Archivio di dicembre 1991

78 – Dicembre ‘91

domenica, 1 dicembre 1991

L’impressione è che insieme con l’anno stiano finendo molte speranze. Per esempio la speranza che gli uomini della politica possano sottrarsi ad un destino di cialtroneria che sembra essere il tramite inevitabile per cui intere nazioni si disgregano. A questo proposito non vale neppure più l’obiezione che critiche così distruttive siano segno di qualunquismo: i politici se le gettano addosso l’un l’altro e il mondo intero scricchiola, dopo che la debolezza dei regimi ha vanificato ipotesi totalitarie e illusioni capitalistiche. E anche venuta meno la speranza che esistano istituzioni al di sopra delle parti, o che qualcuno voglia e possa responsabilmente garantire alcunché. Il mondo si ritrova ad essere davvero un piccolo villaggio dove ciascuno cerca di prendersi la sua parte a scapito degli altri: non c’è rispetto per la vita e non ce n’è davanti alla morte. Se un idolo del rock muore di AIDS o un campione dello sport dichiara di essere siero positivo si scatena l’orgia mediologica e gli sciacalli si rallegrano perché più nessuno può sentirsi al sicuro: le categorie a rischio sono già patrimonio di una pubblicistica sorpassata e non bastano più ad appagare la curiosità morbosa che trasformando in merce anche la morte ne fa una cupa fonte di reddito. Se fino ad oggi qualcuno aveva pensato che la cultura potesse in qualche modo redimere l’umanità, sottrarla agli avvoltoi in agguato dietro ad ogni luogo comune, si sente prendere dalla disperazione vedendo che /’ignoranza è tale che il vero problema è diventato l’analfabetismo. A furia di vivere di immagini tutti abbiamo perso il contatto con la realtà da cui dovrebbero trarre origine: il significante non ha più nessun significato. Belli, ricchi e giovani sono soltanto gli ectoplasmi in cui fingiamo di voler riconoscere i possibili noi stessi. Persino il sesso si è ridotto ad una simulazione in videocassetta o a una telefonata sboccata. Le religioni, consolazione sempiterna per l’uomo sofferente nella valle di lacrime, hanno quasi tutte perduto la battaglia con la modernità: gli uomini, incapaci di riflessioni che non siano superficiali, le hanno trovate scomode, antiquate ed ingenue. Eppure bisogna trovare ragioni che rendano tollerabile la vita che abbiamo da vivere, per precaria e disperata che ci possa sembrare; ci scopriamo così esposti a due alternative fondamentali: coltivare l’amore di noi stessi contro tutto e contro tutti, contendendo al mondo intero ogni briciola che possa saziare un incontrollato principio di piacere; oppure identificare il piacere con l’amore. L’amore ha mantenuto fortunatamente una caratteristica che da sempre gli è stata riconosciuta: non conosce limiti.

Basta una scintilla di amore vero per la più insignificante realtà, perché si metta in moto un meccanismo che non si arresta e che coincide con lo stesso principio di conservazione del genere umano.

L’uomo è lupo per l’uomo, ma non riesce ad impedirsi di amare se stesso e nessuno può immaginare la propria felicità al di fuori del rapporto con gli altri. Dio è l’idea ultima davanti alla quale la disperazione può trovare un argine, ma è essa stessa un punto di partenza che tocca a ciascuno riempire di contenuti. Per questo l’idea di Dio appartiene talmente all’uomo da validare ancora oggi il pensiero del vecchio Anselmo d’Aosta. Certo, fa impressione dire questo dopo che il mondo ha conosciuto illusioni come  la filosofia, la politica, la scienza, l’economia, dopo che la Ragione ha celebrato i suoi trionfi, senza che l’umanità abbia conosciuto un briciolo di felicità in più. Pragmatico è oggi chi riconosce i limiti della Ragione e tuttavia non rinuncia ad essa, accettando fino in fondo le conseguenze che questo comporta.

78 – Dicembre ‘91

domenica, 1 dicembre 1991

L’idea di perseguire l’obiettivo impegnato di un cinema in chiave omosessuale, non ci pare più peregrina di tante altre, né più meritoria. Derek Jarman torna a proporci una storia d’amore tra maschi in questo suo Edoardo II, liberamente tratto dall’omonimo testo di Cristopher Marlowe scritto intorno al 1593-94. Senz’altro a differenza di altre sue opere intorno a martiri protocristiani e pittori barocchi questa volta giova al cinema del regista inglese avere l’appoggio di un copione dal valore poetico indiscutibile e dalla grande efficacia drammatica. Elementi questi che vengono direttamente portati sullo schermo con la citazione abbastanza precisa, sebbene frammentaria, di quei versi. Succede però questa volta qualcosa di simile e diverso a quello che ci accadde quando assistemmo al Rossini, Rossini! di Comencini. Allora la musica sublime appariva scollata da una vicenda scioccamente resa, questa volta la vicenda tragica narrata dalle parole del drammaturgo inglese appare completamente avulsa dal cascame trovarobistico gay e sado-maso che il regista profonde a piene mani, inquadratura dopo inquadratura, con un ritmo più adatto ad un video clip di musica rock che a una tragedia. La modernità o eternità dei sentimenti dibattuti rimane intera e poco si può aggiungere oggi di nuovo a una bella storia d’amore, di potere e di disperazione come quella del trecentesco re Edoardo, e del suo bell’amante Gaveston. Di tanta intensità drammatica molto rimane anche nella vicenda filmica; ma noi riteniamo che la svilisca un gusto deleterio che cerca di proporre continuamente l’abbinamento sesso = distruzione. Ci sembrerebbe più giusto accettare che il sesso sia anche piacere e bellezza, come quasi sembra proporre lo stesso Jarman nella prima sequenza dell’amore tra i due marinai. Successivamente prevale l’orrore a tutti i costi, il sangue, l’odio. Anche troppo schematizzato ci pare il personaggio della moglie di Edoardo, la regina Isabella (parte che è valsa un premio a Venezia per Tilda Swinton per l’interpretazione), che a noi è sembrato essere più un rigido involucro di emblematica e forzata perfidia femminile che altro. Appena poco più credibili i personaggi maschili sostenuti da Steven Waddington ed Andrew Tiernan. La fotografia di Jan Wilson si è sbizzarrita in effettacci di ogni genere in terrosi ed infernali vastissimi ambienti e le musiche di Simon Fisher Turner alternavano elementi folcloristici medievaleggianti a disco music e jazz.

78 – Dicembre ‘91

domenica, 1 dicembre 1991

Nel settantottesimo numero della rivista di Psicoanalisi Contro i due Farfalloni vogliono fare una cosa che finora non avevano fatto mai: vogliono cioè parlare di un avvenimento al quale hanno presenziato, che non solo non si è svolto a Roma, ma neppure in Italia. Alle ore 19 del 5 dicembre 1991, nella cattedrale di Vienna, dedicata a S. Stefano, il cardinal Groer ha celebrato, in latino, seguendo il rituale pre-conciliare, una messa in suffragio di Wolfgang Amadeus Mozart, nel duecentesimo anniversario della sua morte. A quell’ora Vienna era natalizia ed assorta, fredda e nevosa, probabilmente come lo era nello stesso giorno di duecento anni prima. Nella chiesa gremita di gente attenta, alla presenza del presidente Waldheim, pochi momenti dopo che l’orchestra, il coro, il direttore e i solisti hanno raggiunto i loro posti si sentono i rintocchi gravi della campana del duomo e contemporaneamente si vede avanzare verso l’altare, preceduta dalla croce, la processione di chierici, diaconi, canonici e prelati che accompagna all’altare il cardinale celebrante. Dopo poche parole del Presule iniziano a risuonare le prime note del Requiem in Re minore K.626. L’esecuzione si svolgerà emotivamente intensa e accuratissima. Il direttore Solti è preciso ed essenziale, senza trascurare accenti di dolente Sensualità arriverà persino a concedersi qualche colorito dolce e leggero in quella parte della messa di mano non mozartiana, redatta da Süssmayr e dagli amici; come per sottolineare il significato che ha avuto la partecipazione di affetto tesa a completare l’opera che il Grande Maestro aveva lasciato incompiuta. Tutto il Requiem non conosce la disperazione: è invece permeato da un soffio di trascendenza, caratteristica forse di tutta la Sua musica. I Wiener Philarmoniker, il Coro, i solisti: Arleen Auger, soprano; Cecilia Bartoli, alto; Vison Cole, tenore e René Pape, basso, concorreranno a dare all’esecuzione una grande dignità artistica. Terminata la pagina musicale, dopo pochi momenti anche la messa si è conclusa e la processione ha fatto in senso inverso il cammino dell’inizio. Nessuno ha disturbato con applausi una situazione di grande commozione e la folla è uscita in silenzio. Fuori, nella Vienna fredda e natalizia, ci sentivamo indescrivibilmente sereni.

Abbiamo avuto l’occasione domenica pomeriggio 1° dicembre di ascoltare all’Auditorium di via delle Conciliazione il concerto poi replicato come di consuetudine il lunedì e il martedì successivi, nel giusto proposito di permetterne l’ascolto al maggior numero possibile di persone che l’Accademia Nazionale di S. Cecilia persegue da anni nello svolgimento della sua stagione sinfonica.
Il concerto prevedeva in apertura l’esecuzione della Ouverture della Semiramide di Gioacchino Rossini, un bel brano che, pur nella brevità offre molte possibilità espressive a chi sappia coglierle. Il giovane direttore Antonello Allemandi, non ha perso l’occasione e si è dimostrato rossinianamente impeccabile, capace di gustose dilatazioni di tempo, senza mai però perdere il dovuto brio, perfetto anche nei crescendo e diminuendo. Il successivo Concerto Romano, per organo e orchestra di Alfredo Casella, del 1926, è una stupenda pagina dalle atmosfere barocche, sensuale, ricca di chiaroscuri e momenti di malinconia, ma segnata anche da un contrappunto stretto ed impeccabile. Allemandi ne ha colto a pieno il significato, con una direzione che ha evidenziato tutte le caratteristiche strutturali ed emozionali, con precisione e intensità. L’organo magistralmente suonato da Giorgio Camini raggiungeva però nei crescendo punti di fluidità eccessiva, possibili in uno strumento di oggi, ma poco probabili per organi del 1926 e tanto meno barocchi.
In conclusione due opere significative di Felix Mendelssohn. La famosissima ed affascinante Ouverture – Le Ebridi (o «La Grotta di Fingal») dall’atmosfera magica e romantica è stata resa con bella capacità espositiva. La Sinfonia n. 5 in Re Minore, «La Riforma», composta nel 1830 per celebrare l’anniversario della Confessione Protestante di Augusta è un’opera del musicista amburghese che si ascolta abbastanza di rado, forse per un certo squilibrio intrinseco: si alternano senza essere per altro bene amalgamati momenti chiesastico-liturgici ed altri sentimentali e salottieri. La direzione è stata sempre molto attenta a valorizzare tutte le parti, anche le più secondarie, indulgendo forse soltanto un po’ troppo, nel finale, alla compassatezza della scrittura orchestrale.

Psicoanalisi contro n. 78 – Entusiasmo

domenica, 1 dicembre 1991

L’ innamoramento è sempre stato visto in modo negativo dai moralisti e dai ben pensanti, e anche dagli scienziati. I moralisti vedono in esso una sorta di marasma psichico che induce a compiere gesti inconsulti: chi te è innamorato sospende tutti i propri principi morali, si ritiene in diritto di offendere, denigrare, mentire e talvolta persino di uccidere chiunque sia d’ostacolo al suo amore, fosse anche la stessa persona amata. L’aspetto più deleterio di questo moralismo è quello che giustifica poi addirittura il delitto d’onore, rivendicando al marito tradito il diritto di lavare col sangue l’offesa arrecatagli da una scelta in contrasto coi propri sentimenti. Fortunatamente però il delitto d’onore è un concetto che l’inconscio sociale non ha fatto proprio e che è ristretto a piccoli gruppi connotati culturalmente ed etnicamente, mentre su di esso la società ha espresso la condanna che si riserva quando si valuta un gesto delittuoso e in questo caso un assassinio. Lo stesso tipo di valutazione in tempi attuali , è riservato alla pratica dell’aborto, che pure in ambienti
pseudo-libertari viene rivendicato, invocando una speciale Li licenza di uccidere in nome di principi superiori. In entrambe le situazioni però sia il marito borghese, sia il maschio e la femmina pseudo-libertari pensano più a se stessi che alla vita di cui decidono la soppressione. Il rifiuto del sospetto di un figlio spurio o di una gravidanza per qualche ragione sgradita diventano in certi ambiti socioculturali giustificazioni sufficienti all’estinzione di una vita. Benchè giustificati da due opposte culture entrambi i comportamenti non sono però mai stati completamente accettati dall’inconscio sociale. Se nelle fantasie dell’inconscio individuale si esprime talvolta il desiderio di distruzione di un oggetto amato, tale desiderio si rivolge in realtà contro qualcosa o qualcuno che ormai non si ama più. Ci sono anche i ben pensanti che trovano riprovevole l’innamoramento perché chi ama diventa bizzarro, distratto, incapace di concentrazione all’esterno del rapporto amoroso. Forse i ben pensanti non sanno amare, non hanno mai amato e vedono l’amore come un sentimento incomprensibile che distoglie dalla realtà e la deforma. Gli scienziati infine sono i più rigidi e severi giudici dell’innamoramento. Spesso psichiatri e psicoanalisti considerano l’innamorato vittima di un raptus. Freud dice cose tremende e squallide sugli innamorati: sopravvalutano l’oggetto d’amore, sono incapaci di comprendere la base razionale di un comportamento, sono vittime di plagio continuato. lo che mi sono formato all’interno del pensiero freudiano e che ho per il maestro viennese una grande ammirazione non riesco però ad apprezzare le sue teorie in questa materia, tanto si rivelano incapaci di cogliere la ricchezza dei sentimenti d’amore. Sembrerebbe che Freud non sia stato capace di amare e questo sarebbe un limite enorme per un terapeuta; quello che è più probabile è che abbia avuto paura dell’innamoramento e se ne sia difeso in modo parossistico.

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Non solo la psicoanalisi freudiana ha estrema diffidenza nei riguardi dell’innamoramento. Anche gli psichiatri giudicano male gli innamorati, perché sono considerati troppo esigenti, tanto gelosi da esserne psichicamente disturbati, incapaci di sentire ragioni in contrasto coi loro sentimenti.
La verità è che tutti abbiamo paura dell’innamoramento.
È molto difficile capire quali meccanismi strutturino la nostra cultura, tanto che a volte essa ci sembra basata sull’idiozia, e questo anche quando esprime la condanna dell’amore, proprio perché il concetto di innamoramento formulato dalla stessa cultura è inaccettabile. Nella filosofia di Platone l’innamoramento era chiamato «entusiasmo», cioè la condizione dell’uomo che ha il dio dentro di sé. La nostra invece è una cultura fatta soprattutto di canzonette; ne sono state composte di splendide: madrigali quattro-cinquecenteschi, lieder dell’Ottocento, romanze del primo Novecento, poi la spazzatura e il degrado acustico hanno avuto il sopravvento, coi festivals e la disco-music.
In tutte queste espressioni artistiche in forma di «bagatelle» si tratta costantemente di amore e di innamoramento; l’argomento viene fortunatamente trattato in musica ad un livello almeno leggermente superiore di quanto non avvenga con le parolacce che costituiscono i versi di tali canzoni: sono parolacce volgari, ritrite, dall’ambiguo significato, qualche volta presuntuosamente pseudopetrarchesche. Solo alcune volte la musica dà una dignità poetica all’insieme, trascendendo il valore infimo dei versi, ma spesso subisce il contagio della stessa volgarità.
A questo proposito varrebbe forse la pena di studiare più in profondità le ragioni per cui il linguaggio musicale riesce ad essere meno compromesso con l’oscenità di quanto lo sia quello verbale e riesca, dopo tutto, a dare maggior dignità anche agli argomenti più futili.

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Mi rendo conto, malgrado il mio furore iconoclasta, che talvolta mi prende la mano, che la lirica greca, il sonetto barocco, la poesia romantica hanno saputo esprimere con le parole concetti sublimi e hanno parlato d’amore con straordinaria sensibilità ed ancora oggi là, letteratura universale nella varie lingue è capace di parlare dei più grandi argomenti adeguatamente. Tuttavia io sono talmente
innamorato dell’amore che vederlo compromesso ed umiliato in una mercificazione quotidianamente spacciata per arte, mi offende.
Forse dovrei essere meno drastico e più realisticamente dire che sempre l’amore è stato misconosciuto o vilipeso. C’è però anche il pericolo di mistificazione intrinseco all’innamoramento, come è quello per esempio che fa credere a qualcuno di potere in nome dei suoi sentimenti prevaricare ed imporre se stesso agli altri. Questa è una modalità patologica dell’amore, che ricorre al sadomasochismo per esprimersI.
Ugualmente raccapriccianti sono i modi volgari in cui l’inconscio sociale ha erroneamente introiettato possa manifestarsi il desiderio amoroso; concetti questi trasmessi dai grandi mezzi di comunicazione di massa oggi, ma che già ieri erano contenuti in nuce nella pseudo-poetica licenziosità di certi stornelli popolari, come quelli romaneschi.
Ugualmente nefasti all’espressione amorosa sono però i moralisti, i ben pensanti, e gli scienziati presuntuosi che troppo spesso si sono alleati col cosiddetto buon senso comune per insudiciare il più bel sentimento che l’essere umano possa provare, forse l’unico che rende un uomo degno di essere tale.
Qualcuno a questo punto potrebbe legittimamente domandarmi a quale tipo di amore io mi riferisca: al desiderio, profondo, travolgente, psichico e fisico, del maschio per la femmina e della femmina per il maschio, o in questo concetto d’amore sono compresi anche quei sentimenti, ritenuti addirittura perversi, del maschio per il maschio e della femmina per la femmina? Mi riferisco anche a quelle forme d’amore, accettate dalla nostra cultura e dal nostro inconscio sociale, quale quella dei genitori per i figli e viceversa, l’amor di patria, l’amore per un ideale? Non faccio fatica a rispondere che io mi riferisco a tutte le forme possibili di questo sentimento difficilissimo da definire, ma facile da riconoscere. Voglio tornare al concetto che ho prima citato di «entusiasmo» dal Fedro platonico, cioè di presenza della divinità in noi, quando siamo innamorati.
Anche Platone non ha saputo meglio definire questa condizione. Di meglio forse c’è solo la tautologia: «l’amore è l’amore». Coloro che conoscono il mio modo di procedere avranno notato che io dò molta importanza alla tautologia, che non ritengo soltanto un sotterfugio a cui ricorrere per pigrizia mentale; anzi la ripetizione della medesima parola ha per me un significato che non deve essere ignorato, anche se disorienta, e non addita nessun cammino.

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Ho detto che moralisti, ben pensanti, scienziati e gente comune hanno un atteggiamento di diffidenza, di paura, di rifiuto è ben diversa da quelle forme su descritte li e di irrisione verso l’innamoramento. Io invece, pur sapendo di compiere un gesto pericoloso, affermando opinioni che possono dare fastidio voglio esaltare la bellezza della «follia d’amore». lo non ho mai approvato l’esaltazione in chiave positiva della follia e ritengo i pazzi individui limitati e chiusi nel loro delirio, prigionieri delle loro difese che li escludono dalla relazione con gli altri e fanno loro rifiutare anche il rapporto d’amore. So bene che c’è un genere profondamente patologico di follia amorosa, quella degli amanti che si annullano nel sadomasochismo o nel narcisismo, divenendo aggressivi, oppure umiliando la loro dignità di persone, o anche negando all’altro la sua autonomia e i suoi bisogni, appagandosi dell’illusione di un amore per una falsa realtà che invece è una propria costruzione fantastica. Non accetto queste forme perché non credo abbiano in sé nulla di amoroso. Quante sono le persone che riescono ad avere rapporti sessuali soltanto dopo ,un furioso litigio col proprio partner? E una situazione che trovo particolarmente deprimente, ma è purtroppo vero che gli esseri umani sono riusciti ad a escogitare anche perversioni dell’amore.
Una delle canzonacce a cui mi riferivo prima parla appunto dell’amore che «non è bello se non è litigarello»; è uno scherzo che nasconde l’accondiscendenza per o il gusto sadomasochista di ferire ed essere feriti, sopraffare ed essere sopraffatti, per poi appagarsi in un amplesso che diviene diabolico. L’essere umano viene di lontano e il suo viaggio è continuamente insidiato dal diavolo che odia l’amore. Mi voglio riferire invece alla follia di chi ama senza condizioni, ma rispettando profondamente l’oggetto del proprio amore e riducendo al minimo le possibilità di sofferenza imposta o subita.

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Vorrei parlare di una «follia d’amore» che o è ben diversa da quelle forme su descritte narcisistiche o sadomasochistiche. Forse D faccio male a chiamarla «follia», ma al momento non so coniare un’altra definizione. La nostra cultura vede come follia sia l’innamoramento patologico nelle forme che abbiamo appena visto, sia quello sano e sacro. Con tutte le contraddizioni e le ambiguità implicite in ogni sentimento umano questo tipo d’amore appare schietto e brillante a chi lo sappia guardare senza paura. È un innamoramento totale che coinvolge la persona pienamente, che rende capaci di dichiarare il proprio amore per l’altro e di osare per esso gesti assurdi. Una tenerezza inaspettata, un regalo improvviso, un movimento inconsulto, una dolce serenata sono manifestazioni possibili di questo amore. Si può aggiungere il piacere di esibirlo, di esaltarlo, aver voglia di percepirlo come possesso.
Pindaro, ripreso da Carducci che mette la bella dichiarazione sulla bocca del menestrello, dice: «Contessa che cosa è mai la vita? L’ombra d’un sogno fuggente, a favola breve finita, il solo immortale è l’amor» (G. Carducci, Jaujffrè Rudel).

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Ho certo letto troppi libri, ho recepito con troppa ansia l’imposizione che mi veniva dalla società e dall’inconscio sociale per cui per essere persone degne bisogna sapere il più possibile di quello che è stato scritto; a questo stimolo s’è aggiunta la mia irrefrenabile curiosità. Fatto sta che amo i libri, mi piace leggerli, ma anche accarezzarli; ho invece quasi nessun interesse di tipo bibliofilo o antiquario. Ho in biblioteca qualche vecchio, antico volume, molto bello, con cui gioco, ma che raramente prendo in mano per leggere. Amo i libri perché hanno contribuito a costruirmi; io mi sono rapportato ad essi con deferenza ed amore, e in parte ho conosciuto per mezzo loro il mondo. La frase del saggio Galileo Galilei che ammoniva gli uomini a non vivere in un mondo di carta mi ha frenato per tempo ed ho rivolto il mio interesse anche alle stelle, alla natura, agli altri esseri umani, cercando di evitare l’errore di chi crede che il mondo stia tutto nei libri. Pur tuttavia o létto farse troppo: nella mia testa frullano teorie, definizioni, affermazioni scritte; molte sono interessanti, altre le ho giudicate sciocche, alcune inconcludenti. Sommandosi mi hanno informato e anche formato. Non rinnego questi studi, anche se a volte mi viene di pensare che meglio sarebbe stato aver scelto un libro solo, fermandosi lì, analizzando, meditandolo per impararlo fino in fondo. Fino a conoscerlo a memoria, a fame il mio compagno di ogni momento, la mia guida. Certo, quando ero uno studente il momento culturale era contrario a tutti gli aspetti del cosiddetto nozionismo: in nome della libertà dello spirito si era diventati dogmatici ed ottusi nel rifiuto della cultura che ci aveva costruito. Forse per reazione io ho fatto mio il principio di una formazione basata soprattutto sulla conoscenza del maggior numero possibile di nozioni, anche se rifiuto lo snobismo di una pseudo-cultura che si picca di avere sempre presente l’ultima novità libraria. Del resto sono convinto che ci siano schiavitù più pericolose e più tristi di quella dei libri. L’amore per il sapere, o anche l’amore per i libri, sono forme di innamoramento, capaci di arricchire e dare grandi emozioni.

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Tornando all’importanza che io attribuisco alla follia amorosa, vorrei a questo punto dire qualcosa agli psicoterapeuti. Voglio ripetere rivolgendomi precisamente a loro quanto ho già detto prima. Debbono stare attenti a non cadere nei tranelli del moralismo dei ben pensanti che talvolta è fatto proprio anche dagli scienziati e tanto meno nelle trappole della volgarità popolare. I gesti degli innamorati, apparentemente dissennati, debbono essere osservati con estremo rispetto. Non è giusto aggredirli, non è giusto perseguitarli; ma bisogna saper distinguere un delirio d’amore da un atteggiamento patologico. Il comportamento patologico in amore è quello che persegue la distruzione dell’altro, quando narcisisticamente o sadomasochisticamente si usa l’altro come strumento o ci si presta ad essere usati dall’altro. Questa prima distinzione è di fondamentale importanza per l’operare scientifico, perché è la sola che permetta di distinguere tra l’entusiasmo, nel senso che abbiamo prima ricordato, e la malattia. La spudoratezza, la commozione di cui sono capaci gli innamorati sono sentimenti vitali e sani e sono ben diversi dall’esibizionismo e dalla crudeltà dei narcisisti e dei sadomasochisti. Il terapeuta deve essere padrone di una chiave di lettura sufficientemente precisa, per incoraggiare quello che è sano e curare quello 990 che è un segno di patologia pseudoamorosa.

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Vorrei concludere raccontando l’emozione che mi ha dato sentirmi dire da una persona che amo molto: «Grazie per avermi insegnato il coraggio della spudoratezza». È stata una frase che mi ha molto confortato, perché troppo spesso io avverto intorno ai gesti e ai segni dell’amore un’irritata condanna, un tentativo di chiudere chi ha il coraggio di esprimere il suo innamoramento in un isolamento reso più pesante dalla condanna moralistica. Non so perché l’amore susciti tanta rabbia in chi si sente da esso escluso, ma è importante che coloro che si amano sappiano amarsi senza pudore, sicuri della legittimità di un sentimento che è il segno della presenza del dio: vero entusiasmo, per cui vale la pena vivere.

78 – Dicembre ‘91

domenica, 1 dicembre 1991

La mostra Il lavoro dell’uomo nella pittura da Goya a Kandinskij, ospitata nello spazio espositivo del Braccio di Carlo Magno, proprio sul lato sinistro della stessa Basilica di San Pietro, vuole celebrare il centenario della promulgazione dell’enciclica di Leone XIII «Rerum Novarum». La rassegna curata da Giovanni Carandente costituisce un’occasione di grande interesse per l’ampiezza e profondità con cui viene trattato il tema proposto. Le opere provengono dai più famosi musei del mondo e sono suddivise per grandi argomenti: «Secolo di vapore e d’elettricità»; «Lavoro: realtà, allegoria, simbolo»; «Motivo religioso»; «La questione sociale» ed inoltre una sezione monografica è dedicata a quello che viene definito «Un artista del lavoro: Costantin Meunier». Diremo subito che una cosa ci ha colpito e che non crediamo sia dovuta alle scelte dei curatori, ma proprio ad una concezione che evidentemente deve appartenere all’inconscio sociale di un’intera epoca e che quindi gli artisti non hanno che potuto riflettere nelle loro opere: il lavoro è visto come una realtà indissolubilmente legata alla sofferenza e alla miseria. Contrariamente a quanto la retorica otto e novecentesca ha tentato di farci credere, quella del lavoro è per l’uomo una maledizione e nella maggior parte dei casi non solo non «nobilita» l’uomo, ma lo umilia. Non riesce a mitigare questa sensazione neppure l’aspetto religioso colto in molti interventi: troppo anche qui, infatti, il concetto di carità cristiana pare confondersi con quello di «elemosina». Tutto questo ovviamente non esclude l’alto valore poetico di molte opere, che sanno dare emozioni e che anche sono documenti vitalissimi di una realtà molto complessa, storica ed artistica.
Giovanni Fattori ed Antonio Fontanesi, Francesco Paolo Michetti e Antonio Leto sono quattro pittori italiani che scelgono come argomento il lavoro dei campi e nella diversità degli stili personali rendono bene l’idea di cosa fosse il lavoro per i pittori italiani di fine Ottocento: una festa di colori, il fascino dei corpi possenti degli animali, l’ammirazione per il ritmo contenuto nei gesti di chi semina o raccoglie.
Un argomento che ha acquisito oggi una nuova attualità e già allora ampiamente trattato è quello dell’emigrazione: argomento cupo nel segno semplicissimo di un belga come Eugène Laermans invece trattato forse con compiacimento retorico e pittorico da Raffaello Gambogi, con ricchezza di dettagli, una tavolozza ricca di effetti coloristici, in un insistito gioco di luci ed ombre. È questa una buona opportunità per rivedere L’acquaiola di Francisco Goya, i Due contadini che piantano patate di Vincent Van Gogh, un Picasso del 1909, timidamente cubista e ancora molto descrittivo: Fabbrica a Horta de Ebro. Si affollano altri grandi nomi: Daumier, Corot, Millet e via dicendo, fino al Kandinskij fauve del 1908-1909.
Personalmente abbiamo apprezzato le molte tele di Costantin Meunier: nelle sue opere’ di grande formato c’è molta retorica sicuramente, ma abbiamo ammirato l’intento di cogliere un mondo come quello della miniera nei suoi molti aspetti, seguendo la gente nei pozzi, entrando con loro in chiesa, cercando di rendere la grande sproporzione tra la fatica e l’uomo che deve compierla, in un mondo dove gli impianti sono giganteschi e la figura di chi lavora ne viene inghiottita come in una bolgia infernale, in cui il colore è sempre una vampata nel buio o qualche macchia nel grigiore generale. Forse sulla tela non appare così pesante e rigida quella linea che invece fu sua nelle sculture e che irrimediabilmente lo fa accostare ai «realismi» di regime che le dittature di tutto il mondo vollero come emblema di una falsa esaltazione del lavoro e dei lavoratori.

La pittura di Roberto Gasperini si presenta con le sue figurazioni che si manifestano attraverso una serie di velature; tecnica consueta per il Novecento, ma originale in questo suo mondo. Non sono le velature soltanto un artificio tecnico difficile da controllare, sovrappongono anche momenti estetici e spirituali diversi, se pur adeguatamente armonizzati. Il primo impatto desta ammirati sensi di pulizia compositiva; indugiando si scopre però la sovrapposizione di atmosfere sensuali ed anche un po’ morbose. Ancora si ritrova diffusa l’inquietudine che trapela come residuo della travagliata ricerca tecnico-formale del passato e che ora risulta ben controllata. Non è facile capire se Gasperini preferisce nascondersi od esibirsi; la sua arte è indubbiamente efficace e persino accattivante nel suo essere pittura di un solitario che fantastica quasi senza pudore, sulle opere degli altri artisti del suo tempo. Questa allo Studio S di via della Penna 56 è la prima mostra romana del quarantenne artista toscano, che a lungo ha lavorato nella solitudine della sua terra pisana, dalla quale ha senz’altro ereditato qualche ossessione, felicemente oggi trasformatasi in prodotto artistico. Diciamo ossessione perché tale ci sembra essere il fondamento primo dei simboli tanto spesso ritornanti in queste tele dell’ultimo periodo. Non solo quelli più clamorosamente evidenti per la loro gridata incongruità: il vulcanico cono fumigante, le uova in instabile equilibrio, l’affollarsi di nerastri o variopinti uccelli dai becchi troppo aguzzi, le teste manichino dalle chiome sfuggenti in perpendicolarità elettrizzate; ma quelle più fondamentali: vogliamo dire le asimmetrie, le obliquità, le pendenze che accentuano sempre la precarietà delle posizioni, l’indeterminatezza della separazione tra gli interni e gli esterni. Tutti elementi questi inquietanti, ma che risultano poi energicamente dominati, sottomessi al colore e alla luce, al velo, che non li nasconde, ma ne suggerisce il possibile senso, il solo che possono e debbono avere in quanto espressioni della capacità del fare dell’artista, maturo e consapevole, non ancora fortunatamente disincantato.

78 – Dicembre ‘91

domenica, 1 dicembre 1991

In Piazza Farnese, in uno splendido palazzetto, da alcuni anni funziona uno dei più immeritatamente famosi ristoranti di Roma: Camponeschi. Una serie di salette fumose ed iper-affollate e un servizio disattento e sgarbato mettono fin da subito a disagio l’avventore. L’arredo è dozzinale e l’apparecchio della tavola ricorre allo scontato effettaccio degli enormi sottopiatti di metallo. Sola nota positiva è quella dei bicchieri appropriati ai diversi tipi di vino serviti, anche se bisogna dire che le proposte dei prodotti della casa sono scadenti, benché siano le sole a prezzi accessibili; per quel che riguarda invece le altre bottiglie, provenienti da una cantina quanto mai selezionata, i prezzi sono esorbitanti anche per una clientela spendacciona. Ricordiamo un Grumello di Negri dal profumo gradevole di banana a un costo abbordabile, e uno sgradevole vino da dessert dal metallico sentore. Per quel che si riferisce alla cucina bisogna dire che abbiamo trovato solo cibi squallidi e preparazioni ovvie; la carta è folta di proposte, ma i sapori sono pochi e monotonamente ritornanti.
In apertura vengono offerte dolciastre ovoline in una indefinibile salsetta, una crema di gorgonzola da super mercato e non sgradevoli olive condite. La preparazione di astice al tartufo nero sommersa di rughetta era oltre che squallida mal realizzata con una sgradevole sensazione di viscido e una preponderanza di erba aromatica quasi offensiva. La pasta e fagioli ai frutti di mare era slegatissima ed insapore; la pasta fatta in casa all’abruzzese si concretizzava in un piatto di pastina scotta buona per bambini malati. Abbiamo sentito il cameriere assicurare gli avventori di un tavolo accanto sulla grande freschezza del pesce. Noi non abbiamo diritto di metterlo in dubbio, ma la cosa non ci pareva così lampante. I tagliolini ai ricci di mare rozza e sgraziata preparazione, non erano che una sbiadita emulazione di una straordinaria ricetta che noi ricordiamo di avere gustato col massimo piacere dei sensi in un ristorantino di Procida. Il capriolo in salsa di mele al calvados sembrava annaffiato non tanto dal prezioso distillato di Normandia quanto dalla fresca acqua della fontana zampillante sulla piazza. Il filetto Enrico IV era travolto da un’accozzaglia di ingredienti sconclusionati. I dessert risultavano altrettanto tristi, si trattasse di una papposa tarte Tatin o della vetrosa creme brulée. Non abbiamo neppure potuto distrarci chiacchierando con gli amici perché il trambusto e la confusione rendevano impraticabile ogni tentativo di conversazione. Riconosciamo che questo è un ristorante alla moda, con ignominia di chi lo sostiene, per cui non ci siamo scandalizzati più di tanto davanti al conto sproporzionato.

L’albergo Quirinale di via Nazionale ha una storia di passati splendori ai quali, dopo un periodo di eclissi, pare ora che una nuova gestione intenda restituirlo. Noi avevamo sempre sbirciato di fuori questa vetusta gloria, situata così a ridosso del Teatro dell’Opera, con l’occhio distratto dei passanti. Il caso ha voluto che un giovanotto, che ci piace considerare nostro amico, si prendesse in questi giorni cura del bar dell’albergo, deciso a risuscitarlo a nuova vita. Bisogna dire che l’ambiente ha già fin d’ora, prima ancora delle annunciate trasformazioni, che vogliamo augurarci non lo snatureranno, caratteristiche accoglienti e raffinate, articolato nei salottini che stanno intorno al grandissimo salone principale e prima della sala da pranzo. Noi conosciamo da tempo il valore professionale di Gaetano, il giovane barman che ora muove qui i suoi passi e siamo sicuri che avrà le idee giuste anche in questa circostanza.
Per ora abbiamo visto prendere le mosse l’iniziativa del piano bar. Il Maestro Lauro è un veterano del genere, ha conosciuto la migliore clientela internazionale, ha un temperamento estroverso ed amabile, come ogni buon ischitano, e musicalmente ha un tocco gradevole ed accattivante, unito alla capacità di stabilire un immediato rapporto con l’uditorio. Nella buona stagione si può anche godere di un bel giardino, molto verdeggiante e fresco, vera oasi al centro della città. Per venire a quel che più conta diremo che Gaetano ha ulteriormente affinato le sue doti: non solo sa eseguire alla perfezione le più difficili preparazioni di cocktail classici, ma sa anche innovare e creare. L’ultima novità, ancora senza nome, ma noi suggeriamo di chiamarla Idomeneo, è una equilibrata mistura di vodka, banana e limone, molto dissetante, ma sufficientemente robusta. Per le imminenti festività ha già elaborato un raffinatissimo Christmas cocktail allo spumante e succo di melograno, ben decorato dai chicchi dello stesso frutto, scintillanti come festosi addobbi natalizi. Ogni nostra visita è anche la speranza di una novità, tanto è fertile la fantasia di questo giovanotto, che fino ad oggi non ci ha mai dato una delusione; e noi molto ben sappiamo quanto sia difficile resistere alle tentazioni della faciloneria. li bar è così vicino all’Opera che è il luogo ideale per un drink lontano dalla ressa del foyer e se non avrete la fortuna di incontrare Gaetano non c’è ragione perché vi preoccupiate: è al suo fianco Paolo, un ancor più giovane e, ci pare promettente collaboratore.

78 – Dicembre ‘91

domenica, 1 dicembre 1991

Marina e l’altro si intitola lo spettacolo che finalmente è andato in scena anche a Roma, al teatro Flaiano, che Pamela Villoresi interprete e regista, ha già portato sulle scene di molti teatri italiani, dopo il debutto al festival di Asti, la scorsa estate. Il testo di Valeria Moretti costruisce una breve vicenda estrapolando dai diari della poetessa russa Marina Cvetaeva, segnata da un destino tragico di grandezza e follia, nella cornice desolante di una Russia appena emergente dalla rivoluzione d’ottobre, incapace di riconoscere una funzione alla poesia. Ma non bastano certo le rivoluzioni a fermare le ragioni della poesia: nella miseria più degradante Marina scrive con un carboncino e con le unghie ei suoi versi sull’intonaco delle pareti della sua soffitta. Sono versi di un lirismo allucinato ed accorato, che colpiscono a tratti con lancinanti bagliori di verità. L’autrice del copione ha isolato un momento molto particolare di una vita tutta fuori dagli schemi: una sera un ladro irrompe nella stamberga e nella vita di Marina, che lo accoglie sorpresa e capace di sorprenderlo.
L’incontro è quello tra due mondi completamente estranei fino ad allora; entrambi in qualche modo marginali, come possono esserlo in una neonata società bolscevica quelli di un ladro e di una poetessa. L’autrice ha l’intelligenza di non esaltare la follia come un valore assoluto, ma riesce a farne percepire la dolorosa inevitabilità e il disperato squallore. Nella costruzione di un gioco sottile e anche sensuale si snoda un abbozzo di storia amorosa senza possibilità di futuro, anzi quasi sopraffatta dai ricordi di un passato che nella donna si affaccia con prepotente violenza, fino a prevalere sulla realtà presente. Un passato intriso di gioie e di dolori.
Pamela Villoresi sa dosare gli ingredienti della sua recitazione con grande intelligenza, nella mimica, nelle impostazioni della voce, capace di momenti di rarefatto virtuosismo che sfociano in travolgenti onda te di passione e di lirismo, in bilico tra i deliri della mente e le furie dei sensi.
Bruno Armando non è soltanto «l’altro», ma riesce con la sua recitazione controllata e pure mai ovvia a contrapporre un uomo tremendamente vivo e vero, col suo stupore e la sua pesante carnalità che risulta più vicina alla poesia di quanto il personaggio stesso non immagini. La Villoresi dimostra anche polso registico nel tenere sempre tutto sotto controllo. La scena efficacissima di Nanà Cecchi si giova anche del contributo di buoni effetti di luce orchestrati da Cristiano Pogany e dell’eccellente commento musicale di Luciano Vavolo, presenza costante e filo conduttore.

La vecchia signora Venable ha fatto rinchiudere in una clinica per malati di mente la giovane nipote Catherine, la quale dopo essere stata l’unica testimone della tragica morte del figlio rischia ora di comprometterne la reputazione raccontando una sgradevole verità. Secondo la ragazza infatti il giovane Sebastian sarebbe morto vittima di un torbido episodio di cannibalismo in qualche modo provocato da una morbosa smania di autodistruzione del ragazzo preda di incontrollabili impulsi omosessuali e masochistici. Di questa sgradevole verità fa parte anche la constatazione che Sebastian si era sempre servito della figura della madre come esca e schermo femminile per i suoi approcci perversi e che solo nell’ultima estate aveva preferito affidare il ruolo alla giovane cugina, poiché l’età aveva fatto perdere alla signora Venable ogni sensuale attrattiva. Per tenere nascosto tutto questo e proteggere la reputazione del tanto degenere figlio la signora ricatta il fratello e la madre della ragazza con la promessa di generose eredità e giunge persino a tentare di corrompere un giovane scienziato, lo psichiatra dottor Cukrowicz, promettendo gli la creazione di una fondazione per la ricerca scientifica dotata di amplissimi mezzi economici. Sarà sufficiente che i tre diano il permesso e collaborino ad un intervento di lobotomia frontale che cancellerà per sempre dal cervello di Catherine l’imbarazzante ricordo.
Come si vede dal semplice racconto di una simile trama Improvvisamente l’estate scorsa, opera di Tennessee Williams del 1958, è carica di tinte fosche, ambigue e perverse. Tutto è delitto ed anche la giovane ragazza, apparentemente vittima, è inserita più o meno consapevolmente in questi giochi raccapriccianti. Influenze mitologico-psicoanalitiche sono gettate a piene mani: sensi di colpa e auto-distruttività; incesti e cupidigie hanno sullo sfondo un ribaltamento drammatico e grottesco della «orgia totemica». Sproloqui di questo genere si potrebbero tentare indefinitamente a cercare di rendere conto di quanto appare sulla scena. Indubbiamente però la scrittura di Williams è sempre sicura ed efficace, anche se troppo spesso ridondante; ma in ogni caso è assolutamente impossibile tentarne una lettura in chiave edificante e proporne un’interpretazione da filodrammatica di parrocchia. Questo fondamentale errore è stato fatto invece dalla compagnia Nuova Scena che ha messo il testo in scena al teatro Valle con la regia di Cherif e nella traduzione di Masolino D’Amico. Il ruolo della vecchia signora era sostenuto da una Alida Valli sospirosa come la gozzaniana Nonna Speranza e tutti gli altri: Giovanni Visentin, Anna Goel, Carlo de Mejo, Lorella Semi e Anna Zaneva bisbigliavano muovendosi come ectoplasmi sulla fantasmesca scena di Tobia Ercolino. Soltano Raffaella Azim, nel personaggio di Catherine inizia improvvisamente a strillare infrangendo il muro di sopore da cui gli spettatori si trovano avvolti: ma tutti si ricompongono subito, si sa quella è una matta.
Se tanto impercettibile strisciare, accompagnato dai flebili sospiri musicali concepiti da Bruno De Franceschi, era inteso rappresentare un mondo di torbide e sotterranee passioni ha completamente sbagliato l’obiettivo: l’inconscio mondo delle pulsioni più segrete non è mai soporifero, anzi.

I Farfalloni sono veramente stufi della miriade di teatrucoli minuscoli, maleodoranti, scomodi, troppo freddi o troppo caldi che infestano la capitale. L’Abaco in lungotevere Mellini 33 è uno di questi e per di più sbeffeggia lo spettatore spacciandosi anche per un «café théatre» il che significa semplicemente offrire all’ingresso un bicchierozzo di prosecco caldo e acido. Dopo, appollaiato scomodissimamente, pigiato in un corridoio affollato come un autobus nell’ora di punta, il malcapitato potrà tentare di sbirciare ciò che avviene su una piccolissima scena. Noi abbiamo avuto la deprimente esperienza di assistere ad una rappresentazione dello spettacolo di Elena Pandolfi e Caro la Silvestrelli Noi che siamo fidanzate III (Il riciclo – ovvero che cosa fare se baciandolo diventa rospo). Le due autrici, registe ed attrici sono damigelle non certo di eccelsa bravura, però, risultavano protagoniste di una eccezionale performance interpretativa, al confronto dell’insulsaggine complessiva del loro testo e della loro pochezza registica. Noi due, è fin troppo risaputo, non siamo grandi estimatori dell’acuzie femminile, però ci sentiamo in dovere di proclamare che le donne. non sono così cretine, insulse e banali come costoro vorrebbero farci credere attraverso un copione che oltretutto non ha neppure il coraggio di dichiararsi femminista. Le confessioni delle due attricette nel salone del parrucchiere di Cinecittà non hanno per altro la plausibilità di uno spaccato realistico tratto dalle rubriche di corrispondenza dei settimanali femminili, come l’assunto vorrebbe. Peggiorano la situazione due canzonacce musicate da Alberto Giraldi, le coreografie di Carolina Giudice e le scene e costumi di Annalisa Caruso. Sono coinvolte le voci di Sergio Zecca e Alessandro Spadorcia con la gentile collaborazione di Toni Garrani. Un pregio indiscutibile è la fulminea brevità del tutto.