Archivio di giugno 1992

86 – Giugno ‘92

lunedì, 1 giugno 1992

Gesuiti e psicoanalisti hanno avuto modo di animare le cronache estive con un brivido scandalistico, una volta tanto slegato dal carosello giudiziario della corruzione politica e finanziaria. Oggetto della disputa era la legittimità messa in discussione del metodo terapeutico psicoanalitico applicato al popolo cattolico. La psicoanalisi, quella di derivazione freudiana in special modo, avrebbe matrici troppo materialiste e pansessualistiche per non inquinare col proprio intervento le coscienze dei cristiani.

Quasi parallelamente il progetto di riforma dell’ educazione religiosa, definito sbrigativamente come «nuovo catechismo» richiamava l’attenzione sui suoi parametri di morale sessuale ritenuti più o meno tolleranti nell’ accettazione della diversità delle tendenze, comunque richiamate ad un principio di castità piuttosto rigoroso. Nei medesimi giorni i dati di un’ indagine facevano emergere un fatto quasi inedito: quello cioè dell’ aumento progressivo del numero di religiosi, preti e suore, che farebbero ricorso alla psicoterapia, d’impostazione genericamente definibile «psicodinamica» per alleggerire la tensione derivante dallo sforzo di ottemperare alle esigenze di castità, soprattutto ma non soltanto, imposte dalla loro speciale condizione. Mentre nella polemica tra gesuiti e psicoanalisti si potrebbe con facilità ravvisare uno di quei battibecchi pseudo morali e pseudo culturali che il giornalismo periodicamente porta alla ribalta banalizzando ad oltranza, il problema del rapporto tra morale, sessualità e disagio psichico rimane tremendamente serio. Sebbene nel Vangelo sia difficile leggere una condanna senza appello del piacere sessuale, sta di fatto che la Chiesa discendente da Pietro, quella cattolica (ma non è solo esclusiva di questa, dal momento che poco diverso è l’atteggiamento delle varie Chiese riformate e di quelle «orientali») ha progressivamente irrigidito la condanna del piacere sessuale, richiamando tutti alla castità, anche nel matrimonio, ove l’amore carnale tra i coniugi non ne faccia strumento di procreazione. La castità è diventata così un valore assoluto e raccomandabile a tutti ed universalmente. La cosa è entrata tanto nell’ inconscio sociale che la stessa psicoanalisi di Freud, dopo aver recuperato tutto il significato della sessualità e della sua ineliminabilità ha creduto opportuno stabilire un principio di sublimazione, nel cui superiore valore gli uomini possono trasformare la pulsione sessuale a vantaggio di più nobili comportamenti sociali, dedicandosi ad un’ arte o ad una scienza che porterebbero l’uomo a più diretto contatto col «sublime» cui ciascuno ha il dovere di tendere. Sia la Chiesa sia la psicoanalisi hanno mantenuto grosso modo le loro dichiarazioni di principio ed hanno poi agito «sul campo» in modo variamente avveduto o sprovveduto e non a caso il sacramento della penitenza o confessione fu visto da più parti come l’intuizione geniale che aveva preceduto di alcuni secoli l’altra intuizione geniale, laica questa volta, della psicoanalisi, che sana rendendo conscio ciò che prima era inconscio. Sta ora di fatto che né il più progressivo laicismo psicoanalitico, né la più rigorosa osservanza religiosa hanno liberato uomini e donne dai conflitti derivanti – non solo beninteso dall’ impossibilità di conciliare morale e sessualità.

Si è per lungo tempo tentato di dire che il moralismo sessuofobico e il senso di colpa sarebbero eredità pressoché esclusiva della tradizione giudaico-cristiana, ma oggi è facile rilevare direttamente come la morale sessuale pesantemente influisca anche su popoli provenienti da aree culturali e religiose diverse da quella, sia pure ovviamente con modalità di volta in volta peculiari. L’essere umano sembra a questo punto essere stato da sempre condizionato da un giudizio negativo sulla sessualità dalla quale tuttavia è allo stesso tempo quasi costituito e senza la quale non sarebbe completo, a meno di non sapere trovare in sé la capacità eroica di un superamento nell’ amore per Dio o nella più laica sublimazione. La Chiesa ha tutto il diritto quindi di indicare con chiarezza l’eroica via che porta alla santità, purché non discrimini sui modi e sui gradi di accettabilità delle vie intermedie: non c’è insomma una sessualità «peggiore» in sé. Per cui i giudizi non possono che essere sulle modalità, queste non più sessuali, con cui il rapporto col corpo dell’ altro viene affrontato: mercificando, violentando, circonvenendo, negando o strumentalizzando, con delitti cioè che vanno contro la persona, aggravando ulteriormente quell’ offesa alla divinità contenuta nell’atto sessuale. Oggi la psicoanalisi ha conosciuto frammentazioni tali che sarebbe comunque azzardato esprimere su di essa un giudizio globale; permettano dunque le autorità ecclesiali ai loro membri di fare ricorso, là dove le forze non reggano, anche a quei transeunti mezzi della terapia psicoanalitica, riservandosi la superiore magnaminità di giudicare di volta in volta i casi delle coscienze in quel confessionale che da secoli mantiene schiuse le porte del cielo a quei «devianti» ai quali la terra non riesce a garantire autentica libertà di scelta.

84 – Giugno ‘92

lunedì, 1 giugno 1992

Noi abbiamo un carissimo amico che ha un bellissimo figlio di nome Alessandro: intelligente, arguto, sensibile e lavativo.
Spesso da noi il ragazzo imperversa con canzonette macabre, ributtanti, sadiche, narcisistiche e demenziali in cui si parla di teste staccate, cadaveri putrefatti o coccodrilli che ballano il valzer. Egli stesso, dopo averci propinato tali delizie, fa lo sguardo furbastro, come per dirci: «Queste sono tutte stupidaggini». Dal momento che, per grazia di Dio, frequenta pure il conservatorio, si siede al pianoforte e con mano morbida e flessuosa accenna ad un «momento musicale» di Schubert.
Siamo andati a vedere Il silenzio degli innocenti e dobbiamo dire che al confronto del film le stupidaggini di Alessandro sono capolavori classici. La versione italiana si avvale di un doppiaggio pessimo, quasi ributtante, per cui forse non è tutta americana la colpa dei pessimi risultati. Il cinema hollywoodiano ha una reputazione di grande serietà professionale, per cui ogni regista, soggettista, sceneggiatore si ritiene che abbia studiato a fondo, con l’aiuto di consulenti di uno specifico settore l’argomento di cui si occupa. Però quando abbiamo sentito il direttore di un manicomio criminale dire di un detenuto che è uno «psicopatico puro» abbiamo capito che quello era un fumettone umoristico senza nessuna pretesa di serietà culturale o drammatica. Lo spunto, vero o falso, è certo molto adatto per una pochade: uno psicoanalista ammazza i propri pazienti e poi li cucina secondo succulente ricette, per esempio noi abbiamo apprezzato l’idea del fegato cucinato con le fave e innaffiato da un buon Chianti. Ma quando si vuole far ridere bisogna farlo onestamente e non fingendo di voler dare altre emozioni. Il pubblico deve essere rispettato e non si può legittimamente approfittare della sua diffusa mancanza di cultura e di senso critico, per poi ridere alle sue spalle quando accorre entusiasta a decretare con lunghe file davanti ai botteghini il successo dei nuovi drammaturghi. Per altro la recitazione dei due protagonisti è così stereotipa che né Jodie Foster, né Anthony Hopkins riescono per un solo istante ad essere credibili, al di fuori di un repertorio farsesco e disgustoso e il regista Jonathan Demme pare non rendersene assolutamente conto.
La musica è orrenda, senza filo logico, con qualche effettaccio thrilling; ci rifaremo chiedendo ad Alessandro di risuonarci Schubert.

84 – Giugno ‘92

lunedì, 1 giugno 1992

L’ International Chamber Ensemble è una formazione orchestrale molto elastica le cui possibilità vanno dalla piccola formazione cameristica all’orchestra settecentesca per giungere fino a poter disporre di un vasto organico sinfonico.
Ne è animatore, direttore stabile e artistico il Maestro Francesco Carotenuto, il quale è anche docente di composizione al Conservatorio di S. Cecilia.
Quella attuale è l’undicesima stagione romana e nel programma non poteva mancare qualche attenzione al repertorio rossiniano. In particolare i concerti del 24 e 27 maggio hanno registrato un felice connubio di proposte musicali che vedono accomunati il pesarese Rossini e il genovese Paganini.
Noi abbiamo assistito al secondo dei due e abbiamo potuto apprezzare un’esibizione dell’orchestra e dei solisti veramente godibile. Apriva la serata l’ouverture dall’opera La scala di seta, di G. Rossini e, nonostante qualche esitazione iniziale e nei successivi attacchi dei fiati ne è scaturita un’esecuzione giustamente briosa.
Il secondo brano consisteva nella Mosè Fantasia di Paganini, introduzione e variazioni sulla quarta corda per violino e orchestra. Un’opera del 1818/19 sul tema preso dal Mosé rossiniano «Dal tuo stellato soglio».
Il tema del compositore pesarese (derivato dalla preghiera contenuta nella Betulia liberata di Mozart) è rimeditato da Paganini con grande sapienza compositiva e non solo elaborato in funzione del virtuosismo funambolico del violino che pure raggiunge qui punte vertiginose. Il giovane violinista Ettore Pellegrino ha dimostrato un ottimo piglio nell’arcata e grande passione interpretativa, malgrado tante piccole imprecisioni, alcune delle quali però sono in un brano del genere quasi inevitabili.
Seguiva a concludere il primo tempo la Sonata per la gran viola in do maggiore, del 1834 di Paganini. Una pagina di patetismo, nello spirito «neo-classico» del primo Ottocento. La viola di Simonide Braconi è stata molto espressiva ed ha dimostrato una buona cantabilità; ma ha mancato forse un po’ spesso di precisione. Il secondo tempo tutto rossiniano, dopo l’inizio soltanto orchestrale con l’ouverture da La cambiale di matrimonio eseguita con sufficiente garbo dall’orchestra dopo un attacco in cui aveva fallito in pieno il coup d’archet proseguiva con una serie di arie cantate dal soprano di Taiwan Chu Tai-Li che si è rivelata un’eccellente cantante, forse dal timbro un po’ scuro per Rosina, ma dalla voce nitida e capace di adeguati vocalizzi rossiniani. Il direttore Carotenuto ha saputo leggere tutti i brani con acume e sapienza, nonostante in qualche punto apparisse un po’ troppo scolastico.

84 – Giugno ‘92

lunedì, 1 giugno 1992

Passeggiata-Promenade si intitola la personale di Sergio Ceccotti allo Studio S-Arte Contemporanea di via della Penna 59. Nato a Roma nel 1935 l’artista ha però scelto come sua altra città d’elezione Parigi, di qui ha origine il titolo bilingue che allude ai due soggetti delle opere esposte: Roma e Parigi, due città che anche noi amiamo e che in qualche modo hanno anche per noi significati paralleli; di qui il dovere di confessare il grande struggimento che la doppia evocazione ha destato in noi. La prima cosa che abitualmente si sente dire davanti alle opere di Ceccotti è che sarebbero quadri realisti o iper-realisti. Questo è però vero solo nel significato migliore, in quanto Ceccotti cerca davvero di cogliere una realtà.
La realtà che egli coglie non si limita comunque mai al riferimento o alla trascrizione di puri e semplici dati e neppure indulge ad una troppo facile narrativa di tipo aneddotica. Ceccotti ci dà la sua realtà di due città molto simili e molto diverse fra loro e la sua capacità di comunicazione riesce a trasmettere quella ricchezza di significati a chi osserva con attenzione. Per fare ciò il pittore usa un linguaggio molto preciso: i colori caldi, rossi, ocra, il verde degli alberi e l’azzurro luminoso dei cieli rendono le atmosfere di Roma, colte nelle diverse luci del giorno o della notte; mentre invece l’aria di Parigi si traduce in limpidezze algide e cristalline imbevute di blu più o meno chiari in cui squillano nette macchie di rosso o di bianco, oppure nell’ombrosità notturna dei canali o delle piazzette alberate. Il disegno è sempre accuratissimo e pronto nel riprendere quei motivi architettonici di portali sormontati da centauri a Roma o affiancati da cariatidi nel palazzotto parigino della Sécurité sociale. Di Roma Ceccotti coglie i due aspetti apparentemente contraddittori ma che risultano poi omologhi della monumentalità di un passato imperiale e remoto e della imborghesita pigrizia dell’urbanistica piemontese. Di Parigi la vastità delle prospettive, la grandiosità dei ponti e dei monumenti quali la Conciergerie vengono messe a contrasto con la pacatezza intima di un inverno tra le stradine di Montmartre e la desolatezza estraniata di una stazione di metropolitana, affollata di personaggi chiusi in emblematici isolamenti individuali. Una cosa ci ha incuriosito molto: le due città sembrano nelle tele di Ceccotti assolutamente e surrealisticamente linde, mentre ci pare che tra le altre cose abbiano in comune anche grossi problemi di nettezza urbana!

Tutta l’arte in ogni sua forma è sempre fascinosa. Noi siamo così sensibili alle sue suggestioni che persino nel campo figurativo ci ostiniamo ad avventurarci anche nei linguaggi dell’informale, del concettuale e così via. Usciamo quasi sempre delusi da questi tentativi, però talvolta in uno scarabocchio o nell’uso particolare di un materiale troviamo qualche cosa che ci colpisce. La scultura è una forma espressiva che caratteristiche ben precise e talvolta entusiasmanti: la tridimensionalità la rende particolarmente vivace e continuamente nuova. Girare intorno ad una statua, osservare dal basso verso l’alto il rilievo di un frontone affacciano alla mente serie di prospettive, luci ed ombre, tanto che si ha la sensazione di scolpire con lo scultore. Quando poi questi sa usare con gusto e sensualità i suoi materiali si aggiunge anche il piacere del tatto. Noi suggeriamo un giochetto: provate ad avvicinarvi ad una scultura evitando di guardarla prima nel suo insieme, ma arrivate tanto vicino da poterne solo fissare o toccare un piccolo particolare; da quel punto provate prima ad immaginarvi l’opera nel suo insieme e solo dopo guardatela; secondo noi se la scultura è riuscita voi avrete immaginato senza dubbio qualcosa di molto vicino al risultato complessivo, ma allo stesso tempo avrete la gioia di scoprirne anche mille aspetti assolutamente inimmaginabili. Tutto questo noi lo abbiamo sperimentato davanti alle sculture di Carlo Venturi esposte alla Galleria Incontro d’Arte di via del Vantaggio 17.
L’opera più significativa tra quelle esposte è ispirata al ciclo mitologico del dio orfico di origine orientale Fanes o Fanète che lo scultore rappresenta in gruppo marmoreo in cui il busto e la testa del Dio affiorano tra le teste di quattro cavalli in una intenzione di allontanamento dal mondo. Il marmo giallo di Numidia è il nobile materiale che Venturi plasma, incide e disegna, articolandolo in una ricchezza narrativa che sintetizza in un’opera un intero ciclo epico. Ora il marmo è levigato e si offre morbido alla carezza della mano, ora è inasprito in superficie grezza che frena il gesto, ancora poi sono i mille gerogliflici di un discorso tatuato che si diffonde dal capo fino allo sterno della figura divina, che ha la possenza e l’erotica sensualità di un auriga platonico. In marmo nero del Belgio, misto al bianco marmo pario o ancora al giallo di Numidia sono alcune altre opere raffiguranti astronomi isolati sulle cime di minuscole piramidi o scale elicoidali intere o spezzate con intenzioni dichiaratamente simboliche, ma con lo stesso amoroso rapporto con le figure e la materia. O diventano l’imponente madre orientale, che allatta il figlio e il cui corpo unisce al gesto protettivo una minacciosa sensazione di incombenza, che rammenta quella della Grandi Madri di tutte le mitologie.

84 – Giugno ‘92

lunedì, 1 giugno 1992

L’ultima opera lasciataci da Padre David Maria Turoldo si intitola Mie notti con Qohelet (Garzanti 1992, pagg. 109 Lit. 15.000). Queste poesie sono cariche di una poeticità intensa e di una profonda religiosità;. Talvolta sono versi semplici quasi scoperti, talaltra oscuri e misteriosi. In una notte di pioggia l’anima dolente pensa in attesa dell’alba. L’indagine filosofica, apparentemente smarrita, sottintende il vagare del pensiero nell’ombra; però la ragione è umana e soprasensibile allo stesso tempo, non si può ridurre al meccanicismo illuministico e neppure all’arroganza di certa theologia perennis: la ragione c’é , ma non si sa che cosa sia e a che possa servire.
Tutta la poesia di Turoldo, quella malinconica, che parla del dolore, quello tuonante contro la miseria e l’ingiustizia sociale, quella astuta che si insinua e gioca col non detto, quella ambigua che volutamente vuol far credere il contrario di ciò che intende; tutta la sua poesia ha fatto sempre riferimento in modo più o meno esplicito all’Antico e Nuovo Testamento.
Questo volume si articola in tre momenti: nel primo vediamo il poeta contrapporsi a Qohelet (l’Ecclesiaste, l’oratore, il cui nome dà il titolo ad uno dei rotoli biblici) il quale esalta tutto il diritto alla sua scettica fede; fatto si nemico degli uomini che vuole rendere consapevoli della generale inutilità di ogni cosa che non sia la resa incondizionata e riluttante alla fede stessa.
Turoldo è meno scoperto e più insicuro di Qohelet, la sua fede deve essere kierkegaardianamente conquistata istante per istante: la morte incombe, misteriosa e seducente.
La seconda parte fa riferimento al biblico Cantico dei Cantici. Tutti conoscono lo splendore di quella pagina sublime la cui sensualità, amore, speranza, disperazione ed entusiasmo, dardeggiano sui versi di Turoldo tutto l’antico splendore. «Non dirmi delle tue tenerezze,/ non dirmi dei suoi occhi come colombe/ lungo ruscelli di acque;/ delle sue labbra voraci,/ dei suoi denti bagnati nel latte;/ e le sue gambe colonne d’alabastro/ su piedestalli d’oro, non dirmi/ non dirmi del suo corpo divino…» (pag.50). L’ultima sezione fa riferimento al libro di Giobbe: è un tenero canto alla speranza. La vita è piena di fatiche e di sofferenza; il mondo opprime i deboli, li umilia e li deride. Cristo stesso è smarrito di fronte all’incomprensibilità del suo destino, o forse alla sua assoluta semplicità. Turoldo disperato e sereno è in attesa.

84 – Giugno ‘92

lunedì, 1 giugno 1992

Non appena nell’aria e nel cielo di Roma incomincia a diffondersi il profumo ed il colore della primavera, ristoranti, osterie, pizzerie e bar invadono con i loro tavolini i marciapiedi delle vie, le piazze e le piazzette. Noi sappiamo che molte di queste installazioni sono abusive, ma siamo felici che, forse per buon senso, forse per impotenza, l’amministrazione pubblica, nonostante faccia talvolta la voce grossa, non riesca a ridurre drasticamente questa che a rigore si deve definire occupazione di suolo pubblico. Quando la sera si passa di fronte alla schiera dei tavoli rallegrati dalle tovaglie colorate e dal tintinnare delle stoviglie, spesso non si resiste e ci si addentra in quella magica tentazione vittime del fascino di luoghi davvero incantevoli. Scorci di sogno lasciano intravvedere antiche casette stupende o fanno apparire sullo sfondo i profili di chiese o palazzi famosi. Mangiare all’aperto a Roma non è solo una bella esperienza, ma può essere addirittura entusiasmante. Comprendiamo quindi perché folle di turisti di tutto il mondo non resistano all’invito di questi angli paradisiaci intrisi di poesia e di storia. Coi turisti spesso ci siamo anche noi. Qualche sera fa, dopo un gradevole concerto, ci siamo seduti tra i vasi di pitosforo di Giggetto alle Carrozze, nella via omonima, a pochi metri da piazza di Spagna, da cui proveniva il canto della fontana. Quasi di fronte una delle torri campanarie di Trinità dei Monti e più in basso un pezzo dell’insegna di Babington. Maderno, Pietro Bernini ed altri ignoti architetti hanno costruito nei secoli quel panorama da cui noi eravamo letteralmente incantati; ma il nostro stato d’animo sospeso venne bruscamente infranto dalla brutalità del cameriere che ci aggredì con la solita domanda insulsa: Bianco o rosso? Timidamente optammo per il bianco: un’ acquetta minerale di colore giallino. Un po’ imbarazzati scorgemmo sugli scaffali e armadi dell’attigua saletta una serie di bottiglie, ci avvicinammo e riuscimmo a trovare un paio di etichette incoraggianti che ordinammo. Gli antipasti alla credenza erano di millenaria secchezza, i tagliolini al salmone facevano concorrenza al cappuccino con panna, il vitello arrosto era immerso in un succo di frutta al limone e poi altre cose: contorni e dessert; sempre con l’accompagnamento di un servizio villano ed inetto.

Invece al ristorante Il Pallaro nella piazzetta dallo stesso nome il servizio è addirittura sadico, sospettiamo che i camerieri tentino persino di infilzare forchette nella schiena dei clienti più indifesi che seduti nello stesso luogo in cui sedevano gli antichi spettatori del Teatro di Pompeo – e la sagoma è ancora rintracciabile nell’andamento delle case che riprende la curva di quella che fu la cavea romana – troppo restano assorbiti dalla bellezza della sovrastante cupola di S. Andrea della Valle.
È questo un locale dove si pretenderebbe, in virtù di costi decisamente bassi, di giustificare un ignobile menù fisso imposto ogni sera: arancini e polpettine di marmo, prosciutto accartocciato, rigatoni malcotti e sconditi, carni irriconoscibili, per finire con terrificanti dolci di sabbia, il tutto annaffiato da un liquido che difficilmente si può definire vino.

La piazza di Santa Maria in Trastevere è uno degli angoli più belli del mondo: i mosaici della facciata della chiesa si ammorbidiscono al tramonto e il cielo violetto mette nel cuore una allegra malinconia. Lo sappiamo che attorno alla fontana ottagonale insieme coi fanciulli schitarranti siedono molti relitti umani, però il suono del campanile è come cancellasse tutto il peggio. I camerieri di Sabatini non sono particolarmente scortesi, ma sono assolutamente disattenti ed apatici mentre ti portano piatti di cannelloni maleodoranti, spaghetti insipidi con vongole assai improbabili, la vignarola che non si capisce più perché si chiami così, tanto è sommersa da una salsa acquosa, e poi carni e pesci cucinati approssimativamente. Inoffensivi ed insipidi i vini della casa, con una limitata possibilità di qualche buona bottiglia, il tutto ad un prezzo esorbitante. Però il luogo certo… tanto l’americano al tavolo accanto beve il cappuccino sul branzino al forno.

Giggetto al Portico d’Ottavia, nel cuore del ghetto sistema i suoi tavolini in una cornice frizzante e quasi mitica, col ponentino che ancora li accarezza, superando chissà come la barriera dei grattacieli della periferia. I ragazzetti passano fischiettando, le ragazze guardano dalle finestre. Roma qui sembra davvero immortale, nonostante lo smog che la sta divorando. Viene voglia di essere allegri, fingendo di non accorgersi del vinaccio bianco servito caldo, dell’olio che cola dal fritto vegetale e dal baccalà gessoso, delle penne scotte, delle carni stoppose ed insapore, del prezzo astronomico. Ma alla fine si può godere di un’autentica consolazione: i dolci vengono infatti dalla pasticceria a fianco: La Dolce Roma che prepara succulenta, deliziosa, costosissima pasticceria austriaca. Sono delizie che non hanno nulla a che spartire con la tradizione di Roma, ma meglio sarebbe se fossero le sole cose offerte.

Tra Via Quattro Novembre e Piazza Venezia, ce un angolino quieto e straordinario: la piazzetta del Grillo, sotto le poderose mura del Foro di Augusto e di Nerva, per fortuna passano pochissime automobili e sotto il pergolato rigoglioso del ristorante Mario’s si può anche trascorrere una serata indimenticabile. Ci siamo venuti molte volte e conosciamo abbastanza a fondo le possibilità del locale, vorremmo solo consigliare allo chef di togliere dalla lista un piatto di carne, panna e cognac, definito sulla carta, ci pare, come «mollichetta dello chef», piatto che sarebbe pessimo anche come dessert, ma che è inconcepibile proporre come secondo. In questo ristorantino si possono mangiare spaghetti al cartoccio che sono forse tra i migliori di Roma, perfetti di cottura e ottimamente conditi da un sugo marinaro gustoso e vivace. Il pesce è di ottima qualità e le altre preparazioni di carne sono accettabili. La cantina non è molto fornita, ma vi si possono trovare buone bottiglie servite correttamente e ben conservate. Il prezzo non è alto e questo è un pregio che non guasta. Abbiamo voluto finire questa breve digressione su alcuni dei locali con tavoli all’aperto in Roma con una nota positiva, perché nonostante tutto noi siamo sempre innamorati di questa città.

84 – Giugno ‘92

lunedì, 1 giugno 1992

Monsignor Filippo Perrelli (Napoli 1704-1789) fu un prelato bizzarro, sciocco e grottesco: l’arguzia dei napoletani si appropriò delle sue castronerie, le deformò, altre ne inventò e di bocca in bocca il popolo raccontava questi aneddoti che rivelavano la presunzione, l’ignoranza e l’ingenuità del presule.
La gente comune poi sovrappose alla sua figura quella di un altro Monsignor Perrelli, suo nipote Pietro, che egli pure andava in giro per Napoli a dire e fare scempiaggini. Or son tre secoli che a Napoli i nonni raccontano ai nipoti le stramberie di Monsignor Perrelli e per un certo periodo venne addirittura stampato in città un giornale umoristico che si intitolava appunto «Monsignor Perrelli».
Lamberto Lambertini, richiamandosi alla tradizione popolare e agli scritti di Croce e Dumas, ha costruito un testo I fantasmi di Monsignor Perrelli quanto mai gustoso e teatralmente efficace, andato in scena al Teatro Vittoria. Ecco che vediamo il Monsignore che cerca di educare le sue due cavalle a non mangiare, tenendole a digiuno, ma queste con sua somma disperazione gli muoiono di fame proprio quando hanno appena dimostrato di saper vivere senza foraggio alcuno.
Ancora lo vediamo convinto che la luna e il sole lo aspettino all’osservatorio astronomico per dare il via ad una eclisse; ad un certo punto si preoccupa vivamente per essere rimasto ingravidato, e così via. Gli fa da contrappunto sapido e continuo la sua domestica Meneca, astuta e credulona ad un tempo, bigotta e blasfema quanto basta.
Peppe Barra, nei panni della Perpetua è stato realmente insuperabile: espressivissimo e grottesco; talvolta capace di calarsi nei toni di una ingenuità disarmante, pronto a trasformarli improvviso in una graffiante e lasciva ironia. Il suo non è per niente un personaggio en travesti, ma il risultato di una ricerca psicologica, drammatica e poetica, sul personaggio della serva di canonica. Un vertice lo ha toccato nel monologo che ha improvvisato col pubblico, come gli attori della commedia dell’arte o solo i grandissimi dell’avanspettacolo sapevano fare. Patrizio Trampetti è stato capace di fare un controcanto autonomo creando un personaggio a tutto tondo, ricco di una sua originalità fatta anche di una recitazione astuta e paradossale. Insieme con Savio Riccardi lo stesso Trampetti ha costruito le musiche originali eseguite dal vivo che hanno un peso determinante nella riuscita dello spettacolo e sono di eccellente fattura, sapendo unire un buon stile rococò alla migliore tradizione della canzone napoletana più classica. Completano il brillante spettacolo le scene di Aldo Cristini e i costumi di Annalisa Giacci.

Il millenovecento, più o meno a partire dal grande Pirandello, ha fatto venire alla moda un tipo di teatro che noi chiamiamo della «lite». Gli stupendi battibecchi angosciati dei «sei personaggi» o di «così è se vi pare» sono però piombati in mano di scrittori di infima categoria, espressi attraverso testi pieni zeppi di rabbiosi sproloquio Non solo si rimane lontanissimo dalle sublimi disperazioni apocalittiche della tragedia classica o anche di Marlowe o di Shakespeare; ma in queste opere tutti i personaggi litigano sempre immersi in una rissosità schiamazzante, stantia e noiosa. Ad accentuare l’effetto sgradevole contribuiscono certo molto i registi con poche idee, i quali pensano di trovare soluzioni teatrali di effetto drammatico soltanto perché obbligano gli attori ad urlare a pieni polmoni le battute. Un esempio tipico di questo teatro è Nella solitudine dei campi di cotone di Bernard Marie Koltès, messo in scena a Roma al Teatro dei Satiri qualche tempo fa, tradotto dal francese da Ferdinando Bruni. L’autore vorrebbe richiamarsi a grandi modelli come Artaud, Ionesco o Beckett, tanto per citarne soltanto tre; ma invece il suo copione risulta di una miseria intellettuale assurda. I due unici personaggi: un venditore ed un compratore, in lunghissimi e stupidi monologhi usano il trucchetto di capovolgere sempre i proverbi; già noi non amiamo questi esemplari di idiozia popolare, ma dobbiamo convenire che capovolti risultano ancora più insulsi; ad esempio, il motto «L’abito non fa il monaco», in una lunga sezione del demenziale testo è capovolta in «Il monaco non fa l’abito» e poi anche in «L’abito fa il monaco». Se l’obiettivo fossero solo questi giochetti sui proverbi, ci si potrebbe anche divertire, ma queste ridicolaggini pretendono di esprimersi con frasi seriose e giri interminabili di parole sull’ipotetico rapporto fra l’uomo e il vestito, con chissà quali intenzioni simboliche. Tutto il copione è infarcito di squallidi filosofemi, ad ogni passo sbuca una vena di preteso erotismo omosessuale buono tutt’al più ad emozionare qualche checca immalinconita. Non contribuisce certo a rendere lo scritto accettabile la scenografia di Arnaldo Pomodoro di una volgarità povera ed insopportabile: la scena deborda, occupando più di mezza platea, con l’unico risultato positivo di far sembrare la sala meno vuota di quanto sia in realtà, eccezion fatta per pochi sparuti intellettuali del sottobosco romano che quindi alla fine dello spettacolo si spellano le mani, in applausi estatici. Inoltre infastidiva il pubblico e danneggiava gli attori una scultura aerea e mobile che un rumorosissimo argano faceva abbassare ed alzare per tutta la durata dello spettacolo. Ancora una volta dobbiamo dire male della regia di Cherif che sembra non avere nemmeno letto il testo né aver assistito ad una prova, tanto irrilevante è il suo contributo; ma temiamo che invece il risultato fosse voluto. I costumi di Romeo Gigli si richiamavano ad un trovarobato genericamente da discoteca. Le musiche di Gaslini, frutto di un onesto lavoro risultavano assolutamente pleonastiche nel loro modernismo un po’ fuori moda.
Molto buona abbiamo trovato invece la performance dei due attori Pino Micol e Massimo Belli, o almeno questa è stata la nostra impressione. Micol, il «dealer» si è servito di tutte le sfumature interpretative possibili ad un attore: intenso, violento, drammatico, appassionato e, ovviamente, arrabbiatissimo; ma pensiamo che avrebbe ottenuto lo stesso risultato anche leggendo il menu di un ristorante macrobiotica. Bravo anche il «cliente» Belli, forse un po’ meno fantasmagorico ed istrionico del compagno, ma quanto mai corretto nel gesto e nella parola, ovviamente arrabbiatissimo anche lui.