88 – Dicembre ‘92

1 dicembre 1992

La stagione sinfonica del Teatro dell’ Opera 19921993 che pareva doversi inaugurare in altro modo si è poi di fatto inaugurata con un concerto diretto da Vladimir Fedoseyev in cui sono state eseguite pagine sacre di due grandi autori.
La Terza Sinfonia” Liturgica” di Arthur Honegger, è stata scritta nel 1945 e si articola in tre movimenti. Il primo è un Dies lraes:allegro marcato che inizia in modo sommesso, si sviluppa con un ritmo ossessivo per poi tornare ai sommessi accenti iniziali. Il secondo movimento, De Profundis: adagio, si caratterizza per un tema insinuante e molto malinconico: Il finale, Dona nobis pacem: andante contiene un motivo melodico di speranza, dall’andamento corposo, con le percussioni molto in evidenza. L’esecuzione dell’ orchestra, pur ben tenuta in pugno dal direttore, è risultata molto squadrata, anche se non sempre all’altezza del brano, tanto da sfrangiarsi qua e là in contrasto con le velleità di precisione persino eccessive di Fedoseyev.
La Messa di Gloria di Giacomo Puccini, per coro, orchestra, tenore e baritono, del 1880 è un brano fresco ed entusiasta, tal uni dicono che non sia di carattere particolarmente sacro, ma la sacralità è presente a nostro avviso nell’ ingenuo entusiasmo giovanile dell’ autore, che dedica grande cura ad evidenziare con la sua musica le parole della funzione religiosa. Il Kyrie si sviluppa in un bello e tenue gioco imitativo. Il Gloria è una pagina quasi verdiana, festosa, e ricca di piacevoli squarci lirici, con un fugato molto energico sulle parole del Tu solus. Variopinto è il Credo, con effetti nettamente teatrali. Il Sanctus è chiaro e pulito, impreziosito dalla bella melodia del Benedictus. Doverosamente accorato risuona l’Agnus Dei. Qui l’orchestra ci è parsa più adeguata, compatta nel seguire le intenzioni dei direttore. Il tenore Vincenzo La Scola e il baritono Giorgio Cebrian hanno spiegato voci nitide ed espressive. Il coro diretto da Paolo Vero ha collaborato con brio ed efficacia alla buona riuscita complessiva di tutto il brano.

All’Alpheus di via del Commercio abbiamo ascoltato l’esibizione del gruppo jazzistico Jim Snidero Quintet, composto dallo stesso Snidero al sax alto, da Tom Harrel alla tromba, da Robert Di Gioia al pianoforte, Reggie Johnson al contrabbasso e Louis Hayes alla batteria. Il gruppo non risulta molto equilibrato nel suo insieme, la batteria risuona spesso debordante, il contrabbasso dal suono sporchissimo non ha ritmo e stona, il pianoforte pessimamente amplificato è rigido e monotono, appena migliori sono la tromba, dal suono piacevole, malgrado l’intonazione incerta e il sax alto fluido e pungente, anche se sempre sulla soglia della stecca. Sembra che i cinque non sappiano suonare insieme. I brani in programma sono di una monotonia esasperante che si articola in una serie di “a solo” di uno degli strumenti a cui gli altri fanno da appiccicato accompagnamento. Nonostante l’ovvietà volgare e fracassona delle percussioni il concerto ha un effetto assolutamente soporifero.

87 – Novembre ‘92

1 novembre 1992

Non siamo per niente d’accordo con quanto afferma Paolo Rossini sul programma di sala del concerto di mercoledì 28 ottobre all’Auditorium di via della Concilazione, per la stagione da camera dell’ accademia di Santa Cecilia: «Già al primo colpo d’occhio si nota la presenza quasi costante – tre autori su quattro – di brani dedicati alla Spagna. Se poi si considera che per un autore settecentesco come Mozart il Drang nach Sueden non poteva che essere indirizzato verso l’Italia, questo filo sottile si materializza in qualcosa che potremmo chiamare (…) mediterraneità». Secondo noi sarebbe invece più giusto dire che Cecilia Bartoli ha scelto per sé un programma che è sufficientemente unitario, ma che in ogni caso non può essere unito in nome della mediterraneità. Paolo Rossini ha confuso un’assonanza di titoli italo-spagnoli con un percorso musicale. I testi musicati da W.A. Mozart sono schiettamente rococò e per nulla mediterranei, anzi coerenti con il «barocchetto» austriaco, anche se la musica, pur saldamente collocata nella sua epoca, trascende con la sua bellezza ogni definizione spazio-temporale. Quelli di Ravel sono invece folcloristici, rivestiti di una musica sensuale e magistralmente virtuosistica.
Orrendi ed incongrui sono non solo i versi della Zaide di Berlioz: un vero sassolino nella scarpa. Per quel che concerne la sezione rossiniana del secondo tempo, troviamo stupende nell’arguzia nord-europea le cinque arie sul testo di Metastasio Mi lagnerò tacendo; invece musicalmente un po’ ovvie, ma ben tornite, le melodie dell’Orfanella del Tirolo, dell’Anima abbandonata e La grande coquette, mentre la pagina della Semiramide ci pare stupenda. Splendida la vocalità di Cecilia Bartoli: i fiati sono emessi alla perfezione, nessuno scontro od esplosione d’aria nelle cavità della fonazione turba il fluire di una voce intonatissima, abile e sensuale. Non è però, il bravo mezzo soprano, ancora in grado di affrontare Mozart come si dovrebbe. Il suo tentativo è stato abbastanza corretto, ma la divina arguzia di quelle arie era un po’ sacrificata, tanto che, qua e là, la voce acquistava un timbro quasi acido. Noi menzioniamo solo di rado i bis; però per completare il nostro discorso, diremo che nel bis «Voi che sapete», dalle Nozze di Figaro, la cantante ha dimostrato ancora la sua inadeguatezza rispetto al repertorio mozartiano, cantandola come si canterebbe un’aria di Azucena. Noi siamo d’accordo quando non si edonizza Mozart: quella è un’ aria drammaticissima, però non ha nulla a che vedere con l’atmosfera gitana. Ottima la Bartoli ci è parsa in Ravel: intensa, precisa, pulita e superlativa nei vocalizzi. Nella pagina di Berlioz è riuscita ad essere spigliata, rendendola accettabile. Nelle cinque arie rossiniane su un testo di Metastasio la cantante ha confermato le sue ottime qualità. Ancora la sua voce si è rivelata duttile e cangiante nelle tre canzoni un po’ ovvie ed infine superba nell’aria dalla Semiramide dove ha sfoggiato anche perfetti vocalizzi rossiniani. Pessimo per tutto il concerto l’accompagnamento del pianista Myung- Whun Chung: impreciso, confuso e ritmicamente zoppicante.

86 – Ottobre ‘92

1 ottobre 1992

Che i Farfalloni siano bizzarri tutti lo sanno. Questa volta, nella loro bizzarria, vogliono che lo spazio normalmente dedicato ad una recensione musicale, sia riservato ad alcune osservazioni su di un artico letto che Giovanni Carli Ballola ha pubblicato su L’Espresso dell’11 ottobre appena trascorso: «Tutti scrivono musica (…). Musica troppa per poche orecchie (il suo pubblico non fittizio è pur sempre quello che tutti sanno)… Si aggiunga il fatto che i Puccini anni ‘20, i Petrassi anni’ 50, i Berio anni ‘70 della situazione tardano a saltar fuori in questi anni ‘90, che non è pessimistico definire di vacche magre».
Da una parte quello che il critico scrive ci ha fatto piacere. Poiché ci occupiamo anche di psicoanalisi ci divertiamo non poco a trarre profitto da questa scienza, per cui non ci sfugge come le parole che Egli dedica alla musica dei nostri giorni rifletta una così livida invidia dietro la quale non si farebbe fatica ad ipotizzare ben altro. Ci si farà giustamente notare che il nostro è un colpo un po’ scorretto, però: à la guerre come à la guerre. E non sfugge a nessuno che questa sia la solita vecchia guerra tra i vecchi parrucconi e gli ingenui e forse un po’ sciocchi che cercano instancabilmente di lottare perché qualcosa si muova in avanti, nel campo artistico in generale ed in quello musicale in particolar modo. Il disprezzo che Ballola dimostra per l’impegno di compositori, interpreti ed organizzatori colpevoli solo di cercare i modi di continuare a fare musica è pari alla piaggeria che è pronto a profondere in onore del Grande Evento, che lascia tutti e anche noi rapiti, in cui il Grande Esecutore interpreta il Grande Vecchio Autore. Noi crediamo però che sarebbe doveroso per chi si occupa professionalmente di musica mostrarsi meno spocchioso ed aridamente offensivo verso chi con fatica lotta anche per cercare di dare alla musica di oggi un pubblico «non fittizio» per cui valga la pena di continuare a produrla. Petrassi e Berio (grandissimi compositori) si sono realizzati in un passato se pur recente e restano i Maestri cui dobbiamo guardare e il cui insegnamento non deve andare disperso. Tutta l’arte che si produce, e anche la musica, costa grandi sforzi, intellettuali certo, ma anche pratici a chi crede nel dovere culturale di diffonderla. Noi che crediamo che la musica non sia morta e che per dimostrarne la vitalità non risparmiamo sforzi in unione coi molti che per fortuna la pensano così: autori, interpreti e critici, sappiamo quanto caro sia il prezzo di questo entusiasmo. Ci sentiamo però orgogliosi quando vediamo per tre sere consecutive la basilica di S. Maria Maggiore gremita per gli «Incontri di Musica Sacra Contemporanea». Certo sappiamo che la pretesa di non fare musica solo per gli addetti ai lavori, suona come un demerito per il Critico Snob al quale non importa che agli «Incontri» si siano sentiti risuonare i linguaggi musicali più diversi, senza pregiudizi verso autori italiani e stranieri che hanno avuto la gioia, invero rara, di una risposta entusiastica da parte di un pubblico desideroso di conoscere per capire e di capire per apprezzare. Continueremo ad organizzare manifestazioni musicali: concerti di ogni tipo, di musica di ieri e di oggi, con interpreti famosi e sconosciuti per dare modo a tutti quelli che hanno buona volontà di cogliere nel suo significato un discorso che accomuna Bach a Hindemith, Messiaen a Haendel e costoro a quei giovani autori di oggi che ci chiedono di essere ascoltati. Si scrive molta brutta musica, proprio come si scrivono libri bruttissimi. Questo è vero oggi come lo è stato nel passato. Il lavoro solidale di musicisti, studiosi e critici può servire anche a costituire i criteri di giudizio, senza cadere nella trappola della saccenza codina di chi giudica il presente senza volerlo davvero conoscere. L’invidia per la vitalità della musica d’oggi può essere davvero un brutto sentimento, peggio ancora se accompagnata da un generico rimpianto del bel tempo che fu.
Noi cercheremo di non cadere neppure nell’errore opposto: faremo musica mettendo a diretto confronto passato e presente e speriamo che sarà proprio la risposta del pubblico a dire che l’offerta, ben lungi dall’ essere «straripante e diffusa» è stata troppo scarsa di occasioni che non si risolvessero in parate di stelle il cui splendore è spesso determinato più dal pregiudizio che dal giudizio di qualche Critico che ha paura di confrontarsi col nuovo.

84 – Giugno ‘92

1 giugno 1992

L’ International Chamber Ensemble è una formazione orchestrale molto elastica le cui possibilità vanno dalla piccola formazione cameristica all’orchestra settecentesca per giungere fino a poter disporre di un vasto organico sinfonico.
Ne è animatore, direttore stabile e artistico il Maestro Francesco Carotenuto, il quale è anche docente di composizione al Conservatorio di S. Cecilia.
Quella attuale è l’undicesima stagione romana e nel programma non poteva mancare qualche attenzione al repertorio rossiniano. In particolare i concerti del 24 e 27 maggio hanno registrato un felice connubio di proposte musicali che vedono accomunati il pesarese Rossini e il genovese Paganini.
Noi abbiamo assistito al secondo dei due e abbiamo potuto apprezzare un’esibizione dell’orchestra e dei solisti veramente godibile. Apriva la serata l’ouverture dall’opera La scala di seta, di G. Rossini e, nonostante qualche esitazione iniziale e nei successivi attacchi dei fiati ne è scaturita un’esecuzione giustamente briosa.
Il secondo brano consisteva nella Mosè Fantasia di Paganini, introduzione e variazioni sulla quarta corda per violino e orchestra. Un’opera del 1818/19 sul tema preso dal Mosé rossiniano «Dal tuo stellato soglio».
Il tema del compositore pesarese (derivato dalla preghiera contenuta nella Betulia liberata di Mozart) è rimeditato da Paganini con grande sapienza compositiva e non solo elaborato in funzione del virtuosismo funambolico del violino che pure raggiunge qui punte vertiginose. Il giovane violinista Ettore Pellegrino ha dimostrato un ottimo piglio nell’arcata e grande passione interpretativa, malgrado tante piccole imprecisioni, alcune delle quali però sono in un brano del genere quasi inevitabili.
Seguiva a concludere il primo tempo la Sonata per la gran viola in do maggiore, del 1834 di Paganini. Una pagina di patetismo, nello spirito «neo-classico» del primo Ottocento. La viola di Simonide Braconi è stata molto espressiva ed ha dimostrato una buona cantabilità; ma ha mancato forse un po’ spesso di precisione. Il secondo tempo tutto rossiniano, dopo l’inizio soltanto orchestrale con l’ouverture da La cambiale di matrimonio eseguita con sufficiente garbo dall’orchestra dopo un attacco in cui aveva fallito in pieno il coup d’archet proseguiva con una serie di arie cantate dal soprano di Taiwan Chu Tai-Li che si è rivelata un’eccellente cantante, forse dal timbro un po’ scuro per Rosina, ma dalla voce nitida e capace di adeguati vocalizzi rossiniani. Il direttore Carotenuto ha saputo leggere tutti i brani con acume e sapienza, nonostante in qualche punto apparisse un po’ troppo scolastico.

83 – Maggio ‘92

1 maggio 1992

«Nonostante le difficoltà, il 22 maggio 1874, ad un anno esatto dalla morte di Manzoni, Verdi poteva dirigere a Milano, nella chiesa di San Marco, la prima esecuzione della Messa da Requiem».
Le stupende parole latine di questa messa sono state rivestite dal compositore di Busseto di una musica di bellezza straordinaria e di grande drammaticità, come tutti sanno. Però qualcuno molto scorrettamente ritiene che il risultato abbia in sé la teatralità di un’opera lirica verdiana. La religiosità liturgica raggiunge qui invece profondità inarrivabili di riflessione metafisica. Le splendide melodie sono circondate da un semplice e toccante contrappunto corale.
La magia di questa titanica impresa è stata resa al meglio nello scorso mese di aprile al Teatro dell’Opera di Roma, dalla prodigiosa bacchetta di George Prêtre. Ogni passaggio è stato reso con eccellente buon gusto: dai pianissimo strazianti ai cupi fragori da brivido dei fortissimo. Dopo la tensione equilibratissima e i sommessi momenti recitativi dell’inizio e del Kyrie si arriva alla drammatica esplosione del Dies lrae.
Le voci soliste si annunciano fin da subito con le loro caratteristiche specifiche: spiegatissima e vocalmente piena quella del basso Ruggero Raimondi, addirittura emozionante nel tenebroso Confutatis maledictis; pura e intensa quella del mezzo-soprano Alexandrina Miltcheva; precisa, pulita ed interpretativamente espressiva quella del soprano Nina Rautio; calda e vibrante quella del tenore Richard Leech. Tutti e quattro bravissimi negli intrecci, nei concertati e in dialogo con il coro. Particolarmente emozionante il duetto di soprano e mezzosoprano nell’Agnus Dei e di effetto quasi catartico il lungo brano finale Libera me di soprano e coro, il quale ultimo, sotto la direzione di Tullio Boni ha saputo ben raccogliere gli stimoli vitalissimi di Prêtre, imitato in questo anche dall’orchestra dell’Opera che finalmente ci è parsa all’altezza della situazione.

Giovedi 23 aprile al Saint Louis Jazz Club di via del Cardello ci è accaduto di sentire un originale concerto di musica essenzialmente vocale. Il Kammerton Vocal Ensemble usa le voci miste dei suoi componenti per sortire validi risultati musicali.
Si sente la buona impostazione generale da cui risulta un livello di esecuzione che unisce precisione a un buon gusto musicale, pregi che appena sono velati da qualche esitazione e disorientamento, forse dovuti, in questo caso, anche alla pessima qualità dell’amplificazione. E stato un concerto simpatico e ci è piaciuto paragonare questi brani – originali e di repertorio molti dei quali trascritti e arrangiati da Fabrizio Cardosa – di jazz statunitense e latino-americano, con i frequenti richiami alla musica colta, soprattutto polifonica, dell’Europa. Ironie alla Banchieri, sentimentalismi tardo-romantici alla Sinigaglia, melodie a metà tra Schumann e Cole Porter, samba e Debussy, tutto come abbiamo detto, amalgamato senza volgarità, offerto con bel garbo e sapienza professionale.

82 – Aprile ‘92

1 aprile 1992

Andrea Baggioli è un giovane pianista, che non si limita a ricercare un successo virtuosistico, ma che vuole caratterizzarsi anche per una particolare cura nella scelta del repertorio. È specialmente attento alla musica contemporanea e sa scegliere dal patrimonio culturale del passato brani anche meno consueti di quelli che normalmente accompagnano i primi passi della carriera. Domenica 29 marzo ha presentato al teatro Ghione un programma in questo senso esemplare.
La Sonata n. 1 di Alban Berg, è un’opera giovanile in un unico movimento, la quale si caratterizza per la struttura tonale solida ed inquieta allo stesso tempo; si esprime come un ampio lavoro meditativo con qualche momento di aggressività. La concatenazione tematica è molto logica, se pure non banale. Nella sua esecuzione Baggioli ha dimostrato un bell’equilibrio tra le due mani, capacità di riflessione e un tocco di volta in volta robusto e morbido. Noi siamo sempre molto diffidenti quando ci viene presentato un J.S. Bach eseguito al pianoforte, perché gli esecutori quasi sempre indulgono impropriamente a romanticismi fuori luogo; siamo invece rimasti piacevolmente sorpresi dall’interpretazione dei contrappunti n. l, 2, 7, 8 e 9 da L’arte della fuga dei quali il pianista ha saputo rendere la splendida architettura con adeguata attenzione filologica e bel suono rotondo.
Soggetti e controsoggetti venivano esposti con precisa puntualità e le progressioni non slittavano mai in crescendo e diminuendo, ma si dipanavano sciolte e lineari. Tutta la seconda parte del concerto è stata dedicata a R. Schumann: gli Intermezzi op. 4 e le Novellette n. 7 e 8 dell’op. 21. Le variegate suggestioni emozionali dell’autore romantico, ricche di estrosità, contrappuntismi e virtuosismi, di molto effetto hanno avuto in Baggioli un interprete di grande sensibilità ed intelligenza.

81 – Marzo ‘92

1 marzo 1992

Mercoledl 19 febbraio, nella sala Mississippi dell’Alpheus, in via del Commercio 36, si è tenuto un concerto della coppia Steve Lacy (sax) e Mal Waldron (pianoforte). I due hanno presentato un jazz di ottima fattura, con grosse risonanze degli anni cinquanta, ricche di impasti e sonorità alla Charlie Mingus e una bella capacità di sensuale piacevolezza sonora. Il sax soprano ha eseguito tutti i brani del programma con estrema maestria ed il pianoforte robusto ed espressivo costruiva armonie tradizionali e bizzarre allo stesso tempo. Si è cominciato con un piacevole brano simile ad un ricercare barocco, con chiazze atonali e lunghi periodi tonalissimi; sono seguiti un pezzo di gusto provocatorio, dallo splendido fraseggio, poi una pagina forse più ovvia, ma molto sensuale, quindi un ritmo quasi sudamericano, una bella ed esasperata melodia, un successivo . brano stravinskjiano, ancora poi una disarmante pagina melodica, cui hanno fatto seguito un brano oscillante tra Chopin e Coltrane e un blues beffardo ed ironico. Il concerto si è concluso con due pezzi di carattere molto diverso l’uno dall’altro nel primo dei quali il sax si è lanciato in arditezze sostenuto dal bordone del pianoforte, nel secondo momenti di pianismo schumanniano si alternavano ad altri di gusto orientaleggiante. L’ottima esecuzione dei due ha goduto del favore di un pubblico molto attento, concentrato e silenzioso, come raramente avviene di incontrare in una session jazzistica. L’Alpheus è un centro a molte sale, variopinto e ben aerato, dove ogni sera si possono seguire diversi programmi. Il servizio del bar offre molte possibilità; noi abbiamo apprezzato la scelta di buone birre e un po’ meno l’approssimazione con cui vengono miscelati e serviti i cocktail più noti: ad esempio, il Bronx ha troppo succo d’arancia, il Rusty nail eccede nel drambuie, il Negroni, squilibratissmo nelle sue parti, non solo ostenta un’incongrua fetta di limone, ma è contaminato da un’orrenda ciliegina assolutamente fuori luogo.

79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92

1 gennaio 1992

Talvolta anche lo strumento su cui si suona può contribuire alla non brillante riuscita di un concerto. Il pianoforte messo a disposizione di Filippo Gamba per la serata del 9 gennaio al Teatro Olimpico, nell’ambito della stagione dell’Accademia Filarmonica Romana, non ha reso certo al giovane pianista un buon servizio. Il suono usciva freddo, metallico e sgradevole, accentuando in tal modo una caratteristica peculiare dell’esecutore: quella di un’eccessiva durezza. Tutti i brani in programma erano affrontati e resi con buona correttezza dinamica, ma, quando le frasi avrebbero avuto bisogno di abbandono e morbidezza, invece si irrigidivano in un fraseggio alquanto meccanico. Ciò è stato soprattutto evidente nella Sonata in la minore, op. post. 164 D 537 di F. Schubert, composta nel marzo 1817, le cui splendide melodie, teneressime e morbide venivano un po’ maltrattate, anche se l’esecuzione risultava grandemente precisa. Meno pulite forse, ma decisamente più espressive sono riuscite le note delle successive Fantasie di J. Brahms op.l16, composte tra il 1891 e il 1892. Humoreske op. 20 di R. Schumann, che concludeva il programma, è un brano in un unico tempo, articolato però in numerose sezioni, molto varie, diremmo quasi variopinte. Gamba l’ha eseguito correttamente accentuando molto bene le variazioni di tempo, ma come abbiamo già fatto notare, è risultato anche qui un po’ rigido nelle parti cantabili. Inoltre vorremmo consigliare al pianista di stare più attento al pedale di destra, al rilascio del quale talvolta sfuggiva quasi una leggera, ma incontrollata vibrazione.

78 – Dicembre ‘91

1 dicembre 1991

Nel settantottesimo numero della rivista di Psicoanalisi Contro i due Farfalloni vogliono fare una cosa che finora non avevano fatto mai: vogliono cioè parlare di un avvenimento al quale hanno presenziato, che non solo non si è svolto a Roma, ma neppure in Italia. Alle ore 19 del 5 dicembre 1991, nella cattedrale di Vienna, dedicata a S. Stefano, il cardinal Groer ha celebrato, in latino, seguendo il rituale pre-conciliare, una messa in suffragio di Wolfgang Amadeus Mozart, nel duecentesimo anniversario della sua morte. A quell’ora Vienna era natalizia ed assorta, fredda e nevosa, probabilmente come lo era nello stesso giorno di duecento anni prima. Nella chiesa gremita di gente attenta, alla presenza del presidente Waldheim, pochi momenti dopo che l’orchestra, il coro, il direttore e i solisti hanno raggiunto i loro posti si sentono i rintocchi gravi della campana del duomo e contemporaneamente si vede avanzare verso l’altare, preceduta dalla croce, la processione di chierici, diaconi, canonici e prelati che accompagna all’altare il cardinale celebrante. Dopo poche parole del Presule iniziano a risuonare le prime note del Requiem in Re minore K.626. L’esecuzione si svolgerà emotivamente intensa e accuratissima. Il direttore Solti è preciso ed essenziale, senza trascurare accenti di dolente Sensualità arriverà persino a concedersi qualche colorito dolce e leggero in quella parte della messa di mano non mozartiana, redatta da Süssmayr e dagli amici; come per sottolineare il significato che ha avuto la partecipazione di affetto tesa a completare l’opera che il Grande Maestro aveva lasciato incompiuta. Tutto il Requiem non conosce la disperazione: è invece permeato da un soffio di trascendenza, caratteristica forse di tutta la Sua musica. I Wiener Philarmoniker, il Coro, i solisti: Arleen Auger, soprano; Cecilia Bartoli, alto; Vison Cole, tenore e René Pape, basso, concorreranno a dare all’esecuzione una grande dignità artistica. Terminata la pagina musicale, dopo pochi momenti anche la messa si è conclusa e la processione ha fatto in senso inverso il cammino dell’inizio. Nessuno ha disturbato con applausi una situazione di grande commozione e la folla è uscita in silenzio. Fuori, nella Vienna fredda e natalizia, ci sentivamo indescrivibilmente sereni.

Abbiamo avuto l’occasione domenica pomeriggio 1° dicembre di ascoltare all’Auditorium di via delle Conciliazione il concerto poi replicato come di consuetudine il lunedì e il martedì successivi, nel giusto proposito di permetterne l’ascolto al maggior numero possibile di persone che l’Accademia Nazionale di S. Cecilia persegue da anni nello svolgimento della sua stagione sinfonica.
Il concerto prevedeva in apertura l’esecuzione della Ouverture della Semiramide di Gioacchino Rossini, un bel brano che, pur nella brevità offre molte possibilità espressive a chi sappia coglierle. Il giovane direttore Antonello Allemandi, non ha perso l’occasione e si è dimostrato rossinianamente impeccabile, capace di gustose dilatazioni di tempo, senza mai però perdere il dovuto brio, perfetto anche nei crescendo e diminuendo. Il successivo Concerto Romano, per organo e orchestra di Alfredo Casella, del 1926, è una stupenda pagina dalle atmosfere barocche, sensuale, ricca di chiaroscuri e momenti di malinconia, ma segnata anche da un contrappunto stretto ed impeccabile. Allemandi ne ha colto a pieno il significato, con una direzione che ha evidenziato tutte le caratteristiche strutturali ed emozionali, con precisione e intensità. L’organo magistralmente suonato da Giorgio Camini raggiungeva però nei crescendo punti di fluidità eccessiva, possibili in uno strumento di oggi, ma poco probabili per organi del 1926 e tanto meno barocchi.
In conclusione due opere significative di Felix Mendelssohn. La famosissima ed affascinante Ouverture – Le Ebridi (o «La Grotta di Fingal») dall’atmosfera magica e romantica è stata resa con bella capacità espositiva. La Sinfonia n. 5 in Re Minore, «La Riforma», composta nel 1830 per celebrare l’anniversario della Confessione Protestante di Augusta è un’opera del musicista amburghese che si ascolta abbastanza di rado, forse per un certo squilibrio intrinseco: si alternano senza essere per altro bene amalgamati momenti chiesastico-liturgici ed altri sentimentali e salottieri. La direzione è stata sempre molto attenta a valorizzare tutte le parti, anche le più secondarie, indulgendo forse soltanto un po’ troppo, nel finale, alla compassatezza della scrittura orchestrale.

77 – Novembre ‘91

1 novembre 1991

La stagione di musica da camera dell’ Accademia Nazionale di Santa Cecilia si è inaugurata mercoledì 23 ottobre con un concerto tutto dedicato ad Haendel, diretto da Franco Petracchi, con l’orchestra da camera e i solisti dell’ Accademia e che ha visto la partecipazione del soprano veronese Cecilia Gasdia. Il primo brano in programma: la Sonata in sol minore per due violoncelli e archi, è una trascrizione abbastanza recente (1959) di Feuillard e Tortelier che tenta una ricostruzione filologica dell’originale barocco, sostituendo agli oboi due violoncelli: un’operazione musicalmente squallida, priva di qualunque capacità filologica. Il tutto è risultato opaco e dolciastro, con una direzione assonnata che ha coinvolto anche i due violoncelli: Alfredo Stengel e Luigi Bossoni. L’atmosfera di piattezza si è prolungata anche nella Cantata dei pensieri notturni di Filli, per soprano, violino e basso continuo, opera astuta se pure non eccelsa. Ma già alla Cantata di Agrippina condotta a morire abbiamo ritrovato le belle melodie haendeliane, tornite e sensuali, che il soprano ha interpretato con virtuosistica bravura e bella espressione e che Petracchi ha diretto con maggiore attenzione, specialmente ai coloriti. Nella cantata Delirio amoroso, per soprano e orchestra, Haendel si rivela in tutto il suo splendore, fino dall’ouverture orchestrale. Poi il discorso si articola attraverso un bel dialogo continuo tra la voce e gli strumenti, tutto pervaso di poesia e maestria. Ottima la Gasdia nei passaggi virtuosistici e anche nel canto lirico spiegato. Perfetto il primo violino Angelo Stefanato che ha contribuito anche a ridare smalto ad orchestra e direttore, riportati a nuova vita.