73 – Giugno ‘91

giugno , 1991

Quello che oggi si chiama ristorante Parioli (da Domenico) in viale Parioli 103 è un locale dalla storia tormentata. Prima quella villa e quel giardino videro i fasti effimeri di una diva di regime; poi assistettero al succedersi di gestioni diverse e sfortunate di che! e ristoratori di varia fama e grandezza. Ultimo arrivato è Domenico, qui reduce da un precedente esercizio in altro settore pariolino. La formula vuole essere quella, per troppi versi ambigua, del «ristorante di pesce».
In nome del pesce, soprattutto a Roma, si celebrano ogni giorno riti gastronomici che vanno dall’esaltante allo squallido; non solo il pesce, buono e fresco, è merce raramente reperibile; ma inoltre abbisogna di tali e tante sapienti cure, di compagni di piatto di qualità eccelsa e di sensibilità straordinaria; così che là dove la determinazione non si accompagna al talento il pesce viene umiliato e ridotto a pretesto di untuose tavolate maleodoranti, di aglio bruciato, di pastelle sfatte, di limonate sovrabbondanti a coprire fumi e sprofumi.
Prima di affrontare un po’ più in dettaglio l’esame di ciò che abbiamo mangiato, per dovere di informazione non possiamo tace- .
re sullo squallore inenarrabile dell’ambiente: tavoli mal apparecchiati con stoviglie dozzinali, affollati da una clientela sguaiata avvolta nel fumo delle sigarette, donnone che berciano ed ometti che bevono.
Noi che siamo curiosissimi facciamo anche molto caso alle ordinazioni dei nostri vicini di tavolo e anche questa volta abbiamo osservato successioni di portate inconcepibili e abbinamenti deliranti, tutte piaghe che ovviamente non affliggono solo questo ristorante, ma che trovano qualche volta da parte delle gestioni incuranti notevole incoraggiamento e quasi istigazione.
Appena salita la scaletta che porta al primo piano siamo stati accolti da persone distratte e scostanti; con grande disagio abbiamo ascoltato un cameriere dall’à plomb non proprio ineccepibile nei toni grigietti di camicia e giacchetta, bofonchiarci una possibile scelta di piatti e di vini. Di carta non è apparsa traccia nemmeno davanti alle nostre evidenti perplessità. Ci siamo ritrovati ad iniziare con un desolante antipasto «alla credenza» di verdure appassite e pescetti insapori; con la «perla» disgustosa di un’ostrica, ridotta ad un grumetto molliccio di pan pesto gratinato ed unto.
Il risotto alla pescatora, scotto e sfatto, emanava un odore sgradevole di sciacquatura; gli spaghetti agli scampi, offrivano resti di crostacei sommersi di oleoso e rossastro condimento, che intrideva tutti i sensi; un’ineliminabile impressione che ci accompagnerà a lungo nella vita ci ha fatto però il piatto di spaghetti all’astaco: sulla pasta impregnata di aglio bruciato, gran quantità di vuote carcasse nascondevano un solo e dimenticato brandello di polpa, così microscopico da non poter essere classificato né per il genere né per il sapore. Rapidamente abbiamo cercato di superare lo scoglio di un fritto di calamari e gamberi, fatto come non si deve; una pausa in tanto stress gustativo ha poi costituito un rombo al forno, non manipolato da alcuno, ma perversamente accompagnato da dolciastre patate grevi e sfatte.
I dolci di bassa pasticceria che abbiamo sperimentato sono stati una pastiera napoletana e una torta al cioccolato. Ci siamo rigenerati con fragoline di bosco «nature» e cognac di buona marca.
Per quel che riguarda i vini diremo solo che, vincendo la resistenza passiva del giovanotto così restio a farci partecipi dei tesori della sua cantina, abbiamo bevuto prima un Greco di Tufo di Mastroberardino, pallido epigono sulla scena contemporanea di quelli che furono i fasti di quel vino e di quel produttore; ed un sorprendente Roero Arneis dai delicati sentori di mela ed uva spina, armonico e già a buon punto nonostante la giovanissima età, che non disturbava.
A questo proposito lamentiamo pubblicamente la recente tendenza dei produttori ed esercenti ad offrire al consumo vini giovanissimi, in genere dell’ultima vendemmia (entrambe le bottiglie cui abbiamo accennato erano del 1990) ancor prima che siano maturi.
Stanchi ed affranti a fine pasto ci siamo rapidamente affrettati all’uscita, appena confortati da un conto non eccessivamente elevato.