, più o meno canonicamente, si rincorrono e si annodano in strette, per, di nuovo, sciogliersi. Le parole, ancora, con l’ausilio fotografico, riescono a descrivere la luce, che è, sempre, anche ombra; ma come è possibile descrivere il suono di fronte, il meraviglioso suono tattile che è presenza, di fronte; ed attorno al rimbombo di una voce, di un passo; il suono di un silenzio? Borromini, gioiello tra i gioielli di Roma, nei secoli sconciato e deturpato, continua a sbalordire per la perfezione del gioco di questi tre elementi: materia, luce, suono.

Che piccola cosa è, invece, Borromini raccontato da A. Blunt: una descrizione confusa, considerazioni banali, ripresa di molte ovvietà delle storie dell’arte. «Geometria, matematica, stucchi, bizzarrie pre-rococò, derivazioni dell’Ultimo Michelangelo», eccetera. E poi, continuamente ripetuto, un errore (forse del traduttore, ma ugualmente irritante), per cui le frequentissime forme ellittiche sono sempre chiamate ovali. Anche il tentativo finale di umanizzare Francesco Castelli, detto il Borromini, facendo raccontare da lui stesso il suo suicidio, è buttato lì, senza efficacia. Ma le opere di Borromini sono belle, anche, da pensare e, quindi, chissà perché, questo libro si legge d’un fiato.

ANTHONY BLUNT, Vita e opere di Borromini, Ed. Laterza, pp . 335 Lit. 30.000.