73 – Giugno ‘91

giugno , 1991

Tutti sanno quale importanza abbia avuto l’Enciclopedia, non solo per il secolo dei «lumi». Diderot ne fu tra i principali animatori, il più dedito e perseverante. Sebbene le censure e le reticenze, inevitabili per quel tempo, ne abbiano fatto un mito, noi pensiamo che l’immane opera non abbia in realtà mai rappresentato quel monumento di sovversione e ribellione della cultura e del gusto agli stantii schemi preesistenti. Nei suoi «articoli», nelle sue molte «voci», c’è persino troppo «buon senso». In quei volumi si ritrova, più che gli squilli di Marte della Rivoluzione, l’annuncio dell’imminente quieto vivere, appena un po’ osé, della pavida borghesia del Direttorio. Non abbiamo certo la spudoratezza di dire che siano libricini di devozione; ne riconosciamo l’importanza sociale e politica, ma secondo noi, se ne trae con molta facilità quella morale perbenista che la farà da padrone presso la neonata borghesia post-rivoluzionaria. Noi personalmente detestiamo sia, quel tartufismo borghese di cui gli illuministi sono stati vessilliferi, sia la vigliacca violenza della dittatura giacobina. Certo è che il mondo va avanti soprattutto in questo modo: grandi idee retoriche sbandierate dagli uni e dagli altri, miserevoli realtà che di queste si fan scudo. Nel suo libello Il nipote di Rameau, il padre dell’Enciclopedia si abbandona ad uno sfogo amaro grottesco e disperato. Entrambi personaggi, sia l’Io (Diderot) sia il Lui (il nipote del grande Jean Philippe Rameau) sono le due voci di una stessa persona, che attacca e si difende, che gioca con pirotecniche e paradossali apologie del vizio e scoraggiate esortazioni alla virtù. Forse per – la sua sconcertante crudezza – Diderot fin che visse non volle mai che fosse pubblicato, tanto che solo nel 1805 venne alla ribalta attraverso la traduzione che Goethe operò di una copia dell’originale pervenutogli chissà come tra le mani a Weimar. Soltanto nel 1890 siamo entrati in possesso della versione originale dalla quale Lavia con Adriano Calzolari ha tratto il testo del suo spettacolo, ora riproposto al Teatro Quirino dopo la prima edizione di quindici anni fa.
Gabriele Lavia regista ed interprete (nel personaggio di Rameau), insieme con Mauro Paladini (Diderot), realizza con questo lavoro un’impresa eccezionale. Tutta la sua abilità di attore e di istrione si armonizzano con eleganza, inducendo nel pubblico un amaro divertimento. La voce estremamente duttile diventa realtà fisica che invade tutto il corpo, talvolta pare scaturirgli addirittura dalle mani o dai piedi e, specularmente, sono le membra e il corpo tutto che si fanno voce, saltellante, strascicata, liquida e secca, morbida e sferzante, vetrosa e umorale, espressione di un’interiorità che si spande sulla scena invadendola e sommergendo ogni cosa, fino a lasciare l’uomo e la marionetta inerti e svuotati dal trionfo virtuosistico che si è ancora una volta riprodotto. Contro questo profluvio che lo travolge, Mauro Paladini tiene saldamente in pugno il personaggio, specchio e contrario, partner che valorizza ogni segnale che gli viene porto per favorire il gioco di squadra di una coppia che tenta di riprodurre un aspetto del mondo, di ieri e di oggi.
Le scene dello stesso Lavia e di Claudia Cosenza sintetizzano questo mondo in una scacchiera e alcuni manichini; mentre le musiche di Giorgio Camini danno profondità sonora e coloriti emotivi adeguati.

In un improvvisato «ridotto» del teatro dei Satiri, dividendo lo spazio col bancone del bar, due giovani simpatici attori pugliesi, si esibiscono su di un’angusta pedana in uno spettacolino cabaret ironico e gradevole.
Paolo De Vita e Mimmo Mancini sanno anche suonare con garbo tastiera e sassofono, canticchiano piacevolmente e poi si danno gran da fare con lazzi e frizzi di ogni genere. L’umorismo è quello un po’ sempliciotto che ricorda la televisione, però con Non venite mangiati i due riescono ad offrire un’ora di divertimento sincero.
Ci pare che l’intenzione dominante. sia quella di smentire i luoghi comuni; poi c’è una sorta di impegno anti-razzistico e sociale con le macchiette dei fratelli Carlo e Cosimo Capitoni, emarginati pugliesi cui fanno sleale concorrenza ancora più emarginati albanesi.
Particolarmente efficace abbiamo però, fra tutte, trovato la scenetta dei due birilli da bowling; non tanto per il facile simbolismo della condizione dell’umanità oppressa e fatta bersaglio di troppi colpi, quanto per l’andamento surreale che i due riescono a prendere.
Tutto sembra fatto molto in casa; ma ciò non suoni necessariamente a biasimo; anzi ci pare una bella dimostrazione di affiatamento quella dei due col regista Manrico Gammarota, il musicista Bungaro e il costumista R. Inzillo.
Vorremmo aggiungere un «codicillo»: l’idea di far sedere ai tavolini il pubblico dandogli l’opportunità di ordinare da bere è antichissima, come pensata teatrale, e noi la troviamo opportuna anche in questo caso; ma ci piacerebbe che chi si occupa di questo aspetto dello spettacolo fosse maggiormente preparato alla «professione» e non si limitasse ad offrire più o meno colorati intrugli senza senso e con cattivi sapori!