Archivio di aprile 1992

84 – Aprile ‘92

mercoledì, 1 aprile 1992

Avremmo voluto fare gli auguri al neo-eletto Presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro, ma oggi ci sembrerebbe sarcastico. Il Garante Supremo, il Galantuomo che il parlamento ha nominato a reggere le sorti di questo Paese ha più bisogno di scongiuri che di auguri. È rimasto negli annali della storia repubblicana il gesto di un suo predecessore che, 01treoceano, levava in segno scaramantico una mano nell’italico e folcloristico scongiuro, e bisogna dire che mai qualcuno ne ebbe altrettanto bisogno come quel simpatico avvocato napoletano.

Oggi purtroppo è un illustre ed illuminato politico novarese ad averne altrettanto e forse maggior bisogno. La sua elezione succede tristemente ad un ‘esplosione che non ha scosso nessuno nel Paese, se non un ‘opinione pubblica fin troppo avvezza a scuotersi bruscamente per riaddormentarsi più rapidamente ancora e un parlamento colto con le mani nel sacco della propria inefficienza e pronto persino ad eleggere un Presidente pur di non confessare la propria pletorica inutilità. Del resto che gli italiani si rifiutino di identificarsi con la brutalità assassina dei mafiosi fa loro onore, nella misura in cui alla mafia si dimostrino realmente capaci di opporsi. Non di soli assassini è però composto questo Paese che il Presidente Scalfaro da oggi rappresenta: ma anche di ladri.

Ovviamente nessuno si sogna di credere che davvero i nodi delle responsabilità nelle innumerevoli convergenze tangenziali del nord e del sud d’Italia verranno veramente al pettine; ma fa comunque un certo effetto percepire che la situazione è tale che basta voler dare un colpo di legalità per vedere crollare istituzioni e sistemi politici ed economici, e poco conforto arreca supporre che non esiste inchiesta al servizio della legalità che, in qualche modo, non favorisca o punisca interessi di parte, quasi sempre, ma non solamente, politici.

Il Presidente al quale avremmo voluto fare gli auguri ha bisogno invece di scongiuri più che mai: si trova infatti a rappresentare un Paese di ladri e di assassini, un Paese in cui a coloro che non sono i colpevoli o le vittime è riservato il deprimente ruolo di becchini. Non vorremmo che a lui dovessero attribuir si gli oneri delle cristiane esequie di una Repubblica alla quale si applicasse la battuta del becchino di shakespeariana memoria: «E ha da aver sepoltura cristiana chi si è suicidato con le proprie stesse mani?» (Amleto, atto 11; scena 1) Il Presidente di un Paese nelle condizioni dell’Italia di oggi ha bisogno, oltre che di coraggio, anche di faccia tosta; il coraggio gli serve di fronte a quelli che sono i suoi interlocutori istituzionali politici, magistrati e militari che lo hanno insediato nella convinzione esclusiva di averlo dalla loro parte (ma da quale delle tre, visto che la lotta è interna anche alle istituzioni?). Faccia tosta all’esterno, dal momento che non è facile costruire una credibilità internazionale contando esclusivamente sulle proprie qualità personali. Il nostro Paese ha dimostrato capacità digestive eccezionali, divorando senza scrupoli i Presidenti che hanno preceduto quello attuale, fossero essi suonatori di mando lino, picconatori, piemontesi, sardi o toscani, fumatori di pipa o amanti del barbera. Il Quirinale è un Palazzo di grande bellezza, ma non ha portato mai fortuna ai suoi inquilini: Monarchi o Presidenti. Incrociamo le dita e auguriamoci di non aver trovato l’ultima vittima dell’ipocrisia nazionale!

82 – Aprile ‘92

mercoledì, 1 aprile 1992

«Boum, boum» è una bellissima canzone di Charles Trenet, 6Dl poetica, malinconica e dalla melodia accattivante: il grande chansonnier la canta con estrema perizia e garbo. Nel film di Jaco Van Dormael Toto le Heros di poetico, malinconico, accattivante, garbato e capace non c’è proprio nulla; al posto vi si trova soltanto un cumulo di specchietti per allodole, neanche troppo scintillanti. In questa rete tesa apposta per gli intellettuali, molti restano impigliati: alle nostre spalle un gruppetto di ragazzi e ragazze dal turpiloquio facile e col birignao nella voce, al termine della proiezione sono esplosi in uno striminzito, ma significativo applauso. Certo molto meno trionfale di quello che ha accolto il film ai vari festival europei in cui ha ricevuto significativi premi. Quello che il regista avrebbe voluto fare sarebbe il racconto di tutta una vita, rievocata però non attraverso una successione banalmente cronologica, ma con il ricorso ad un sistema di libere associazioni che fosse capace di tradurre il «tempo della mente» nel quale spesso le distanze si annullano e le epoche coesistono. Tutto ciò per rendere conto di quanto è contenuto nel pensiero del vecchio protagonista al termine della propria vita. Questo processo psichico e simile a quello che sempre si realizza anche durante qualunque seduta psicoanalitica, in cui ci parte da un ricordo magari del giorno prima, si scivola in un’immagine proveniente dalle lontananze della prima infanzia, poi, passando attraverso un frammento di romanzetto adolescenziale si giunge nuovamente al presente. Nell’intraprendere un simile percorso, però tutti i pazienti, anche i più deliranti, si dimostrano sufficientemente artisti da saper ben giocare con la prospettiva e quindi, se pure accade come negli affreschi gotici, che un passero appaia grande come una torre tuttavia è percepibile sempre un ritmo e si coglie il significato emozionale delle distanze e delle durate. Il trucchetto usato dal Van Dormael è invece quello rozzo di un giochetto che noi facevamo da bambini: scrivevamo su di un foglio un racconto cronologicamente coerente, poi tagliavamo la pagina in tante strisce che ricomponevamo casualmente; leggendo il risultato scoprivamo a volte divertenti combinazioni, alle quali fortunatamente il nostro sentimento riusciva a dare nonostante tutto un certo significato. Purtroppo il cinema è un mezzo che travolge con violenza chi lo affronta e quindi si impone lasciando pochissima libertà al sogno individuale.
Certo, le mani di un buon artista invece possono benissimo intrecciare i piani, sfumare le azioni, colorare le immagini; non saremo certo noi a sostenere la validità assoluta del cinema verità, ma in Toto le heros il guazzabuglio è totale, ciò che al regista riesce è tutt’al più qualche gioco simbolico di richiamo e anche qualche facile trucchetto paranormale. In un incendio di un reparto maternità di una clinica, due madri nella concitazione del momento, scambiano – forse – i loro due figli. Almeno così crede che sia stato il vecchio Thomas, che chiuso nel suo ospizio ancora non riesce a rassegnarsi al fatto che a lui sarebbe toccata la vita splendida del suo amico Alfred, fortunato figlio dei signori Kant, ricchissimi padroni dell’emporio della città. Nella sua lotta contro le conseguenze del torto subito Thomas-Toto ha perso tutto il poco che la vita gli avrebbe comunque concesso, prima il padre e poi anche la sorella amata di un amore totale ed incestuoso. La vita ha posto più volte a confronto le fortune di Alfred e le disgrazie di Toto, con l’aggiunta di una balordissima confusione tra la moglie di Alfred e la sorella scomparsa che porta Toto ad amare la moglie del proprio nemico. Esasperato per non essere mai riuscito a rientrare legittimamente in possesso della vita che avrebbe dovuto essere la sua Toto alla fine ha una trovata geniale e si sostituisce ad Alfred, quale obiettivo di una banda di criminali che ha deciso di ucciderlo. Soddisfatto del colpaccio finalmente riuscito Toto alla fine del film esprime tutta la sua soddisfazione, facendo scaturire la propria vocetta soddisfatta prima dalle fiamme del forno crematorio e poi dalle ceneri volteggianti su ubertose campagne francesi al ritmo di «Boum, boum». Solo lo spettatore si accorge che sulla bara e sulla busta che contiene le ceneri sta scritto il nome di Toto. La sceneggiatura è dello stesso regista e la fotografia riesce abbastanza bene a «colorare» con tinte d’epoca le varie stratificazioni cronologiche, oniriche e realistiche. La musica restante è di Pierre Van Dormael.

82 – Aprile ‘92

mercoledì, 1 aprile 1992

Andrea Baggioli è un giovane pianista, che non si limita a ricercare un successo virtuosistico, ma che vuole caratterizzarsi anche per una particolare cura nella scelta del repertorio. È specialmente attento alla musica contemporanea e sa scegliere dal patrimonio culturale del passato brani anche meno consueti di quelli che normalmente accompagnano i primi passi della carriera. Domenica 29 marzo ha presentato al teatro Ghione un programma in questo senso esemplare.
La Sonata n. 1 di Alban Berg, è un’opera giovanile in un unico movimento, la quale si caratterizza per la struttura tonale solida ed inquieta allo stesso tempo; si esprime come un ampio lavoro meditativo con qualche momento di aggressività. La concatenazione tematica è molto logica, se pure non banale. Nella sua esecuzione Baggioli ha dimostrato un bell’equilibrio tra le due mani, capacità di riflessione e un tocco di volta in volta robusto e morbido. Noi siamo sempre molto diffidenti quando ci viene presentato un J.S. Bach eseguito al pianoforte, perché gli esecutori quasi sempre indulgono impropriamente a romanticismi fuori luogo; siamo invece rimasti piacevolmente sorpresi dall’interpretazione dei contrappunti n. l, 2, 7, 8 e 9 da L’arte della fuga dei quali il pianista ha saputo rendere la splendida architettura con adeguata attenzione filologica e bel suono rotondo.
Soggetti e controsoggetti venivano esposti con precisa puntualità e le progressioni non slittavano mai in crescendo e diminuendo, ma si dipanavano sciolte e lineari. Tutta la seconda parte del concerto è stata dedicata a R. Schumann: gli Intermezzi op. 4 e le Novellette n. 7 e 8 dell’op. 21. Le variegate suggestioni emozionali dell’autore romantico, ricche di estrosità, contrappuntismi e virtuosismi, di molto effetto hanno avuto in Baggioli un interprete di grande sensibilità ed intelligenza.

82 – Aprile ‘92

mercoledì, 1 aprile 1992

Il gigantesco palazzo chiamato di S. Michele a Ripa è un coacervo di costruzioni barocche, opere di C. Fontana di Fuga e del Forti, che proprio perché nate in momenti diversi e destinate a specifiche funzioni non rappresentano un caso di omogeneità architettonica. Il complesso però, fin che fu lasciato a se stesso, sia pure in un deplorevole abbandono, conservava un certo fascino. Dopo che sono intervenuti i restauri recentissimi e addirittura ancora in corso e gli ambienti sono stati consegnati agli uffici del Ministero dei Beni Culturali si è imposta un’atmosfera desolantemente burocratica, fatta di incuria e di menefreghismo. Proprio l’immensità del tutto rende quegli edifici disponibili ad ospitare mostre più o meno significative di arte figurativa o di quant’altro si ritenga degno di esposizione, vi si tengono anche convegni, concerti e spettacoli. Aggirandoci per portici e saloni abbiamo avuto modo di visitare tre mostre che ci hanno variamente interessato. La rassegna più imponente è quella delle tele di Valeria Costa, pittrice piuttosto misteriosa e riservata, di cui sappiamo solo che è sorella del regista Orazio e che in quest’anno festeggerà i cinquant’anni di matrimonio. Volutamente tutti i circa centocinquanta quadri sono esposti senza date di riferimento, volendo forse dare una visione globale e sintetica del lavoro di una vita, come suggerisce anche il titolo. Pittura compagna di viaggio. Il viaggio della Valeria Costa è lungo nel tempo e ampio negli orizzonti: si va da saggi di bella pittura novecentesca, con assonanze che ricordano Donghi o Casorati, in ritratti e scene di gruppo, ad un decorativismo selvaggio di ispirazione africana, coloratissimo e lampeggiante. Una serie di acrilici monocromi recupera un fauvismo narrativo che ha per soggetto una vicenda umana ossessionata da una sorta di persecuzione, che inizia con la cacciata dal paradiso terrestre e si ripete in una serie di agguati cui invano si tenta di sfuggire in inutili nascondigli. Il tema dell’angoscia è quello che più reiteratamente colpisce chi osserva, un po’ disorientato, i risultati di una produzione fecondissima e disordinata, sostenuta però con buona padronanza delle tecniche dell’arte.

Di origine slava, ebrea, figlia di un rabbino morto nei lager nazisti, Eva Fischer, ha maturato la sua esperienza artistica in una dimensione europea, con soggiorni a Parigi, Londra e Madrid, ma ha scelto Roma come città d’elezione e punto di riferimento stabile. I non molti quadri di quest’ultimo allestimento comprendono un periodo ampio della sua produzione, all’interno della quale noi preferiamo senza incertezze un filone figurativo che esprime gustose annotazioni paesaggistiche ed ambientali, ci piacciono i suoi mercati, le marine, i ruderi, ed anche le danzatrici, per le atmosfere che ci restituiscono, malinconiche spesso, per i colori impastati e filtrati di luci e di ombre, per un disegno che forse perché facile, cattura una certa simpatia. Al fianco di questo ci lasciano perplessi i ripetuti tentativi informali, che ancor oggi, non ci paiono essere riusciti ad indicare una scelta nuova, sufficientemente autonoma od originale.

Claudia Petrone è una scultrice che sente profondo il fascino per i simboli. Così le opere qui radunate affrontano temi come la lotta, la speranza e l’infinito. Sono mani bronzee, che reggono sfere marmoree, piani di cristallo o drappeggi di fiberglass, oppure ammassi bronzei di piccole forme umane, che ci fanno pensare al pullulare delle figuri ne gotiche sui portali di antiche cattedrali, schiacciate tra blocchi di marmo o di ferro, che di volta in volta stanno a significare momenti diversi della lotta contro un terremoto planetario. L’artista riesce a padroneggiare bene i suoi materiali: bronzo, marmo e ferro hanno funzioni specifiche, le patine e i colori evidenziano di volta in volta atmosfere diverse, alleggerendo o appesantendo i volumi e le forme, evidenziandone sempre la posizione nello spazio, anche percepite nella loro umana realtà.

82 – Aprile ‘92

mercoledì, 1 aprile 1992

Il libro di Giulio Castelli, Il Leviatano negligente (Acropoli, 1992, pagg. 181, Lit. 23.000), è stato da noi letto tutto d’un fiato. In questi giorni di campagna elettorale, in cui i discorsi fumosi si sovrappongono alle ambiguità, trovarci di fronte a pagine di analisi così lucida, chiara, scientificamente fondata, fatta di concetti esposti senza falsi pudori, ci ha fatto l’effetto di una boccata d’ossigeno. L’autore partendo dalla constatazione che, oggi, nel nostro paese il potere si auto perpetua e si autoalimenta avendo perso il benché minimo senso della sua funzione giunge ad analizzare le mille situazioni perverse che nel Palazzo, nel mondo economico, in quello criminale si moltiplicano con la complicità di una sottoborghesia ormai vinta e nociva, che si compiace del disastro che contribuisce nel suo piccolo a creare. Senza parere, Castelli è padrone di una sottile ed arguta vena letteraria che rende disarmantemente efficace quello che scrive. Certo la situazione italiana è facilmente stigmatizzabile tanto è tragica; ma il nostro scrittore, che pure pare sempre sull’orlo della depressione di fronte al disastro incombente, riesce tuttavia a portare a termine il suo compito di denuncia e a stimolare in chi legge il senso autocritico, oltre che critico. Per evitare che: «Caduto, infatti, lo sbarramento etico posto dagli ideali politici, il personale che si è aggregato intorno al ‘Palazzo’, motivato soltanto dalla convenienza, dall’utile e dall’arricchimento, è già pronto a servire un padrone – che grazie alle enormi risorse di denaro rese disponibili dai traffici criminali – può pagare meglio e più presto». Forse non sentivamo parole così chiare di denuncia dopo che il destino ha messo a tacere la voce di P.P. Pasolini.

Una fame da morire, di Gianna Schelotto (Mondadori, 1992, pagg. 197, Lit. 29.000) è un libriccino che racconta due storielle: la prima è quella di un caso di bulimia, la seconda un caso di anoressia mentale. Noi cerchiamo sempre di non dare giudizi del tipo: quest’opera è un esempio di letteratura maschile o femminile limitandoci a dire se ci piace oppure no; ma questa volta ci troviamo di fronte ad un susseguirsi di pagine di zuccherosissima letteratura tutta al femminile; infatti sono zeppe di sensibilità, buoni sentimenti e pettegolezzi, espressi, bisogna dire attraverso una scrittura accattivante, sciolta e persino capace di catturare l’attenzione di chi legge.
Questo anche se alla fine è inevitabile un senso di nausea, ovviamente anche perché fin troppo vi si parla di cibo e di vomito.

82 – Aprile ‘92

mercoledì, 1 aprile 1992

Quando, dopo uno spettacolo, decidemmo di andare a cena proprio lì in Trastevere, eravamo preparati al peggio, cioè a pagare lo scotto inevitabile di una cena a tarda ora, affrettata e desolante, come quasi sempre avviene in simili circostanze. Anche il locale che scegliemmo con quell’ambiguo nome Il Ciak, in vicolo del Cinque, poco sembrava essere di buon auspicio. Entrammo in un ambiente fumoso e super affollato, articolato in due o tre sezioni, con i tavoli così serrati l’uno all’altro da rendere quasi impossibili il servizio e il passaggio, frastornati dal vocio inevitabile. Sul tavolo un foglietto battuto a macchina e chiuso tra la plastica trasparente annunciava piatti toscani e di caccia, con qualche scivolata nel salmone e panna. Di vini ne erano proposti un paio e poi genericamente acqua e birra. Ordinammo rapidamente, propendendo per una linea unitaria: crostini toscani al tartufo, ribollita, minestra di farro e funghi, polenta. E qui incominciarono le sorprese: i crostini erano profumati, fragranti e appetitosi, senza tracce del viscidume freddiccio che normalmente rovina questo buon antipasto rustico; la ribollita fumante e sapida, la polenta e il farro ci riportavano davvero una tradizione regionale, senza le falsature ideologiche dell’alternativo. Così procedemmo rinfrancati verso i trionfi, a dire il vero poco dietetici, della starna sul crostone, del capriolo in salmì ed inevitabilmente di una succosissima e tenerissima fiorentina cotta a dovere. li Chianti a giusta temperatura, senza infamia e senza lode ci parve un buon accoppiamento e, dopo, semplici dolci fatti in casa: mela al forno, crème caramél e castagnaccio ci parve giusto concludere con una buona grappa ghiacciata. Per tutto quanto pagammo un conto ragionevole, che non volle biecamente profittare dell’occasione fin troppo favorevole per l’oste.

82 – Aprile ‘92

mercoledì, 1 aprile 1992

La cena delle beffe è l’opera certamente più nota di Sem Benelli, autore dannunziano, morto nel 1947. Il testo apparve per la prima volta sui palcoscenici del Teatro Argentina di Roma, nel 1909. Da allora fu replicato infinite volte, in Italia e all’estero, e conobbe anche trasposizioni cinematografiche tra le quali noi stessi ricordiamo quella famosa interpretata da Amedeo Nazzari e Clara Calamai. È questo un genere teatrale crepuscolare-borghese e «neogotico» che fu molto in voga a cavallo tra gli ultimi due secoli. Il verso – l’endecasillabo – è drammatico, forte, ma ben tornito. La lingua toscana, nella sua stralunatezza serve molto bene a costruire un’atmosfera storicizzante, sebbene un po’ fasulla. Nulla è corretto dal punto di vista strettamente filologico, però riesce a dare l’illusione di portare lo spettatore nella Firenze quattrocentesca, all’epoca di Lorenzo de’ Medici. Si mescolano aspetti, umoristici, grotteschi e tragici in un continuo avvicendarsi ben ritmato, fino alla conclusione tutta in «nero».
La storia è quella della beffa che Giannetto gioca ai due fratelli Neri e Gabriello Chiaramontesi, i quali a lungo lo hanno oppresso facendolo oggetto di scherno ed umiliazione a causa del suo aspetto fisico e rubandogli la donna: Ginevra. La vendetta di Giannetto inizia col falso pretesto di una cena di riconciliazione, nel corso della quale Giannetto induce lo spavaldo Neri a sfidare lo stesso Magnifico, e a fingersi pazzo per meglio riuscire allo scopo.
Mentre Neri è tenuto in ceppi proprio a causa di questa presunta pazzia, Giannetto, indossando gli abiti di lui, ma va a letto con Ginevra. Fingendo poi di accorrere in suo aiuto, Giannetto fa liberare Neri, ma gli organizza un secondo e più tremendo trabocchetto: attira cioè nel letto di Ginevra il fratello Gabriello al quale ha ceduto i suoi propri abiti. Neri, credendo di compiere l’ultima vendetta si troverà così di fronte alla disperata scoperta di avere ucciso suo fratello al fianco di Ginevra. La beffa è in tal modo completata. L’azione drammatica che Benelli propone conserva una certa efficacia intrinseca, ma vero è che oggi diventa quanto mai difficile proporre una lettura plausibile od originale.
Non ha infatti l’elevatezza artistica che rende alcune opere immortali e richiede quindi un faticoso lavoro che sia capace di eliminare gli spessi strati di polvere che la ricoprono. Riccardo Vannuccini, in veste di regista, ha tentato di dame una lettura «psicoanalitica» ( anche se non sappiamo quanto consapevolmente: di fatto questa scienza permea la nostra lettura di ogni evento quotidiano o straordinario e determina gli orientamenti del nostro inconscio sociale). Emblematicamente viene qui espressa una lettura dell’opera in chiave sado-masochistica; ma quello che va perduto è l’unitarietà che il testo originale possedeva. Vannuccini anche come attore costruisce per sé un personaggio disarticolato, grottesco, stratosferico, esageratamente espressionista: succhia la sofferenza e masochisticamente alla fine esplode per rimanere vittima del proprio godimento. Lando Buzzanca interpreta il suo Neri in modo realistico, violento: «… chi non beve con me peste lo colga!», tutto una brutale esplosione di istinti, risultando così credibilissimo e godibile, ma completamente avulso dal contesto in cui il regista non è riuscito ad includerlo. Tutti gli altri attori che abbiamo visto sulla scena del Ghione, ma soprattutto Milly D’Abbraccio nel ruolo di Ginevra, arrancano e sciabattano, senza riuscire a costruire personaggi sopportabili. Le scene e i costumi di Marco Passeri alludono, in economia, al futurismo e quasi citano De Pero, senza riuscire ad essere più che inevitabili. La colonna sonora è ancora di Vannuccini.

Maddalena Crippa è una «giovane» attrice di indubbio talento: duttile ed aggressiva, sensuale e fantasiosa, sa anche però essere drammatica e grottesca, fino a dimostrare capacità autenticamente comiche. Tutte queste sue doti riesce ad esprimerle anche nella messa in scena di un testo scritto forse su misura per lei da Luigi Spagnol: La lavatrice. Tutte le qualità dell’attrice vengono però sprecate dall’autore con un copione volgare e sciatto, banale come una farsa in giallo, che neppure un pizzico di pirandellismo di quart’ordine riesce a nobilitare. La lavatrice non lancia nessun messaggio, ma soltanto qualche inessenziale spernacchio. Davanti ad un giudice istruttore si trovano tre donne: Wanda la prostituta, Beatrice sua sorella e Pia, figlia di costei ed ex novizia. Devono rendere conto della scomparsa di tale Giorgio Pecchioni, protettore di una e forse seduttore delle altre due. Dalle deposizioni delle tre donne emerge un intreccio piuttosto sordido di interessi e di libidini, di cui l’uomo è oggetto e anche motore. Tutti e tre i racconti hanno il loro perno in un enigmatico elemento: la lavatrice in cui sembrano confluire e disperdersi le ultime tracce dell’uomo, forse fatto a pezzi e «lavato» per fame scomparire le tracce, a parte qualche resto forse dato in pasto all’infernale gatto di casa: Sangenesio. In questi «forse» vorrebbe stare il sale della commedia, ma sono ipotesi che non interesserebbero a nessuno se i tre personaggi che le propongono non fossero tre meravigliose interpretazioni della Crippa, ma meglio sarebbe dire quattro, poiché la brava attrice miagola con efficacia anche il ruolo di Sangenesio. Saltando da un personaggio all’altro ci dà saggi di recitazione realistica e surreale allo stesso tempo, molto ben amalgamati fra loro. È la sua una performance che coinvolge anche l’aspetto fisico, che senza eccessive truccature o travestimenti sa trasformarsi completamente ad esprimere tre diversissimi aspetti dell’abiezione umana e del carattere femminile.
La voce (fuori campo) di Roberto Mantovani svolge bene il suo ufficio, che ci pare anche quello di non togliere spazio alla degna protagonista; riconosciamogli quindi i meriti di bravura ed umiltà. Le scene sono realizzate con la collaborazione di Marcello Cava e gli indovinatissimi costumi sono dovuti alla perizia teatrale di Anna Maria Heinreich.

Al Teatro Politecnico, nel corso della rassegna « Vetrina Italiana», a cura di Mario Prosperi, è andato in scena un testo di Giuseppe Contarino: Trappola per una rondine, con la regia di Ezio M. Caserta, nell’allestimento del Teatro Scientifico di Verona. Un copione dilettantesco e una regia inqualificabile sono riusciti a sbatacchiare a tal punto i poveri attori, forse non così cani come sembravano, fino a costringerci ad una sensazione terribile di vergogna. Poiché i ma1capitati interpreti sono venuti a ringraziare a trenta centimetri da noi siamo stati costretti, vigliaccamente ad applaudire, ma forse anche per semplice carità cristiana. L’arte sarebbe in grado di trasfigurare qualunque cosa, anche le teorie scientifiche, enunciandole a modo suo, stravolgenodole e persino, perché no, tradendole. Però non si può prendere il più squallido manualetto di psicologia e sceneggiare, malamente, il capito letto intitolato: «anoressia mentale». Ecco allora una madre persa nei suoi narcisistici sogni di attrice, un padre vittima ed eccessivamente perbenista, da cui non può essere nata che una figlia vendicativa e anoressica. Tutto finisce bene perché la madre, superato il narcisismo, dimostra che l’amore può tutto: sfruttando le sue doti artistiche si finge malata terminale a causa di un tumore cerebrale, coinvolgendo nella recita anche l’ignaro e palpitante consorte, tanto che di fronte al crescere della disperazione la figlia finisce in cucina a cucinare un bel pollo che la famigliola consumerà liberata dall’incubo di due mali in una volta, quello vero e quello finto. Non si sa bene perché la scelta del regista sia quella di rendere la drammaticità delle situazioni obbligando gli interpreti a pronunciare le parole una ogni dieci minuti. La chiave di lettura vorrebbe essere addirittura iper-realistica; ma il risultato è quello di una totale assurdità, che mortifica tutti: attori e pubblico.
Forse una certa capacità professionale ci è parsa evidente in Annalisa Foà, quando, per le esigenze del ruolo, recita alcune battute di Pirandello, con arguzia e capacità parodistica. Gli altri di cui non vogliamo dire, erano: Andrea Bosic, Isabella Caserta, Giorgio Speri e Roberto Vandelli. Le musiche di repertorio erano scelte da Aldo Piubello e le scene realizzate da Giorgio Tarocco su idea del regista.