74 – Giugno ‘91

giugno , 1991

Il recente rilancio in Polonia della crociata anti-abortista da parte di papa Giovanni Paolo II e il discorso di Martelli al congresso socialista di Bari sembrano aver riaperto un problema che è ormai obsoleto e che ha per questione apparente quella della liceità dell’intervento di una guida religiosa sulla vita civile dei popoli e delle nazioni. Insiste Claudio Martelli: «Non è certo l’immortale cristianesimo il bersaglio della mia critica, ma è solo il temporalismo e l’intolleranza che trasuda da alcune repliche. Tenere fermo il confine tra politica e religione non è mancare di rispetto né alla Chiesa né al Papa né tanto meno alla coscienza religiosa (…) Nei più evoluti Stati arabi l’uso della religione per fini politici è vietato. Ci costringeranno a pensarci anche in Italia?» Forse sarebbe il caso di dire a Martelli e a tutti quelli che vorrebbero limitare alle questioni della metafisica l’insegnamento delle Chiese, di quella Cattolica e del Papa nel caso specifico, che non si può tenere, neppure per motivi elettorali, il piede in due scarpe. L’insegnamento religioso è sempre, per sua natura «integralista»; chi si propone come mediatore tra Dio e l’uomo non può presupporre limite di alcun genere alla propria missione di proselitismo. È vero che le coscienze individuali e la loro espressione collettiva, articolata in codici legislativi, possono legittimamente rifiutare ogni tipo di acquiescenza ai principi religiosi, quando non li abbiano presi esplicitamente a fondamento delle loro stesse norme costitutive. Quello che gli individui ed i governanti non possono però pretendere è di avere salva l’anima sulla base dei principi enunciati dalla fede il cui magistero vogliamo limitare (sia essa di qualunque confessione). Bisogna quindi accettare con coraggio quella «scomunica» che pure subirono in un passato non lontano regimi che credettero di prescindere da ogni religione positiva e addirittura da ogni ipotesi teistica. L’ateo non deve rispondere su questa terra del suo rifiuto di Dio; ma chi si dichiara credente, deve anche precisare se la sua fede è personale o si identifica in quella professata da una religione «riconosciuta». Chi non è cattolico risponderà solo alla sua coscienza di alcune decisioni in merito all’aborto o all’eutanasia, alla vita sessuale o morale; chi afferma di esseri o non può contravvenire i precetti fondamentali e non può porre limiti alla missione pastorale. Chi critica la morale della Chiesa cattolica deve accettare di esserne fuori e lottare, caso mai, perché le cose cambino. Se sarà stato nel giusto, Dio non sarà così incomprensivo: ma il rischio va corso di non godere di alcun «ombrello protettivo». L’aborto è condannato dalla Chiesa cattolica, come l’eutanasia, come ogni aspetto della sessualità che non si attenga ad una castità che non solo è imposta fuori dal Sacramento del matrimonio, ma anche tra gli sposi. Ogni uomo rimane però libero di comportarsi secondo coscienza e in conformità delle leggi dello Stato di cui è membro con pienezza di diritti. Si può criticare la Chiesa di Roma perché ha rimosso con la sessualità un aspetto fondamentale dell’esistenza umana; si può legiferare in modo che la piaga degli aborti clandestini sia mitigata dal controllo delle istituzioni; ma si deve accettare di non essere «dentro» la Chiesa e che ogni limitazione della sua azione pastorale sia un gesto di repressione, un attacco alla libertà di insegnamento e di religione. Tutto questo beninteso va detto con la consapevolezza che sempre due pesi e due misure hanno regolato i rapporti tra Stati e religioni: una religione debole può subire le leggi dello Stato per quanto ciò sia ingiusto; uno Stato debole subirà l’imposizione religiosa anche se questo offenderà le libertà più elementari, e anche questo è ingiusto.