Archivio di giugno 1991

74 – Giugno ‘91

sabato, 1 giugno 1991

Il recente rilancio in Polonia della crociata anti-abortista da parte di papa Giovanni Paolo II e il discorso di Martelli al congresso socialista di Bari sembrano aver riaperto un problema che è ormai obsoleto e che ha per questione apparente quella della liceità dell’intervento di una guida religiosa sulla vita civile dei popoli e delle nazioni. Insiste Claudio Martelli: «Non è certo l’immortale cristianesimo il bersaglio della mia critica, ma è solo il temporalismo e l’intolleranza che trasuda da alcune repliche. Tenere fermo il confine tra politica e religione non è mancare di rispetto né alla Chiesa né al Papa né tanto meno alla coscienza religiosa (…) Nei più evoluti Stati arabi l’uso della religione per fini politici è vietato. Ci costringeranno a pensarci anche in Italia?» Forse sarebbe il caso di dire a Martelli e a tutti quelli che vorrebbero limitare alle questioni della metafisica l’insegnamento delle Chiese, di quella Cattolica e del Papa nel caso specifico, che non si può tenere, neppure per motivi elettorali, il piede in due scarpe. L’insegnamento religioso è sempre, per sua natura «integralista»; chi si propone come mediatore tra Dio e l’uomo non può presupporre limite di alcun genere alla propria missione di proselitismo. È vero che le coscienze individuali e la loro espressione collettiva, articolata in codici legislativi, possono legittimamente rifiutare ogni tipo di acquiescenza ai principi religiosi, quando non li abbiano presi esplicitamente a fondamento delle loro stesse norme costitutive. Quello che gli individui ed i governanti non possono però pretendere è di avere salva l’anima sulla base dei principi enunciati dalla fede il cui magistero vogliamo limitare (sia essa di qualunque confessione). Bisogna quindi accettare con coraggio quella «scomunica» che pure subirono in un passato non lontano regimi che credettero di prescindere da ogni religione positiva e addirittura da ogni ipotesi teistica. L’ateo non deve rispondere su questa terra del suo rifiuto di Dio; ma chi si dichiara credente, deve anche precisare se la sua fede è personale o si identifica in quella professata da una religione «riconosciuta». Chi non è cattolico risponderà solo alla sua coscienza di alcune decisioni in merito all’aborto o all’eutanasia, alla vita sessuale o morale; chi afferma di esseri o non può contravvenire i precetti fondamentali e non può porre limiti alla missione pastorale. Chi critica la morale della Chiesa cattolica deve accettare di esserne fuori e lottare, caso mai, perché le cose cambino. Se sarà stato nel giusto, Dio non sarà così incomprensivo: ma il rischio va corso di non godere di alcun «ombrello protettivo». L’aborto è condannato dalla Chiesa cattolica, come l’eutanasia, come ogni aspetto della sessualità che non si attenga ad una castità che non solo è imposta fuori dal Sacramento del matrimonio, ma anche tra gli sposi. Ogni uomo rimane però libero di comportarsi secondo coscienza e in conformità delle leggi dello Stato di cui è membro con pienezza di diritti. Si può criticare la Chiesa di Roma perché ha rimosso con la sessualità un aspetto fondamentale dell’esistenza umana; si può legiferare in modo che la piaga degli aborti clandestini sia mitigata dal controllo delle istituzioni; ma si deve accettare di non essere «dentro» la Chiesa e che ogni limitazione della sua azione pastorale sia un gesto di repressione, un attacco alla libertà di insegnamento e di religione. Tutto questo beninteso va detto con la consapevolezza che sempre due pesi e due misure hanno regolato i rapporti tra Stati e religioni: una religione debole può subire le leggi dello Stato per quanto ciò sia ingiusto; uno Stato debole subirà l’imposizione religiosa anche se questo offenderà le libertà più elementari, e anche questo è ingiusto.

73 – Giugno ‘91

sabato, 1 giugno 1991

Rigoletto, la prima delle tre opere «popolari» di Giuseppe Verdi, è una tragedia musicale che ha trascinato, coinvolto e commosso milioni di spettatori. Oggi, che sono caduti anche i pregiudizi di alcuni musicisti e musicologi frigidi del primo Novecento, possiamo dire che fa parte del patrimonio culturale del mondo intero. A Verdi piacevano i drammoni a fosche tinte, con sentimenti che squassano, momenti di sadomasochismo parossistico. Le azioni drammatiche che predilige sono terribili e complesse più di quanto sembrino, anche perché non si può quasi mai sapere con precisione dove stiano il bene e il male.

Prendiamo ad esempio la situazione di quest’opera, il cui libretto F. M. Piave ha tratto da Le Roi s’amuse di V. Hugo: appare chiaramente che il Duca di Mantova è un tiranno e un libertino; ma che diritto ha il buffone di tenere incestuosamente nascosta la figlia? Gilda è buona, ma anche un po’ sciocca; i cortigiani sono di una perfidia emblematica. La sofferenza però scuote tutti: persino il Duca trova – con la musica – accenti di commozione e disperazione. Giustamente abbiamo detto «musica»; perché qui è la musica che racconta tutto: Verdi coglie nel testo brandelli di frasi sulle quali costruisce con le sue straordinarie e intensissime melodie. sentimenti di abissale profondità. Come rivela anche il titolo originario La maledizione, questo dramma non è tanto incentrato sull’amore paterno, quanto appunto sul terribile peso di una maledizione, che angosciosamente incombe fin dall’inizio della rappresentazione. Verdi ha voluto, sottolinearlo curando gli effetti sonori tesi a dare un’accentuazione quasi esasperata ogni volta che il ricordo di quella condanna si fa presente. Ad esempio, la frase di Rigoletto. «Quel vecchio maledivami…» cantata con tutti do. Nella stesura preliminare lo stesso verso veniva cantato con un’ascesa melodica che – seppur secca – ammorbidiva troppo l’atmosfera. Quei do della versione definitiva, scarni e terribili,. Racchiudono l’intera tragedia. Ancora tantissime cose si potrebbero dire intorno a questa partitura verdiana che riesce ad esprimere tutti i sentimenti umani; persino l’orchestrazione, apparentemente semplice e talvolta un po’ «bandistica», è calibrata e dosata con cura staordinaria. L’allestimento che ne ha dato l’Opera di Roma in questa fine di stagione ci ha lasciato un po’ perplessi: i primi quadri sembrano tollerabili; ma poi, lentamente, la realizzazione si smaglia ed anziché caricarsi di tensione si smorza; tutto diventa annacquato, impreciso ed anche un po’ sconnesso. Su tutto il cast primeggia June Anderson nei panni di Gilda, con la sua bella voce pulita, capace anche di momenti virtuosistici. In due punti solo non ci è piaciuta: all’inizio di «Caro nome…» dove l’abbiamo sentita inequivocabilmente accelerare, e nella scena della morte dove fa perdere al personaggio molta efficacia drammatica, prendendo i fiati in modo ambiguo. Il Duca di Mantova, Vincenzo La Scola, affronta con impegno il ruolo, grazie alla sua voce gradevole, che pure qua e là stride, come l’impostazione da «bullo» del personaggio. Il Rigoletto, Leo Nucci, supplisce al difetto d’intonazione con la buona efficacia drammatica; in questo senso esemplari sono i tempi, fiati e cesure di «Cortigiani vil razza dannata…», astuti però non tanto da far scordare l’imprecisione della sua intonazione.

Un risultato raccapricciante ci è parso che raggiunga il quartetto famoso dell’ultimo atto: «Bella figlia dell’amor…» Gilda sfora ad ogni passo, il Duca è sforzato, Maddalena è opaca e Rigoletto non si sente.

Viorica Cortez trasforma Maddalena in un travestito afono. Franco De Grandis assolve bene il compito di dare voce a Sparafucile. Tutti gli altri si barcamenano. Sotto la direzione di Bruno Bartoletti abbastanza corretta, ma poco incisiva, l’orchestra fornisce prestazioni non particolarmente brillanti. La regista Silvia Cassini, lo scenografo Luigi Marchione e il costumista Salvatore Russo costruiscono movimenti, ambientazioni ed abiti sontuosamente adeguati, buoni a riempire una scena che non cessa di risultare troppo grande ed affollata, tutto sommato estranea alla dinamica delle passioni essenziali che vi si consumano.

73 – Giugno ‘91

sabato, 1 giugno 1991

Un variopinto miscuglio di mecenatismo, snobismo e beneficenza, ha dato vita ad un’operazione di indiscutibile valore culturale, superando con lo spirito d’iniziativa le secche della burocrazia istituzionale inerte quando si tratti di dar vita ad eventi che risollevino un poco le sorti «spirituali» di questa città.
La mostra Fasto Romano aperta fino al 30 giugno nel bel Palazzo Sacchetti, al numero 66 di via Giulia, raccoglie e mette a disposizione dei visitatori uno scelto campionario di mobili, arredi, quadri, sculture e suppellettili del Barocco provenienti dai più aristocratici palazzi romani, tra cui Quirinale e Vaticano. Non sappiamo quanto giustificato sia il criterio di esposizione: a noi è sembrato che con poco sforzo sarebbe stato possibile evitare che la raccolta assomigliasse troppo da vicino ad un «mercato antiquario» quale dappertutto se ne vedono. La bella struttura ospitante ci sembra avrebbe potuto offrire l’occasione di una «ricostruzione» ragionata di alcuni ambienti nei quali i singoli pezzi trovassero anche un significato in relazione all’uso e alla funzione, dialetticamente in rapporto tra loro stessi. Detto questo, che è un parere senz’altro discutibile, diremo solo più che alcuni degli oggetti messi in mostra sono di una tale bellezza intrinseca e di tanto significato storico che non si può che restarne ammirati. Citiamo il Carlo Barberini a cavallo, di Francesco Mochi (1580-1654), un bronzo di piccole dimensioni che ha la grandiosità di un monumento equestre; il seducente Bacchino de L’Autunno di Pietro e Gian Lorenzo Bernini, una delle quattro figure simboleggianti le stagioni ottenute ciascuna da un sol blocco di marmo. L’espressivo e forte Ritratto di Giovan Pietro Bellori del Maratta (1652-1713). Tutta la serie di paesaggi ad olio di Gaspar van Wittel (1653-1736) che, con le tempere, costituiscono un prezioso punto di riferimento per chi voglia fantasticare sui luoghi di quella Roma barocca. Tra i moltissimi mobili ed oggetti abbiamo apprezzato in modo particolare due orologi notturni provenienti, ci pare, da Palazzo Colonna, della seconda metà del Seicento (cosiddetti perché un lume al loro interno permetteva di leggere l’ora anche di notte), preziosamente dipinti ad olio su rame; e due candelieri provenienti dal Quirinale, in bronzo dorato, rappresentanti ciascuno una coppia di figure virili che reggono il braccio dei lumi, firmati Francesco Righetti.
Un’opportunità dunque di stare in mezzo a cose belle, con la consolazione che il biglietto pagato serve ad aiutare un’iniziativa di assistenza per handicappati; a dimostrazione che in questo paese se non ci si aiuta da sé…

Sarebbe fin troppo facile, parlando della mostra dei Nudi, ritratti e disegnini di Sylvano Bussotti alla galleria Il Polittico di via Monserrato 28, dire che l’arte è una, che la divisione in branche ed in generi particolari è fittizia e che ciò che conta è l’espressività della ricerca.
Si potrebbe anche dire che alcuni talenti particolari riescono a comunicare servendosi di più di una forma d’arte. Questo è il caso di Bussotti: compositore, attore, poeta, drammaturgo, scenografo ed anche pittore. Questo sembrerebbe dimostrare che non solo l’arte è una sola; ma che tutta la cultura è inscindibile, in quanto ricerca: musica, poesia, fisica nucleare, giardinaggio. L’essere umano nella vita si afferma mettendosi in relazione con se stesso e con gli altri, attraverso innumerevoli modalità. Quello che è importante comunque è fare bene quello che si decide di fare, e farlo anche in modo che il «prossimo» ne possa fruire in parte, quindi anche essendo a sua volta creatore.
Il solipsismo non è una scelta possibile, può essere solo finzione. Rapportarsi «bene» agli altri non è però facile.
Innanzi tutto vorremmo dire che i disegni di Bussotti hanno un grande pregio morale: sono privi della prudérie che inquina troppe opere d’arte del passato e del presente. È importante saper esprimere i propri desideri trasmettendoli agli altri: il mondo è bello da indagare e da scoprire. Il nudo virile può essere tenero, piacevole, esaltante. Qui il musicista Sylvano Bussotti ritma questi bei corpi nudi con una sua armonia ed un suo contrappunto e con molta tenerezza. Non ci sono slanci particolarmente eroici; forse c’è talora compiacimento e autocompiacimento, ma le immagini si stendono sui fogli come sorprese da uno sguardo un po’ indiscreto, amico e complice.

«Ma lei è soprattutto scrittore o grafico?» dice di sentirsi spesso domandare Günter Grass nello scritto di presentazione della sua mostra alla Galleria «Il Segno» di via Capo le case.
A lui viene di rispondere scherzosamente: «Io disegno sempre, anche quando non disegno, perché sto scrivendo, oppure concentrato, non sto facendo niente». Ecco qui un artista che ha scelto due sole forme espressive; anche se noi affermiamo che la scrittura e il disegno hanno in comune nulla e allo stesso tempo tutto, appunto come con il teatro e il giardinaggio.
Guardiamo queste opere per quello che sono ed anche per cosa sappiamo del suo autore. Egli ama meticolosamente i simboli che uniscono e nascondono elementi essenziali della realtà. La psicoanalisi…ci ha insegnato ad andare sempre alla ricerca di ciò che sta dietro il simbolo; ma l’arte ha insegnato che dietro al simbolo c’è un altro simbolo, e così via, forse all’infinito.
Così può dunque darsi che i simboli non esistano e siano soltanto il significato stesso. Eppure sappiamo che i simboli si possono disciogliere in altri simboli che diventano la spiegazione dei primi: un fungo è simbolo di un fallo, il fallo di uno scettro e questo di un fungo. Si tratta di cercare la spiegazione che ci fa più comodo. Con indubbie doti di disegnatore Grass sceglie nel corso della sua opera una serie di simboli privilegiati e li piega alla narrazione, talora articolando il racconto in veri e propri cicli: i funghi, i pesci, i guanti, gli alberi, i topi. I toni della sua narrazione in bianco e nero sono sempre forti e spessi, i segni profondi, le linee tormentate e le superfici si affollano di accostamenti che vogliono ispirare inquieta ripugnanza, tragica e greve sensualità fiamminga, come nei brulicanti deliri di Bosch. Visceralità, genitalità e analità vengono poi ogni tanto ritmate dall’apparizione del cuoco, figura rubizza di carnefice che cucina il tutto in previsione di una digestione universale.

73 – Giugno ‘91

sabato, 1 giugno 1991

«Che serve scrivere e cos’è un poeta a confronto con la fama negli stadi?» Dice Nelo Risi a pagina 24 del volumetto Mutazioni (Mondadori Nuovo Specchio, 1991, pago 91, Lit. 20.000). È una riflessione che ci capita spesso di fare, soprattutto quando leggiamo la cosiddetta poesia contemporanea, la quale, fatte salve alcune rarissime eccezioni, unisce alle sue caratteristiche specifiche, diverse di volta in volta, una sensazione costante di effimero. Poi pensiamo che ciò fa parte del sentimento di precarietà che sempre si accompagna alla vita umana quando riflette, al presente, su se stessa.
Risi cerca forse per questo di dare ai suoi versi una finzione di storicità, pretendendosi l’interprete dei più riposti e nascosti sentimenti di un Ovidio esule lontano da Roma. Il parallelismo funziona a doppio senso: il poeta di oggi si identifica con quello di ieri e forse si compiace di aver raggiunto così una facile grandezza.
Nelle altre tre sezioni si susseguono bozzetti rapidi come quadretti o fotografie addirittura e riflessioni ecologiche o di cronaca politica. Da buon poeta d’oggi le composizioni sono per lo più aforismi moralistici e talvolta intimistici, velati di ironia e malinconia:
«C’era un luogo di casal un angolo di muro dove starei Assieme, che solo a nominarlo/ emanava tepore/ (…) Da quando le lente volute/ hanno espresso null’altro che cenerei già il fatto di esisterei è di peso al sopravvissuto» (Struggimento, pago 73).

Sottraete ai defunti goliardi che furono «quelli della notte» anche l’ombra dell’umorismo. Fate in modo che Woody Allen divenga ancora più stupido e tronfio. Togliete le rime al Corriere dei piccoli. Spargete qua e là versi di canzonette del tempo che fu. Ed avrete le due raccolte di poesie di Valentino Zeichen riunite sotto il titolo Gibilterra (Mondadori Nuovo Specchio, 1991, pagg. 97, Lit. 20.000).
La prima raccolta – da cui il volume prende il titolo – si presenta sotto forma di brevissimi e quieti racconti ambientati in siparietti di ricordi nazi-fascisti a sfondo tecnologico. Il linguaggio è estremamente chiaro, quasi povero, ci verrebbe da dire «riduttivo». Nella sezione di poesie «Ecologiche», frasucce piene di buon senso hanno la pretesa di salvare il mondo: sacrosanti attacchi ai detersivi e agli shampoo si accartocciano a frasi più oscure, sgangherate ed inessenziali. Tutto però è innocuo; nulla di incisivo, iterazioni sotto forma di litanie che non possono interessare nessuno.
Il libro si chiude con una frase blasfema (meno male!):
«e così la sfera monade,/ modello a tutte le idee,/ rimbalzerà sulla terra e diverrà la capricciosa ispiratrice/ di ogni estro e geometria/ del divino gioco del calcio» (pag. 97).
In tutte queste pagine abbiamo trovato una sola, unica, bellissima poesia:
«E gira, gira l’elica, romba il motor questa è la bella vita, la vita bella/ dell’aviator».
Ma temiamo non l’abbia scritta Zeichen.

73 – Giugno ‘91

sabato, 1 giugno 1991

Quello che oggi si chiama ristorante Parioli (da Domenico) in viale Parioli 103 è un locale dalla storia tormentata. Prima quella villa e quel giardino videro i fasti effimeri di una diva di regime; poi assistettero al succedersi di gestioni diverse e sfortunate di che! e ristoratori di varia fama e grandezza. Ultimo arrivato è Domenico, qui reduce da un precedente esercizio in altro settore pariolino. La formula vuole essere quella, per troppi versi ambigua, del «ristorante di pesce».
In nome del pesce, soprattutto a Roma, si celebrano ogni giorno riti gastronomici che vanno dall’esaltante allo squallido; non solo il pesce, buono e fresco, è merce raramente reperibile; ma inoltre abbisogna di tali e tante sapienti cure, di compagni di piatto di qualità eccelsa e di sensibilità straordinaria; così che là dove la determinazione non si accompagna al talento il pesce viene umiliato e ridotto a pretesto di untuose tavolate maleodoranti, di aglio bruciato, di pastelle sfatte, di limonate sovrabbondanti a coprire fumi e sprofumi.
Prima di affrontare un po’ più in dettaglio l’esame di ciò che abbiamo mangiato, per dovere di informazione non possiamo tace- .
re sullo squallore inenarrabile dell’ambiente: tavoli mal apparecchiati con stoviglie dozzinali, affollati da una clientela sguaiata avvolta nel fumo delle sigarette, donnone che berciano ed ometti che bevono.
Noi che siamo curiosissimi facciamo anche molto caso alle ordinazioni dei nostri vicini di tavolo e anche questa volta abbiamo osservato successioni di portate inconcepibili e abbinamenti deliranti, tutte piaghe che ovviamente non affliggono solo questo ristorante, ma che trovano qualche volta da parte delle gestioni incuranti notevole incoraggiamento e quasi istigazione.
Appena salita la scaletta che porta al primo piano siamo stati accolti da persone distratte e scostanti; con grande disagio abbiamo ascoltato un cameriere dall’à plomb non proprio ineccepibile nei toni grigietti di camicia e giacchetta, bofonchiarci una possibile scelta di piatti e di vini. Di carta non è apparsa traccia nemmeno davanti alle nostre evidenti perplessità. Ci siamo ritrovati ad iniziare con un desolante antipasto «alla credenza» di verdure appassite e pescetti insapori; con la «perla» disgustosa di un’ostrica, ridotta ad un grumetto molliccio di pan pesto gratinato ed unto.
Il risotto alla pescatora, scotto e sfatto, emanava un odore sgradevole di sciacquatura; gli spaghetti agli scampi, offrivano resti di crostacei sommersi di oleoso e rossastro condimento, che intrideva tutti i sensi; un’ineliminabile impressione che ci accompagnerà a lungo nella vita ci ha fatto però il piatto di spaghetti all’astaco: sulla pasta impregnata di aglio bruciato, gran quantità di vuote carcasse nascondevano un solo e dimenticato brandello di polpa, così microscopico da non poter essere classificato né per il genere né per il sapore. Rapidamente abbiamo cercato di superare lo scoglio di un fritto di calamari e gamberi, fatto come non si deve; una pausa in tanto stress gustativo ha poi costituito un rombo al forno, non manipolato da alcuno, ma perversamente accompagnato da dolciastre patate grevi e sfatte.
I dolci di bassa pasticceria che abbiamo sperimentato sono stati una pastiera napoletana e una torta al cioccolato. Ci siamo rigenerati con fragoline di bosco «nature» e cognac di buona marca.
Per quel che riguarda i vini diremo solo che, vincendo la resistenza passiva del giovanotto così restio a farci partecipi dei tesori della sua cantina, abbiamo bevuto prima un Greco di Tufo di Mastroberardino, pallido epigono sulla scena contemporanea di quelli che furono i fasti di quel vino e di quel produttore; ed un sorprendente Roero Arneis dai delicati sentori di mela ed uva spina, armonico e già a buon punto nonostante la giovanissima età, che non disturbava.
A questo proposito lamentiamo pubblicamente la recente tendenza dei produttori ed esercenti ad offrire al consumo vini giovanissimi, in genere dell’ultima vendemmia (entrambe le bottiglie cui abbiamo accennato erano del 1990) ancor prima che siano maturi.
Stanchi ed affranti a fine pasto ci siamo rapidamente affrettati all’uscita, appena confortati da un conto non eccessivamente elevato.

73 – Giugno ‘91

sabato, 1 giugno 1991

Tutti sanno quale importanza abbia avuto l’Enciclopedia, non solo per il secolo dei «lumi». Diderot ne fu tra i principali animatori, il più dedito e perseverante. Sebbene le censure e le reticenze, inevitabili per quel tempo, ne abbiano fatto un mito, noi pensiamo che l’immane opera non abbia in realtà mai rappresentato quel monumento di sovversione e ribellione della cultura e del gusto agli stantii schemi preesistenti. Nei suoi «articoli», nelle sue molte «voci», c’è persino troppo «buon senso». In quei volumi si ritrova, più che gli squilli di Marte della Rivoluzione, l’annuncio dell’imminente quieto vivere, appena un po’ osé, della pavida borghesia del Direttorio. Non abbiamo certo la spudoratezza di dire che siano libricini di devozione; ne riconosciamo l’importanza sociale e politica, ma secondo noi, se ne trae con molta facilità quella morale perbenista che la farà da padrone presso la neonata borghesia post-rivoluzionaria. Noi personalmente detestiamo sia, quel tartufismo borghese di cui gli illuministi sono stati vessilliferi, sia la vigliacca violenza della dittatura giacobina. Certo è che il mondo va avanti soprattutto in questo modo: grandi idee retoriche sbandierate dagli uni e dagli altri, miserevoli realtà che di queste si fan scudo. Nel suo libello Il nipote di Rameau, il padre dell’Enciclopedia si abbandona ad uno sfogo amaro grottesco e disperato. Entrambi personaggi, sia l’Io (Diderot) sia il Lui (il nipote del grande Jean Philippe Rameau) sono le due voci di una stessa persona, che attacca e si difende, che gioca con pirotecniche e paradossali apologie del vizio e scoraggiate esortazioni alla virtù. Forse per – la sua sconcertante crudezza – Diderot fin che visse non volle mai che fosse pubblicato, tanto che solo nel 1805 venne alla ribalta attraverso la traduzione che Goethe operò di una copia dell’originale pervenutogli chissà come tra le mani a Weimar. Soltanto nel 1890 siamo entrati in possesso della versione originale dalla quale Lavia con Adriano Calzolari ha tratto il testo del suo spettacolo, ora riproposto al Teatro Quirino dopo la prima edizione di quindici anni fa.
Gabriele Lavia regista ed interprete (nel personaggio di Rameau), insieme con Mauro Paladini (Diderot), realizza con questo lavoro un’impresa eccezionale. Tutta la sua abilità di attore e di istrione si armonizzano con eleganza, inducendo nel pubblico un amaro divertimento. La voce estremamente duttile diventa realtà fisica che invade tutto il corpo, talvolta pare scaturirgli addirittura dalle mani o dai piedi e, specularmente, sono le membra e il corpo tutto che si fanno voce, saltellante, strascicata, liquida e secca, morbida e sferzante, vetrosa e umorale, espressione di un’interiorità che si spande sulla scena invadendola e sommergendo ogni cosa, fino a lasciare l’uomo e la marionetta inerti e svuotati dal trionfo virtuosistico che si è ancora una volta riprodotto. Contro questo profluvio che lo travolge, Mauro Paladini tiene saldamente in pugno il personaggio, specchio e contrario, partner che valorizza ogni segnale che gli viene porto per favorire il gioco di squadra di una coppia che tenta di riprodurre un aspetto del mondo, di ieri e di oggi.
Le scene dello stesso Lavia e di Claudia Cosenza sintetizzano questo mondo in una scacchiera e alcuni manichini; mentre le musiche di Giorgio Camini danno profondità sonora e coloriti emotivi adeguati.

In un improvvisato «ridotto» del teatro dei Satiri, dividendo lo spazio col bancone del bar, due giovani simpatici attori pugliesi, si esibiscono su di un’angusta pedana in uno spettacolino cabaret ironico e gradevole.
Paolo De Vita e Mimmo Mancini sanno anche suonare con garbo tastiera e sassofono, canticchiano piacevolmente e poi si danno gran da fare con lazzi e frizzi di ogni genere. L’umorismo è quello un po’ sempliciotto che ricorda la televisione, però con Non venite mangiati i due riescono ad offrire un’ora di divertimento sincero.
Ci pare che l’intenzione dominante. sia quella di smentire i luoghi comuni; poi c’è una sorta di impegno anti-razzistico e sociale con le macchiette dei fratelli Carlo e Cosimo Capitoni, emarginati pugliesi cui fanno sleale concorrenza ancora più emarginati albanesi.
Particolarmente efficace abbiamo però, fra tutte, trovato la scenetta dei due birilli da bowling; non tanto per il facile simbolismo della condizione dell’umanità oppressa e fatta bersaglio di troppi colpi, quanto per l’andamento surreale che i due riescono a prendere.
Tutto sembra fatto molto in casa; ma ciò non suoni necessariamente a biasimo; anzi ci pare una bella dimostrazione di affiatamento quella dei due col regista Manrico Gammarota, il musicista Bungaro e il costumista R. Inzillo.
Vorremmo aggiungere un «codicillo»: l’idea di far sedere ai tavolini il pubblico dandogli l’opportunità di ordinare da bere è antichissima, come pensata teatrale, e noi la troviamo opportuna anche in questo caso; ma ci piacerebbe che chi si occupa di questo aspetto dello spettacolo fosse maggiormente preparato alla «professione» e non si limitasse ad offrire più o meno colorati intrugli senza senso e con cattivi sapori!

Psicoanalisi contro n. 73 – In groppa all’asino

sabato, 1 giugno 1991

A molti è noto il breve apologo che narra della Madonna, di S.Giuseppe e di Gesù Bambino che, con il loro asinello stavano andandosene al mercato. Nel primo tratto di strada era sul somaro la Madonna, ma la gente che li vedeva passare mormorava: «Che cosa indegna che una donna nel fiore delle forze e degli anni lasci camminare nella polvere il vecchio marito e il figlioletto!» Così che il vecchio Giuseppe prese il posto in groppa all’animale e procedettero per un secondo pezzo di strada, ma ancora chi li vedeva mormorava: «Che vergognosa cosa vedere un uomo comodamente a cavalcioni del suo somaro che lascia la fragile sposa e il tenero bambino affannarglisi dietro sulla strada sconnessa!» Fu allora fatto sedere sull’asinello il Bambin Gesù, ma la gente ancora trovò da ridire su quel ragazzino che lasciava irriguardosamente i genitori trascinarsi nella calura, stando comodamente a cavalcioni! Anche quando i tre decisero di salire insieme sull’asino ci fu chi compianse la povera bestia! E persino qualcuno li derisero quando lasciata in pace la cavalcatura tutti e tre le camminavano a fianco: «Che ridicoli a scarpinare, con l’animale lì a disposizione!»
Tutti sappiamo che così va il mondo: c’è sempre qualcuno che deve trovare a ridire su ciò che gli altri fanno, e non è neppur detto che siano sempre critiche infondate. Comunque sia, non è sempre facile districarsi dall’intreccio dei commenti e dei suggerimenti spesso malevoli, petulanti, interessati. Un giorno un ragazzo che si riteneva, a torto o a ragione, molto colto, commentando alcuni miei scritti, mi disse che se pure era vero che in essi era possibile trovare stimoli interessanti, pure lo stile era troppo semplice, la troppa chiarezza dell’esposizione le toglieva ogni pretesa di scientificità; poiché a suo avviso la scienza ha bisogno anche di un’austerità di linguaggio, di un gergo tecnico che inchiodi con la sua precisione, di un’altezza di tono che riservi la comunicazione solo a chi sia veramente in grado di capirla nella sua pienezza. Un altro mio giovane lettore, più o meno a proposito degli stessi scritti, si trovò a farmi osservare che io usavo uno stile troppo oscuro ed espressioni eccessivamente ardite; mi faceva notare che costringo il lettore a rocamboliche evoluzioni mentali per seguire un’esposizione troppo ricca di riferimenti eruditi, di digressioni, di immagini fantasiose, di significati ambigui, di allusioni sottili. Era convinto di dovermi insomma richiamare ad una maggior semplicità. Riflettendo, devo dire che avevano ragione e torto entrambi: a mio giudizio io uso forme semplici dal punto di vista linguistico e termini non eccessivamente tecnici; d’altro canto è vero che amo spaziare in più campi, fare riferimenti ad argomenti che costituiscono il mio patrimonio culturale e che possono risultare oscuri per chi è concentrato invece su un settore molto specialistico; è anche vero che alcuni dei concetti che voglio illustrare sono complessi ed hanno in sé ambiguità che possono risultare inquietanti e difficilmente comprensibili. Sono però convinto di avere una scrittura leggibile anche ai livelli più semplici di acculturazione, di non mascherare con termini esoterici o troppo specialistici il mio pensiero. A distanza di tempo ancora penso ai miei due giovani «critici» e se da un canto non mi va di liquidare le loro osservazioni come superficiali o malevole, d’altro canto proprio perché le rispetto mi rendo conto che hanno il loro valore e che altri appunti ancora potrebbero venirmi mossi; ma non per questo debbo affannarmi ad inseguire tutti i miei ipotetici critici cercando di compiacere i loro gusti, fino a perdere quello che, anche con determinazione, voglio che sia il mio «stile».
È molto importante imparare ad ascoltare gli altri, dare il giusto peso alle critiche, ma non si deve diventarne vittime, anche accettando la realtà di fatto che non è facile saper quanto si sia nel giusto. La critica può essere stimolante oltre che distruttiva, sincera anzi che malevola, lungimirante piuttosto che gretta. Non bisogna però cadere nella tentazione della polemica fine a se stessa.

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Leggendo testi specialistici di psicologia dinamica mi è capitato spesso di trovare da parte degli autori due posizioni principali ed opposte tra loro. Alcuni sostengono l’importanza di corredare esposizioni teoriche con la trattazione dei casi clinici, completi di sogni e di interpretazioni, sulla traccia di quanto fecero effettivamente i primi scrittori della psicodinamica, come Freud e Jung, che accompagnavano le loro teorizzazioni con la narrazione di molti casi di «terapia vissuta». Basti a questo proposito ricordare i cinque famosi casi clinici di Sigmund Freud, che , raggruppati, formano un «corpus» completo. Non è neppure il caso qui di affrontare il problema di quanto Freud «inventasse» la propria casistica terapeutica ai fini dell’esposizione e del supporto delle proprie teorie. Sappiamo che l’alterazione dei dati e spesso addirittura l’invenzione delle casistiche servono a corredare le conclusioni di molte ricerche cosiddette «sperimentali», quando diventa importante far «tornare i conti» ad ogni costo. Il cammino della ricerca scientifica ha dovuto anche pagare questo scotto di disonestà.
Gli autori del secondo gruppo criticano aspramente la tendenza dei primi all’aneddotica dei casi clinici, fantasiosamente arricchita di annotazioni curiose, di interpretazioni, di sogni significativi e relative illuminanti interpretazioni. In proposito costoro fanno notare che già il materiale del sogno è abbondantemente alterato dal paziente che lo riferisce e che ancora manomesso diventa dal terapeuta che ne vuole proporre la sua lettura, su cui si rovesceranno infine le proiezioni del lettore, per cui in tanto trambusto, è impossibile che un «caso» sia affine a ciò che veramente è stato.
Quest’ultima osservazione mi ha fatto molto riflettere ed anche ha creato in me qualche disagio: lì per lì, sembrerebbero queste argomentazioni determinanti; ma approfondendo il problema si vede che la reticenza in proposito è più che altro segno della vigliaccheria del ricercatore. Già da tempo i ricercatori nel campo delle scienze «esatte» come la matematica e la fisica ci hanno insegnato che anche il più preciso degli strumenti, altera in qualche modo i risultati, influenzandoli attraverso il «filtro» costituito dalle sue modalità di rilevazione, che permarranno per quanto si possano perfezionare gli strumenti medesimi. Una realtà con caratteristiche proprie che è destinata a costituire sempre un diaframma se pur sottilissimo tra il ricercatore e la «sua» verità. Per cui solo la vigliaccheria trattiene il teorico della psicodinamica dall’accettare che la propria verità sia soggetta ai condizionamenti degli strumenti di rilevazione e di lettura dei fenomeni che sono oggetto del suo studio. È assolutamente vero che il non detto e che il frainteso influenzano enormemente il materiale di studio; ma anzi è proprio in questo fraintendimento che consiste la chiave di lettura che necessariamente accompagna l’osservazione di ogni fenomeno e che in questo caso costituisce il tracciato teorico su cui si vuole avviare l’interpretazione psicoanalitica e la pratica terapeutica che questa implica. Io ritengo che nel non dire, nel non raccontare (proprio nel senso in cui si racconta una favola) c’è il rischio di precludere ogni sviluppo futuro alla psicoanalisi, intesa come scienza. È proprio la pretesa di una impossibile oggettività, che si rifiuta di assumere la responsabilità della cifra di lettura, che si radica l’impossibilità di una comunicazione scientificamente valida. Solo l’accettazione dello scacco che necessariamente accompagna ogni pretesa di oggettività assoluta dà alla comunicazione una possibilità reale, che rende viva e utile la teorizzazione scientifica. Si può solo accettare di narrare quello che è stato frutto di un’esperienza e sperare che il lettore lo percepisca in quanto tale alla luce della propria esperienza di vita.

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Un’altra feconda osservazione, a scapito della superbia di troppo vili ricercatori è che attraverso il non detto e le interpretazioni proiettive di autori disposti al racconto e i loro lettori si smuove un ricchissimo patrimonio di idee che, proprio perché coraggiosamente messe a confronto possono costituire premesse di avanzamenti ulteriori della ricerca.
A fianco di queste considerazioni deve essere esplicitata in modo palese un’altra verità: che la psicoanalisi non può essere imparata soltanto sui libri: questo vale per essa ancora più di quanto già valga per ogni altro genere di sapere scientifico, solo parzialmente comunicabile attraverso la parola scritta. Questo a maggior ragione quando la scienza teorica sia il fondamento di una pratica che solo può essere trasmessa direttamente da qualcuno che la insegni. Nel caso della psicoanalisi ciò è ancora più inevitabile: solo l’esperienza viva di una relazione terapeutica sotto la guida di un «maestro» può rendere capaci di gestire professionalmente casi clinici la cui patologia si radica nelle profondità di un inconscio che bisogna aver imparato a conoscere in sé prima di poter supporre di saper riconoscere negli altri.

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Vengono in mente poi altre considerazioni. Se si affida lo stesso sogno all’interpretazione di tre terapeuti di diversa formazione e con diverso indirizzo psicodinamico si vedranno attribuire al sogno in questione significati diversi, magari anche molto contrastanti. Che senso bisogna allora dare alla pretesa scientificità della psicoanalisi? È vero che spesso uno stesso campione di plasma sanguigno può essere analizzato con risultati diversi da differenti laboratori, ma quasi certamente a causa di errori facilmente accertabili di qualcuno degli analisti; ma queste considerazioni valgono solo in parte, infatti anche in questo caso accade che la difformità dei risultati abbia la sua ragion d’essere nella diversa impostazione teorica che induce i ricercatori a predisporre le macchine in un modo piuttosto che in un altro ed a leggerne i risultati dando maggiore o minor valore ad alcune piuttosto che ad altre indicazioni che ne emergono. Nel caso delle scuole psicodinamiche il fenomeno è soltanto più accentuato e le differenziazioni semplicemente rivendicate anziché negate o minimizzate.
Ogni scuola sosterrà la maggior fondatezza ed organicità del proprio sistema metapsicologico, la maggior efficacia terapeutica. Ma nessuna sarà capace di chiarire incontrovertibilmente il significato ultimo dell’uomo, di salute e di malattia psichica. In fondo tutte le metapsicologie psicodinamiche possono essere considerate valide, perché tutte sono in grado forse di mettere in luce qualche aspetto della persona umana. A questo punto si potrebbe obiettare che allora qualunque delirante ipotesi avrebbe un suo valore metapsicologico e questo è quanto di più lontano ci sia dal mio pensiero; alla luce soprattutto dell’esperienza passata negli ospedali psichiatrici dove ho visto fiorire le teorie più ardite e stravaganti, formulate da medici e da pazienti, a spese della dignità umana. Era molto facile liquidare come insensati i casi estremi; come quello del vecchio medico impazzito che mi teneva per ore inchiodato nel padiglione a sentirlo illustrare la sua teoria che gli permetteva, seguendo pochi segni indicatori, di tracciare sulla epidermide dei soggetti sotto osservazione, il nome della malattia che li affliggeva, risolvendo in modo prodigioso e definitivo i problema delle diagnosi. Quante altre volte i confini tra logico ed assurdo sono invece tanto impalpabili che è quasi impossibile distinguere tra la bizzarria fantastici e l’ipotesi clinicamente audace? La saggistica letta fino ad oggi e molti incontri scontri con studiosi delle più diverse discpline mi hanno insegnato quanto sia problematico ed arbitrario dare giudizi definitivi.

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Tutte le argomentazioni fin qui riportate potrebbero dare fin troppa soddisfazione a quelli che io ho chiamato con una punta di derisione «teorici vili», certi ormai non solo dell’impossibilità di riferire obiettivamente un caso clinico, ma anche dell’assurdità di ogni riflessione basata sull’esperienza. Invece a mio avviso il coraggio dello scienziato sta proprio nell’assumersi le responsabilità della propria visione del mondo, dalla quale necessariamente dipendono anche le convinzioni scientifiche e le metodologie operative.

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Una cosa a questo punto è importante aggiungere: non è in ogni caso possibile che si verifichi sperimentalmente la situazione di tre terapeuti di diverso orientamento che si pongano il problema di analizzare in una identica seduta, per così dire «in laboratorio», lo stesso momento, o sogno, della stessa storia clinica. Se infatti si dovesse sottoporre tre volte un identico copione a tre terapeuti diversi non si avrebbero in ogni i caso tre vere «sedute» di psicoanalisi; perché ogni seduta si realizza soltanto attraverso il rapporto assolutamente irripetibile che ogni volta si stabilisce tra paziente e terapeuta, assolutamente non riproducibile attraverso nessun tipo di trascrizione scritta o audiovisiva. Ogni seduta è una storia a se stante e ogni diversità di interpretazione corrisponderebbe quindi anche ad una diversità oggettiva della situazione clinica sperimentata. Quindi sarebbero tre diverse sedute anche se gli psicoanalisti si uniformassero ad uno stesso principio metapsicologico.

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Apparentemente sto continuando a fare il gioco di chi vuole privilegiare una comunicazione oggettiva il più possibile slegata dalla pratica personale e che cerchi in una formulazione teorica oggettiva e neutrale il proprio fondamento quanto più universale possa essere. Invece io intendo portare le stesse argomentazioni a difesa del mio punto di vista, solidale con quanti nella contraddittoria ambiguità della pratica quotidiana e della soggettività delle interpretazioni vedono il senso migliore della scienza e la sua più autentica possibilità di comunicazione.
Gli scritti dei teorici puri, o meglio «vili» mi sembrano essere soltanto schemi calati sulla realtà degli individui, formule prive di reale significato in confronto alla ricchezza di contenuti del mondo. La scienza ha i suoi contenuti più autentici proprio nella quotidiana realtà degli individui e dei gruppi sociali, fatta di sogni e di desideri, di gioie e di sofferenze che debbono essere percepite e comunicate anche attraverso il racconto che è possibile farne. Terapeuti e pazienti possono in questo modo mettere a disposizione il frutto di un lavoro prolungato, fornendo indicazioni, suggerendo ipotesi, lasciando intravedere intuizioni. In questo modo lo scienziato resta figura viva e di carne, non imbalsamata nella parola fissata sulla carta; certo meno infallibile, ma più vero, più vicino all’uomo su cui l’altro pretende solo di teorizzare.

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È vero che né in un caso né nell’altro si evita definitivamente il rischio di perdersi, come si era perso quel medico pazzo che voleva scrivere sulla pelle del mio braccio il nome delle mie malattie. Viltà e delirio sono le avvisaglie di un male profondo in agguato. La sovrapposizione delle difese narcisistiche e sadomasochistiche porta alla follia, che consegue alla rinuncia alla lotta, alla -comunicazione. Il coraggio di non chiudersi nelle difese, di non rinunciare alla comunicazione, di esporsi alla critica, di rinunciare alle certezze è piuttosto raro. Il coraggio uno non se lo può dare, diceva il parroco pusillanime di manzoniana memoria. Forse per questo molti vigliacchi di oggi travestono la propria viltà di alterigia pseudo-scientifica, di fumo retorico.

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Continuo dopo tutte queste mie considerazioni, ad essere convinto che la verità sia una; irraggiungibile purtropp dall’uomo e anche dallo scienziato, che hanno però il dovere di andarne alla ricerca, nel tentativo di avvicinarlesi il più possibile, poiché per quanto «oltre», pure essa non è mai «altrove», rispetto alla realtà dell’uomo. Compito della scienza è cercare di avvicinarsi indefinitamente, nella convinzione che essa è possibile. La verità permea di sé anche l’aspetto più quotidiano della vita che in questo senso non ne sta più lontano di quanto possa sperare di giungere la più avanzata delle speculazioni scientifiche.

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Ripeto ancora una volta il mio atto di fede nella verità unica ed irraggiungibile. Per questo credo che le mie ipotesi cliniche si avvicinino ad essa più di altre e voglio sperare che saprei riconoscere quelle che ad essa eventualmente si avvicinassero ancor di più delle mie. Sono convinto della necessità di adottare un principio interpretativo della realtà e dell’uomo, pur nella consapevolezza di quanto ci sia anche di illusorio in ciò.

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Una paziente mi raccontò questo sogno: «Mi trovavo in montagna, era notte, c’erano tante stelle. Ero felice. Camminavo per un sentiero luminosissimo, ad un tratto m’imbattei in una cappellina di quelle tipiche di certi paesaggi alpini da cartolina. Però dietro la facciata della chiesa c’era solo il vuoto. Ad un tratto, chinandomi per raccogliere un fiore persi l’equilibrio, ondeggiavo spaventata, temendo di precipitare, quando mi svegliai.»
Per prima cosa le domandai se mi avesse davvero raccontato tutto del sogno, e lei sinceramente mi rispose che aveva almeno cercato di farlo per quanto era in grado.
Davvero quella donna aveva sognato solo quello che mi aveva raccontato, quante sfumature nuove aveva creato nel narrarmelo e quante ne aveva perse del sogno originale? Chi si provi a tentarne un’interpretazione, tra quanti stanno leggendo, malgrado la mancanza in questo caso di libere associazioni, si accorgerà che nel tentativo di interpretazione lo farà proprio. Adesso parrà più chiaro il senso delle due opposte critiche mossemi dai miei due lettori, di cui ho riferito all’inizio. Sembra tutto molto semplice: si racconta un sogno, si immagina che voglia dire qualcosa, che si comunichi questa interpretazione ad altri con maggiore o minore fecondità interpretativa; ma in ogni caso questa non sarà mai chiara per altri come lo è per me. Quello che vale per il sogno resta valido per tutti gli altri concetti e idee che cerco di comunicare, che per quanto chiari in me, saranno diversamente oscuri per gli altri.
La conclusione non sta a me di trarla: so solo che persino la paziente che mi ha raccontato quel sogno sorriderà leggendo come l’ho riferito, senza sapere bene perché. Parlare agli altri ci espone alla loro critica, questo è giusto, anche se fa soffrire.