Psicoanalisi contro n. 1 – Lo spaventacavalli

marzo , 1984

L’essere umano si costruisce vivendo. Quando sia iniziata la vita, nessuno lo sa, forse non è mai iniziata. La storia di ogni singolo uomo, però, ha avuto un inizio nel tempo, così si dice: al momento della nascita, cioè nel giorno in cui la società ha preso burocraticamente atto della sua esistenza oppure prima, come è più assennato credere, nel momento stesso del concepimento. In quell’istante, quella persona incomincia il suo viaggio in un ventre amico e nemico, e già in quel ventre incominciano le gioie e le tristezze.

L’uomo è uomo fin da subito. È perverso oltre che ridicolo, favoleggiare che vi sia un periodo in cui l’embrione o il feto non siano ancora l’essere umano. È assurdo fare il conto dei giorni per poter dire:

«ecco adesso sei uomo, da ora ti dobbiamo rispettare e difendere, fino a ieri no; eri troppo imperfetto persino per avere diritto alla vita; in cosa consista la perfezione dell’uomo lo possiamo decidere soltanto noi che siamo adulti e perfetti».

Questo dicono le madri, che vogliono illudersi di poter perpetrare pacificamente un omicidio. Questo dicono i padri, per non sentire disturbata la tranquillità della loro coscienza.

Può darsi che, per qualche ragione, quell’omicidio sia necessario; ma rimane un omicidio, doloroso, forse: ma bisogna chiamarlo con il suo nome, senza timore, o meglio, con tutto l’orrore che porta con sé un gesto che non bisognerebbe mai compiere, né fuori né dentro il ventre di una donna. E per acquietare la coscienza, è inutile fare l’elemosina alla donna che chiede la carità, con un bimbo in fasce tra le braccia all’angolo della strada, o urlare nelle piazze contro lo sterminio di milioni di bambini che muoiono per «la fame nel mondo». Non so se sia un bel gesto fare l’elemosina; è giusto lottare contro la fame nel mondo: però tutti gli omicidi rimangono tali. Non basta dire che non se ne è potuto fare a meno. Fin da subito, quel piccolissimo grumo pulsante vuole vivere; ma non solo, cerca il piacere e fugge il dolore. E noi, sapienti, adulti, facciamo molto di diverso?

Il feto sogna; oggi lo dice anche la scienza, prima non lo diceva nessuno perché tutti erano troppo spaventati da quella vita misteriosa dentro il corpo di un’altra persona. Le madri allora, orgogliose e superbe, potevano dire, stringendo fra le braccia quell’essere uscito dal loro ventre: — È mio —. E, manipolandolo con odio e amore, gli sussurravano: — Sei mio, ti ho fatto io! — Sei carne mia —.

Si è detto che il principio di proprietà è la causa dello sfruttamento e del lavoro alienato. Il principio di proprietà non riguarda soltanto il denaro, le terre, i castelli. Il principio di proprietà si radica nel ventre delle madri ed è il più terribile, perché è quel principio che pretende di possedere l’altro tutto intero. Le madri, anche, sanno dare, conoscono il sacrificio e l’abnegazione; ma prima di tutto, al fondamento di tutto, c’è l’avidità smisurata, il possesso di quella vita «frutto delle viscere».
I padri, sciocchi e imbelli, si sono da sempre arrabattati ad inseguire la madre nel rivendicare il possesso: — È mio figlio. — Dicevano e dicono. — Io sono il padre. Io sono tuo padre. — Ma sono perdenti, sono stati sempre perdenti. È la madre che ha il diritto di proprietà e di possesso. — Sono una mamma. — Dicono le mamme con gli occhi dolci di vacca e gli altri, donne e uomini, annuiscono: — Sei una mamma, e quella è carne tua. — La lotta di liberazione dalle madri, forse, non è ancora neppure incominciata, perché non è ancora incominciata la lotta di liberazione delle madri. Finché la donna non si libererà dalla voglia di ingoiare ciò che ha contribuito a mettere al mondo, sarà sempre una povera, piccola donna, vittima della propria maternità e della sua tirannide metafisica.

Un arcaico slogan femminista strillava: «L’utero è mio e lo gestisco io». Purtroppo, però, dietro a questo slogan c’era una terribile affermazione non detta: «È mio anche ciò che è dentro l’utero; in quel piccolo spazio, dove si annida una vita altra da me, lì si annida il mio potere. Il figlio è mio e lo gestisco io». Questo dice quello slogan smascherato dall’ingenuità d’una troppo facilmente smascherabile cattiva coscienza. Ed invece dobbiamo avere il coraggio di dire no, uomini e donne. Ciò che è dentro l’utero è padrone di se stesso e chi usa il cordone ombelicale come cappio e capestro venga impiccato.

2.
Ma la storia, forse, è incominciata anche prima. I due gameti, brandelli sperduti di realtà, un giorno, o una notte, si sono incontrati; ma di dove venivano? Venivano di lontano, da altri corpi, che hanno avuto una loro storia e che hanno segnato, forse, con i loro sogni e le loro avventure, anche quelle due piccole cellule, incomplete e perfette allo stesso tempo. La storia di ognuno, non solo della specie umana, ma di ognuno, di ogni singolo individuo, si affonda nella notte dei tempi. Eppure io, oggi, sono qua, in questo momento scrivo; racconto la mia storia, raccontando la storia di tutti e nel raccontare la storia di tutti so che racconto anche la mia storia.

Chissà come mi ha toccato mia madre: l’ho sognato e l’ho fantasticato; chissà come era la voce di mio padre: l’ho sognata e la ricordo; chissà come sono vissuto in quel ventre: bene e male, ne sono certo. E prima?… Io sento di non aver dimenticato nulla, benché ricordi poco di ciò che è dietro di me, ma che è anche dentro. Non so di dove sorgano la maggior parte delle fantasie e dei desideri. Improvvisamente, voglio e non voglio. Dentro di me c’è la memoria, che si arricchisce continuamente. Nulla va perduto, del mio passato, altrimenti io, oggi, non sarei così come sono. Oggi sarei uguale a tutti gli altri; ma la mia storia e i miei ricordi mi hanno reso irripetibile. Io sono il cumulo dei miei ricordi, fisicamente e psichicamente. Il mio corpo si è costruito nei gesti, nelle abitudini; questa pelle si è modificata sotto le carezze, queste braccia nei gesti, questa gola nelle parole, dette e non dette; e quelle non dette hanno gonfiato la mia gola, sono rimaste, a modificare le corde vocali, a tenderle e a rilasciarle. E le parole ricacciate dentro: dove? Nello stomaco e altrove, rannicchiate da qualche parte, continuano a ronzare. Le parole mie sono i miei pensieri; ma i miei pensieri vengono dai pensieri degli altri, dalle parole degli altri, che mi sono entrate dentro, che ho capito e non capito. Io sono il frutto di tutte le mie esperienze e di tutti i miei pensieri; ma queste esperienze divengono continuamente e i miei pensieri si arricchiscono continuamente e la coscienza ben poco sa di tutto questo. La coscienza coglie un istante di questo divenire e dice: «Ecco, io so».

3.
Molto spesso la coscienza, però, non sa di che cosa è cosciente; sa, percepisce, si ripiega su se stessa e dice: io in questo momento… ma in quel momento la coscienza non sa di dove viene quello che sa. La coscienza, però, non è soltanto uno schermo, come può dire una semplice psicologia, su cui si proiettano le fantasie e i desideri che nascono dall’inconscio; la coscienza non è inerte.

La passività della coscienza è l’ingenuo e rozzo capovolgimento di una antica concezione altrettanto bizzarra, quella che affermava essere la coscienza il principio dinamico e tutto il resto una inerte collezione di ricordi, estraibili a piacere dalla volontà cosciente. La coscienza è un modo particolare di essere della persona tutta intera; è il luogo in cui l’essere umano dice a se stesso «io» ma, l’io non è nella coscienza. L’io è tutta la persona.

Neppure così, mi pare funzioni il ragionamento. Secondo me, è meglio dire in questo modo: la coscienza sa e sa una parte di ciò che può sapere; l’inconscio sa e, forse, sa tutto il resto. Ma il sapere non è sapere; è ricordare; quando noi diciamo una cosa, la diciamo perché ricordiamo. L’abbiamo imparata, magari, soltanto un istante prima, ma è già ricordo. Non si può parlare che di ricordi, non si può pensare che ai ricordi; il presente, il momento stesso in cui si presenta, si presenta come ricordo. Allora uno vive di ricordi? No, l’uomo vive con i ricordi. Ma l’uomo dov’è? L’uomo è qui ed ora, con i suoi ricordi; di più non è possibile dire… Ma certo che è possibile dire di più! L’uomo è anche il suo progetto, è anche la sua fantasia, è anche il suo desiderio. L’uomo si proietta anche nel futuro. Ma il futuro, appena è detto, è un futuro che è un ricordo. Il ricordo di un futuro. Ma allora dove è l’uomo? L’uomo è qui ed ora. Nel suo breve presente, che è sempre un ricordo, perché è sempre una memoria.

4.
Ma c’è qualcosa che muove il tutto? O meglio: c’è qualcosa che muove l’essere umano? L’essere umano diviene, se diviene, quindi, si muove e il suo movimento ha una causa. Non so se è importante cercare la causa del movimento in generale: poiché tutto muove. Forse, è inutile. È inutile ripetere banalmente Eraclito; tutto scorre e basta.
Ma il movimento nell’essere umano ha una causa e questa causa non so se è prima o dopo l’uomo, alle sue spalle o davanti. Potrebbe essere dentro di lui; ma se fosse soltanto dentro, sarebbe tutta circoscritta nell’interno della persona e la persona sarebbe la fantasia di una persona che sta lì ferma ed immobile, pensando se stessa. Una persona invece desidera: ecco svelato il mistero. La causa del movimento è il desiderio; o meglio il desiderio è la causa della causa. Prima di ogni causalità esiste il desiderio e alla fine di ogni effetto esiste il desiderio, in quanto ci si muove perché si desidera. Anche il desiderio dell’assenza del desiderio è un desiderio: desiderio di che cosa?

Il desiderio non può che essere desiderio di ciò che si desidera. L’uomo che cosa desidera? L’uomo desidera, banalmente e teneramente, il piacere. Ma il piacere è un desiderio e il desiderio è piacere. Riscoprire il vecchio edonismo può essere una rozza semplificazione della realtà umana. Però, io non vedo altro.
Il piacere ha sempre un volto e ha sempre una storia.

La psicoanalisi classica parla di un qualche cosa che dentro l’essere umano, giudica i piaceri, ponendo divieti. Ma vi è un’altra realtà dentro e fuori di noi; prima fuori e poi dentro e poi di nuovo fuori e così via all’infinito, che ci dice che cosa è il piacere per noi. Se l’essere umano non si dicesse che cosa è il piacere, non potrebbe provare piacere. Il piacere del piacere non è possibile. Il piacere è sempre piacere di qualche cosa; magari piacere di desiderare. Il desiderio si guarda subito allo specchio e vi trova un piacere; però questo piacere non riflette completamente il desiderio. Vi è qualcos’altro, alle spalle del desiderio, che condiziona il piacere.

Con queste frasi, un po’ oscure e un po’ bizzarre, voglio dire una cosa semplicissima: che non si riesce mai a provare piacere e basta. Si viene al mondo con un apparato psicofisico che prova piacere per certe cose e non per certe altre.
Forse il piacere è il bene; ma il bene, nuovamente, è una parola astratta, se non è la descrizione di un bene.

Alcuni esseri umani provano piaceri; hanno piacere di cose per cui altri esseri viventi non provano piacere. Ogni gruppo sociale ha i suoi piaceri, ogni individuo i propri.
Il vivere è l’unico piacere ricercato per sé; ma la vita, in realtà, non esiste: la vita è sempre questa o quella vita, bella o brutta che sia. Ogni persona ha la sua storia, quindi ha imparato a provare piacere per una quantità diversissima di situazioni e di stimoli, talvolta, addirittura contraddittori. Dall’esterno gli hanno detto che questo è piacere e quell’altro non lo è; e poi ancora gli hanno anche detto che se prova piacere per questo, è un essere immorale, quindi non deve provare quel piacere, o non deve lasciarsi andare a questo piacere, il che è poi la stessa cosa. I vari volti del piacere non coincidono mai: Giano ha due volti; ma il piacere ne ha tantissimi, non infinti, ma tantissimi. Guarda da tutte le parti e ci guarda da tutte le parti e noi cerchiamo di guardarlo negli occhi: quali occhi? Qual è il volto del piacere che preferiamo? Qual è il piacere che è davvero piacere?

I piaceri dentro e fuori si affollano; spesso sono in conflitto tra di loro. L’uomo, mentre cerca di realizzare un desiderio, ne sente improvvisamente un altro; il primo perde, allora, sapore. Il desiderio del nuovo piacere lo domina, talvolta completamente; ma il suo predominio dura poco. Altri stimoli si affollano; allora tutto si capovolge e si presenta la noia.
La noia è il desiderio del piacere spinto all’eccesso: esprime l’ossessività del desiderio.
La noia è un’attesa inerte e dolente, fatta di piccoli gesti, sempre uguali; ma sempre un po’ diversi.
Tutto è immoto, come prima di un’esplosione catastrofica.
La noia è il delirio del piacere.

6.
«Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non pensi alla trave che hai nel tuo occhio? O come dirai al fratello: Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre una trave è nell’occhio tuo? Ipocrita, leva prima la trave dal tuo occhio, e allora avrai la vista capace per togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello». (Matteo, VII) Questa è una delle più belle definizioni dell’inconscio che siano state date. L’inconscio è anche ciò che siamo e non vogliamo essere; e ciò che siamo e non vogliamo essere, lentamente, ci struttura. Gli esseri umani vivono negando una grande parte di loro stessi. Ho detto che i ricordi non possono essere tutti immediatamente presenti alla coscienza; per ragioni di spazio e di equilibrio psichico.

I ricordi sono ricordi di esperienze, le esperienze sono desideri, i desideri sono contraddittori. L’essere umano desidera molto; ma pochi dei desideri può riconoscere di provarli. Ancor prima di cercare di realizzarli, molti desideri debbono essere inibiti. Il trave che è nel nostro occhio non lo si vuol percepire, si preferisce allora buttarsi ad osservare la pagliuzza che è nell’occhio altrui. Spesso, si è acuti e penetranti nell’individuare le caratteristiche, i difetti, le colpe dei nostri compagni di viaggio; ma noi non possiamo accettare di essere tutto quello che in realtà siamo. Non solo i desideri fantasticati; ma anche i piaceri che realmente si provano, devono essere negati. Spesso si compie un gesto che ha un chiaro significato e, mentre lo si fa, lo si spiega in modo totalmente opposto. Questa lotta continua per non conoscerci, ci costruisce giorno per giorno. L’uomo si abitua a raccontare sé a se stesso in un modo che gli vada bene, che non faccia troppo soffrire o che non metta addosso troppi sensi di colpa; e poi, ancora, racconta se stesso agli altri, molte volte mentendo consapevolmente e questo è anche giusto: essere troppo scoperti rende deboli.
I genitori e gli educatori condannano le bugie e ci vogliono sinceri; ma con altri messaggi, meno espliciti, ci invitano a mentire, per difenderci o per buona educazione. Educare vuole anche dire insegnare i gesti e le parole che si debbono usare nel rapporto con gli altri. Ogni gruppo sociale ha i suoi rituali e le sue frasi convenzionali che si chiamano buona educazione. Vi sono comportamenti ritenuti adeguati per ogni situazione e per ogni età. Tutti, anche se non lo vogliono, sono condizionati dalle regole di comportamento che vedono attorno a loro. Un gesto del tutto inventato non è possibile, non solo perché non è comprensibile all’altro, ma perché, prima di tutto, non è comprensibile a noi.

Le regole della buona educazione servono, implicitamente, non solo ad esprimere la benevolenza; ma anche l’aggressività. Il linguaggio è liberatorio e costrittivo allo stesso tempo, la buona educazione fa parte del linguaggio e quindi anch’essa ha un duplice aspetto, l’uno negativo, l’altro positivo. È troppo semplicistico e squallido rifiutare in blocco le convenzioni della «buona educazione». La buona educazione è anche cortesia e la cortesia è cara agli dèi.
Io penso che la cortesia sia sacra.

Essere cortesi, però, vuol dire anche saper mentire; la sincerità può essere violenta e brutale e, talvolta, più dannosa di una menzogna. Sarebbe molto importante educare i bambini alla cortesia come rito vicino all’erotismo, e insegnar loro a disprezzare invece l’irrigidimento frigido delle buone maniere, di quelle che vengono loro imposte, ad esempio quando «si va in visita».

La cortesia è tenera e calda anche quando è menzognera. La convenzionalità delle frasi fatte, banali, è squallida perché è stupida e vile. La cortesia è coraggiosa, perché ci insegna a vivere anche per gli altri, non soltanto con gli altri. Gli antichi erano cortesi anche con il nemico, perché la cortesia è un rito che rende la vita piacevole comunque. La cortesia insegna a scoprirsi lentamente, rispettando i tempi degli altri. La banalità delle frasi fatte e dei gesti rattrappiti in una convenzionalità stereotipa, impoveriscono ed ottundono; e proprio in questi gesti, si annida l’inconsapevolezza: si incomincia con queste falsità e poi ci si abitua a negare di provare ciò che in realtà si prova. La cortesia insegna che non tutti i desideri che si manifestano dentro di noi possono essere realizzati; le buone maniere negano agli altri, e, prima di tutto, a noi di provare questi desideri. Ecco allora l’ottusità tronfia di chi si ritiene sempre nel giusto, e di chi, pur dicendo di volersi mettere in discussione, non fa altro che parlare di sé, parlare, parlare, coprendo gli altri della bava delle proprie parole.

Ecco i genitori che raccontano ai figli una storia impossibile: la loro famiglia è la migliore, loro sono quelli che si sono sacrificati di più, gli altri genitori sono pessimi, gli amici sono traditori e il mondo è abitato da malvagi. Ciò che è stato dato è il meglio che si poteva dare. Talvolta, queste bugie fanno tenerezza, perché servono a coprire lo squallore di un’esistenza miserabile; e, raccontare ai figli una vita improbabile, serve a sentirne meno la tristezza. Ma questa tenerezza è sufficiente a giustificare l’inganno?

Ingannarsi ed ingannare è pericoloso, sebbene, spesso, sia indispensabile. Guai però a chi scambia l’inganno con la verità. La viltà non è mai positiva: l’inganno deve essere riconosciuto e riconosciute devono essere tutte le sue conseguenze. L’inconscio è costruito d’inganni. Inganni che ognuno fa a se stesso, per alleggerire un po’ il peso delle contraddizioni che ci sentiamo ribollire dentro.

I piaceri e i desideri sono contraddittori, molti, non solo sono inaccettabili; ma fanno anche paura. La paura del piacere è indotta nell’uomo da sempre. Chi prova piacere teme una punizione. Si diceva un tempo: «gli dèi sono invidiosi della felicità umana». Questa frase sta a significare che l’uomo teme troppo il piacere. Lo teme troppo perché per lui è tutto. E mette a disagio sapere di essere circoscritti nella bolla di sapone del piacere.
Allora si favoleggia di altro.

Fin dall’antichità si è cercato di scindere la virtù dal piacere, riducendola, quindi, a una povera cosa indesiderabile; ma che riempie la bocca degli stolti e dei malvagi. La virtù ci insegna a scegliere tra i piaceri; ma deve essere un piacere.
Non gli dèi sono invidiosi della felicità umana ma l’uomo della felicità altrui. La virtù deve essere scevra di invidia; ma ricca di piaceri.
Ma allora: solo i piaceri malvagi fanno paura? Purtroppo non è così. L’uomo è inserito in una rete di contraddizioni. Molti piaceri fanno paura perché sono troppo intensi, perché ci hanno detto che non dobbiamo provarli, perché non li possiamo realizzare e poi, ancora, perché e perché… Poi non esiste solo la paura del piacere; esiste anche il piacere della paura.

7.
Ecco allora esplodere l’anticonformismo degli imbecilli e nuovi slogan si sostituiscono ai vecchi. «Tutti i desideri sono buoni. Nessuno ha diritto di sindacare la mia ricerca del piacere». Ecco gli slogan dei finti liberati, che non accettano di pensare sulle loro scelte, perché, in realtà, non hanno il coraggio di rispettare le scelte degli altri; ma, soprattutto non hanno il coraggio di lottare per guardare meglio dentro quel cumulo di piaceri, contraddetti e contraddittori che è il loro inconscio, e allora accettano il qualunquismo di una neutrale amoralità; perché non accetterebbero mai di scoprire dentro di loro qualcosa di riprovevole. Nell’inconscio abitano quindi i desideri non riconosciuti; ma che continuano ad agire. La lotta per negarli costituisce la nostra personalità. Noi siamo quel che siamo, noi siamo quel che sappiamo di essere e quello che non vogliamo essere.

8.
L’inconscio è un luogo in cui risiedono tante cose; cose strane ed incomprensibili, di cui l’uomo ha paura, ma non soltanto. L’uomo è affascinato dal proprio inconscio, lo sente dentro di sé e attorno a sé. Io non so, bene, dove mi trovo. Mi sento presente a me stesso quando mi percepisco e mi osservo; ma la presenza di me a me stesso è, anche, sempre un po’ un sogno.

Sono, spesso, lontano da me: mi conosco e non mi conosco, capisco e non capisco i miei gesti. Credo di sapere cosa voglio; ma so, anche, di non saperlo.
La lotta è bella, perché è ricca di possibilità e di esiti imprevisti; l’imprevisto genera altre situazioni misteriose, in tutto questo io dove sono? Sono qui e là allo stesso tempo; sono dentro e fuori la mia pelle. Forse sarebbe tempo di dare dell’uomo una definizione che lo descriva una volta per tutte; ma, se ci riuscissimo, sanciremmo la definitiva morte dell’uomo.

L’uomo diverrebbe la propria mummia. Mummia avvolta in bende di bisso, gli occhi spenti e la pelle immobile in un sonno eterno. Ma neppure la mummia è mummia di se stessa. Anche la mummia è il sogno di una mummia e il mio sogno: vicina e lontana, nella fantasia o in un museo. Quindi non è possibile ridurre l’uomo ad una mummia di uomo.

Bisogna avere il coraggio di affrontare i meandri in cui si disperde l’essere umano. Il labirinto, l’antica costruzione di Minosse, rappresenta il corpo, l’inconscio: cioè l’uomo, che si perde e si ritrova continuamente.
L’uomo sente un Minotauro dentro di sé, terrifico.
Dedalo si mette le ali, Icaro si mette le ali, fuggono verso il sole. Ma chi riesce a liberarsi da se stesso?
Il sole scioglie la cera con cui erano incollate le ali sulle spalle del troppo temerario Icaro. Icaro cade nuovamente dentro l’uomo: cioè dentro a se stesso e la storia ricomincia.

Il Minotauro continua a fare paura, il sole continua a splendere.
Il labirinto deve essere percorso; bisognerà uccidere il Minotauro, ma non è ancora tempo. Il filo di Arianna è la vera prigionia dell’uomo, lo lega o lo costringe ad uscire.
Il labirinto si distende: luogo di tristezza, oppure, anche, di gioia. In alto c’è il sole, in qualche luogo si nasconde il Minotauro.
Il filo di Arianna costringe alla fuga: bisogna, invece, impadronirsi del labirinto, uccidere il Minotauro ed accorgersi di essere in uno splendido giardino. Io voglio rimanere uomo: sotto il sole. Questa che ho raccontato è una storia strana; l’ho pescata nel mio inconscio: ecco perché neppure io la riconosco del tutto; ma nell’affondarmi in essa mi smarrisco e mi ritrovo.
Nel labirinto vivo la mia avventura: io sono il labirinto.

9.
L’umanità è molto giovane. Il tempo passa in fretta e l’uomo cambia poco. Noi siamo figli di pochi padri e di poche madri riconoscibili. Ci sentiamo venire di lontano; ma la lontananza si perde oltre nebbie impenetrabili. Noi siamo figli della Grecia antica; là sono state poste le basi della nostra cultura ed i principi su cui si fondano le nostre convenzioni. I greci hanno detto cose sagge e cose sciocche.
Non mi ritrovo completamente neppure nel mondo degli Elleni. Però quello è un mondo che amo.

Rifiuto tutte le letture che ne sono state fatte: mi sembrano inadeguate e riduttive; so di pensare questo perché sono geloso.
Quell’antico mondo è giunto a noi a brandelli, nulla è intatto. Noi cerchiamo di rimettere insieme ciò che è disperso e smozzicato; ma il risultato è sempre un po’ ridicolo.
Percepiamo qualche cosa di grande che, però, è anche frutto delle nostre proiezioni: soltanto il sole, da allora, è rimasto quasi intatto.
Gli studiosi si arrabattano a dividere la cultura antica in epoche, ad osservare marmi infranti, pitture senza colore e cumuli di parole giunte a noi, assai di rado in testi integri. La cosa più terribile è che di quell’antico mondo abbiamo perso del suono persino il ricordo.

Eppure, quello che è rimasto affascina e travolge, perché riesce a comunicare, nonostante tutto, emozioni così intense che sembrano sorgere dal nostro presente e non dal passato.
La cultura ellenica è nata già perfetta. Anche quando non conosceva la scrittura sembra possedere una maturità meravigliosa. Forse per quella cultura lo scrivere non era essenziale. Certo, oggi, usiamo gli antichi pensieri, pervenutici attraverso le parole scritte, come principale via per raggiungere la comprensione di quel mondo. Ma la parola è troppo poco, soprattutto quando non è più che un inerte segno senza suono.

10.
Riprendiamo, ora, la strada che ci porta a descrivere l’inconscio. Io penso che la cultura greca arcaica ne avesse una chiara nozione e gli uomini di quel tempo lo percepissero nettamente, tanto da descriverlo pur difendendosene.
Percepire l’inconscio fa sempre paura: nel labirinto il Minotauro non è ancora stato ucciso.

Quell’antica descrizione parla dell’inconscio unendo scienza e poesia, riuscendo, così, a raggiungere il massimo di verità possibile.
In quei tempi si raccontava di un dèmone chiamato «Spaventacavalli» (Taràxippos). Questo dèmone era lo spirito di un eroe seppellito nei pressi di Olimpia: luogo in cui, come tutti sanno, periodicamente, i più belli e valorosi maschi dei popoli ellenici si incontravano per gareggiare. Durante le corse con i carri, accadeva che, talvolta, i cavalli improvvisamente si impennassero, come spaventati da una presenza misteriosa; l’auriga colto alla sprovvista, non sempre li sapeva dominare e il carro si rovesciava nella polvere.

Molto spesso questo accadeva quando l’atleta era già convinto di aver raggiunto la vittoria. Perché questo era accaduto? Era colpa dello Spaventacavalli che, uscito dalla tomba, per qualche ragione adirato, aveva deciso di compiere quel gesto maligno. L’uomo si sentiva vittima di una strana forza che, con determinazione, lo aveva trascinato nella caduta.
La piccola scienza della psicoanalisi parlerebbe di «atto mancato». L’auriga da tempo sognava la vittoria, si immaginava splendente ed incoronato, circondato dagli amici giubilanti e tra quegli amici un amante emozionato cui dedicare la vittoria. Ma i sensi di colpa erano lì, pronti a fargli compiere un gesto inconsulto; ecco, quindi, la punizione non voluta consapevolmente; ma cercata inconsciamente con determinazione: il povero auriga voleva e non voleva vincere.
Ma il mito antico è più completo; descrive, meglio, una situazione, un momento della vita dell’uomo, unendo scienza e poesia.

Chi fosse lo Spaventacavalli non era così facile da determinare. Si diceva che fosse lo spirito del valoroso auriga Olenios oppure Alcatoo, figlio di Portaone, sepolto con il suo cavallo. Si diceva, ancora, che fosse Mirtilo, il quale, al servizio del re di Pisa, Enomao, aveva ingannato il suo signore, portandolo alla rovina. Enomao aveva deciso di dare in sposa la propria figlia, la bella Ippodamia, al valoroso che lo avesse vinto nella corsa sui carri. Molti giovani avevano gareggiato con lui, sconfitti erano stati decapitati. (Da queste gare sarebbero nati i giochi di Olimpia). Di lontano, giunse, per gareggiare, Pelope, figlio di Tantalo ed amante del dio Poseidone, che chiese l’aiuto di Mirtilo. Questi manomise il cocchio del re che si ribaltò durante la gara, Pelope vinse e lo spirito di Mirtilo, che morì di morte violenta, aleggiava sempre su Olimpia.
Un altro racconto diceva che proprio il divino amante di Pelope, Poseidone Ippio, fosse lo Spaventacavalli. E poi ancora di altri si favoleggiava (vedi Pausania, VI, 20 15 – Gebhardwissowa, IV, A.2.).

L’inconscio è uno Spaventacavalli. Non è soltanto dentro di noi. Noi sentiamo, spesso, di esserne preda. È al nostro fianco: amico e nemico; sconosciuto ed imprevedibile. Qualche volta riusciamo a dominarlo, ma altre volte ci sopraffà.
L’inconscio non è soltanto il nostro inconscio: è fatto, anche, dell’inconscio degli altri. I nostri desideri si incontrano con quelli degli altri. Gli altri pensano a noi e di noi, noi sentiamo questi pensieri, ancor più: ci costruiamo in questi pensieri. Gli altri ci desiderano e ci rifiutano, noi ci costruiamo in questi desideri e in questi rifiuti.
L’inconscio è, quindi, uno Spaventacavalli.

11.
Apollo era adirato perché il sommo condottiero degli Achei, Agamennone, aveva offeso un suo sacerdote, il vecchio Crise, rifiutando di rendergli la figlia, bottino di guerra.
Il dio, con le sue frecce cariche di morte, diffuse nel campo acheo una terribile pestilenza. Così racconta Omero, all’inizio dell’Iliade.
Agamennone fu costretto a rispettare la sacralità del sacerdote di Apollo e dovette, quindi, rendergli la figlia. Con un gesto tirannico, però, ordinò ad Achille di cedergli la sua schiava Briseide.

L’Eroe Achille, nel consesso degli Achei, dopo aver ascoltato le parole arroganti del sommo condottiero, avvampò di sdegno e di ira. La mano corse alla spada.

«Disse così; al Pelide venne dolore, il suo cuore
nel petto peloso fu incerto tra due:
se, sfilando la daga acuta via dalla coscia,
facesse alzare gli altri, ammazzasse l’Atride,
o se calmasse l’ira e contenesse il cuore.
E mentre questo agitava nell’anima e in cuore
e sfilava dal fodero la grande spada, venne Atena
dal cielo; l’inviò la dea Era braccio bianco,
amando ugualmente di cuore ambedue e avendone
cura; gli stette dietro, per la chioma bionda
prese il Pelide, a lui solo visibile;
degli altri nessuno la vide».
(Iliade, Libro Primo, vv. l88/198, versione R. Calzecchi Onesti)

La mano di Atena sui biondi capelli dell’eroe… un dio era intervenuto a modificare le intenzioni del giovane adirato.
Achille aveva in sé quel dio; ma lo sentiva, anche, al suo fianco.
Omero sapeva che Achille non era soltanto Achille.
Tutto il mondo è pieno di dèi. Gli dèi animano tutto e l’uomo con essi è dappertutto. L’ira e la saggezza dell’uomo sono nella divinità che anima il mondo. L’inconscio quindi è dappertutto, non si può parlarne, se non si parla degli altri e del mondo. Non si può capirlo, se si è prigionieri di una piccola, vile scienza.
Penetrando nel proprio ed altrui inconscio, l’uomo può raggiungere la saggezza. La saggezza è armonia tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e gli dèi, tra l’uomo e le stelle. La psicoanalisi non deve aver paura dell’uomo, degli dèi e delle stelle. La psicoanalisi proprio per questo è una terapia.

Questa terapia si rivolge ad una persona che è qui ed ora, che vuol conoscersi, perché vuole guarire.
L’uomo non sa esattamente in che cosa consista la guarigione; ma sa di voler e dover guarire.

Per guarire bisogna vincere stupidità e viltà, che sono frutto dell’inconsapevolezza. Per superare la viltà e la stupidità bisogna anche agire. La contemplazione è sterile se non partorisce l’azione ed anche la lotta. L’azione e la lotta hanno bisogno di una scena in cui realizzarsi; questa scena è il mondo, ma il mondo è un labirinto. Questo labirinto è l’uomo.
La guarigione deve trasformare il labirinto in un giardino gradevole: bisogna rifiutare il filo di Arianna.
Il labirinto è imprevedibile, sempre nuovo. L’uomo è qui ed ora; ma è sempre oltre, perché non è mai definibile. Sulla scena, Riccardo III lotta per il suo regno, gli spettatori lo guardano e fantasticano di essere sul suo cavallo; ma, sulla scena, il cavallo è di cartapesta.
Riccardo III, però, un tempo, ebbe un cavallo vero.

Chi è Riccardo III? Nel tumulto della battaglia, è colui che grida:

«Il mio regno, il mio regno per un cavallo».