Psicoanalisi contro n. 73 – In groppa all’asino

giugno , 1991

A molti è noto il breve apologo che narra della Madonna, di S.Giuseppe e di Gesù Bambino che, con il loro asinello stavano andandosene al mercato. Nel primo tratto di strada era sul somaro la Madonna, ma la gente che li vedeva passare mormorava: «Che cosa indegna che una donna nel fiore delle forze e degli anni lasci camminare nella polvere il vecchio marito e il figlioletto!» Così che il vecchio Giuseppe prese il posto in groppa all’animale e procedettero per un secondo pezzo di strada, ma ancora chi li vedeva mormorava: «Che vergognosa cosa vedere un uomo comodamente a cavalcioni del suo somaro che lascia la fragile sposa e il tenero bambino affannarglisi dietro sulla strada sconnessa!» Fu allora fatto sedere sull’asinello il Bambin Gesù, ma la gente ancora trovò da ridire su quel ragazzino che lasciava irriguardosamente i genitori trascinarsi nella calura, stando comodamente a cavalcioni! Anche quando i tre decisero di salire insieme sull’asino ci fu chi compianse la povera bestia! E persino qualcuno li derisero quando lasciata in pace la cavalcatura tutti e tre le camminavano a fianco: «Che ridicoli a scarpinare, con l’animale lì a disposizione!»
Tutti sappiamo che così va il mondo: c’è sempre qualcuno che deve trovare a ridire su ciò che gli altri fanno, e non è neppur detto che siano sempre critiche infondate. Comunque sia, non è sempre facile districarsi dall’intreccio dei commenti e dei suggerimenti spesso malevoli, petulanti, interessati. Un giorno un ragazzo che si riteneva, a torto o a ragione, molto colto, commentando alcuni miei scritti, mi disse che se pure era vero che in essi era possibile trovare stimoli interessanti, pure lo stile era troppo semplice, la troppa chiarezza dell’esposizione le toglieva ogni pretesa di scientificità; poiché a suo avviso la scienza ha bisogno anche di un’austerità di linguaggio, di un gergo tecnico che inchiodi con la sua precisione, di un’altezza di tono che riservi la comunicazione solo a chi sia veramente in grado di capirla nella sua pienezza. Un altro mio giovane lettore, più o meno a proposito degli stessi scritti, si trovò a farmi osservare che io usavo uno stile troppo oscuro ed espressioni eccessivamente ardite; mi faceva notare che costringo il lettore a rocamboliche evoluzioni mentali per seguire un’esposizione troppo ricca di riferimenti eruditi, di digressioni, di immagini fantasiose, di significati ambigui, di allusioni sottili. Era convinto di dovermi insomma richiamare ad una maggior semplicità. Riflettendo, devo dire che avevano ragione e torto entrambi: a mio giudizio io uso forme semplici dal punto di vista linguistico e termini non eccessivamente tecnici; d’altro canto è vero che amo spaziare in più campi, fare riferimenti ad argomenti che costituiscono il mio patrimonio culturale e che possono risultare oscuri per chi è concentrato invece su un settore molto specialistico; è anche vero che alcuni dei concetti che voglio illustrare sono complessi ed hanno in sé ambiguità che possono risultare inquietanti e difficilmente comprensibili. Sono però convinto di avere una scrittura leggibile anche ai livelli più semplici di acculturazione, di non mascherare con termini esoterici o troppo specialistici il mio pensiero. A distanza di tempo ancora penso ai miei due giovani «critici» e se da un canto non mi va di liquidare le loro osservazioni come superficiali o malevole, d’altro canto proprio perché le rispetto mi rendo conto che hanno il loro valore e che altri appunti ancora potrebbero venirmi mossi; ma non per questo debbo affannarmi ad inseguire tutti i miei ipotetici critici cercando di compiacere i loro gusti, fino a perdere quello che, anche con determinazione, voglio che sia il mio «stile».
È molto importante imparare ad ascoltare gli altri, dare il giusto peso alle critiche, ma non si deve diventarne vittime, anche accettando la realtà di fatto che non è facile saper quanto si sia nel giusto. La critica può essere stimolante oltre che distruttiva, sincera anzi che malevola, lungimirante piuttosto che gretta. Non bisogna però cadere nella tentazione della polemica fine a se stessa.

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Leggendo testi specialistici di psicologia dinamica mi è capitato spesso di trovare da parte degli autori due posizioni principali ed opposte tra loro. Alcuni sostengono l’importanza di corredare esposizioni teoriche con la trattazione dei casi clinici, completi di sogni e di interpretazioni, sulla traccia di quanto fecero effettivamente i primi scrittori della psicodinamica, come Freud e Jung, che accompagnavano le loro teorizzazioni con la narrazione di molti casi di «terapia vissuta». Basti a questo proposito ricordare i cinque famosi casi clinici di Sigmund Freud, che , raggruppati, formano un «corpus» completo. Non è neppure il caso qui di affrontare il problema di quanto Freud «inventasse» la propria casistica terapeutica ai fini dell’esposizione e del supporto delle proprie teorie. Sappiamo che l’alterazione dei dati e spesso addirittura l’invenzione delle casistiche servono a corredare le conclusioni di molte ricerche cosiddette «sperimentali», quando diventa importante far «tornare i conti» ad ogni costo. Il cammino della ricerca scientifica ha dovuto anche pagare questo scotto di disonestà.
Gli autori del secondo gruppo criticano aspramente la tendenza dei primi all’aneddotica dei casi clinici, fantasiosamente arricchita di annotazioni curiose, di interpretazioni, di sogni significativi e relative illuminanti interpretazioni. In proposito costoro fanno notare che già il materiale del sogno è abbondantemente alterato dal paziente che lo riferisce e che ancora manomesso diventa dal terapeuta che ne vuole proporre la sua lettura, su cui si rovesceranno infine le proiezioni del lettore, per cui in tanto trambusto, è impossibile che un «caso» sia affine a ciò che veramente è stato.
Quest’ultima osservazione mi ha fatto molto riflettere ed anche ha creato in me qualche disagio: lì per lì, sembrerebbero queste argomentazioni determinanti; ma approfondendo il problema si vede che la reticenza in proposito è più che altro segno della vigliaccheria del ricercatore. Già da tempo i ricercatori nel campo delle scienze «esatte» come la matematica e la fisica ci hanno insegnato che anche il più preciso degli strumenti, altera in qualche modo i risultati, influenzandoli attraverso il «filtro» costituito dalle sue modalità di rilevazione, che permarranno per quanto si possano perfezionare gli strumenti medesimi. Una realtà con caratteristiche proprie che è destinata a costituire sempre un diaframma se pur sottilissimo tra il ricercatore e la «sua» verità. Per cui solo la vigliaccheria trattiene il teorico della psicodinamica dall’accettare che la propria verità sia soggetta ai condizionamenti degli strumenti di rilevazione e di lettura dei fenomeni che sono oggetto del suo studio. È assolutamente vero che il non detto e che il frainteso influenzano enormemente il materiale di studio; ma anzi è proprio in questo fraintendimento che consiste la chiave di lettura che necessariamente accompagna l’osservazione di ogni fenomeno e che in questo caso costituisce il tracciato teorico su cui si vuole avviare l’interpretazione psicoanalitica e la pratica terapeutica che questa implica. Io ritengo che nel non dire, nel non raccontare (proprio nel senso in cui si racconta una favola) c’è il rischio di precludere ogni sviluppo futuro alla psicoanalisi, intesa come scienza. È proprio la pretesa di una impossibile oggettività, che si rifiuta di assumere la responsabilità della cifra di lettura, che si radica l’impossibilità di una comunicazione scientificamente valida. Solo l’accettazione dello scacco che necessariamente accompagna ogni pretesa di oggettività assoluta dà alla comunicazione una possibilità reale, che rende viva e utile la teorizzazione scientifica. Si può solo accettare di narrare quello che è stato frutto di un’esperienza e sperare che il lettore lo percepisca in quanto tale alla luce della propria esperienza di vita.

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Un’altra feconda osservazione, a scapito della superbia di troppo vili ricercatori è che attraverso il non detto e le interpretazioni proiettive di autori disposti al racconto e i loro lettori si smuove un ricchissimo patrimonio di idee che, proprio perché coraggiosamente messe a confronto possono costituire premesse di avanzamenti ulteriori della ricerca.
A fianco di queste considerazioni deve essere esplicitata in modo palese un’altra verità: che la psicoanalisi non può essere imparata soltanto sui libri: questo vale per essa ancora più di quanto già valga per ogni altro genere di sapere scientifico, solo parzialmente comunicabile attraverso la parola scritta. Questo a maggior ragione quando la scienza teorica sia il fondamento di una pratica che solo può essere trasmessa direttamente da qualcuno che la insegni. Nel caso della psicoanalisi ciò è ancora più inevitabile: solo l’esperienza viva di una relazione terapeutica sotto la guida di un «maestro» può rendere capaci di gestire professionalmente casi clinici la cui patologia si radica nelle profondità di un inconscio che bisogna aver imparato a conoscere in sé prima di poter supporre di saper riconoscere negli altri.

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Vengono in mente poi altre considerazioni. Se si affida lo stesso sogno all’interpretazione di tre terapeuti di diversa formazione e con diverso indirizzo psicodinamico si vedranno attribuire al sogno in questione significati diversi, magari anche molto contrastanti. Che senso bisogna allora dare alla pretesa scientificità della psicoanalisi? È vero che spesso uno stesso campione di plasma sanguigno può essere analizzato con risultati diversi da differenti laboratori, ma quasi certamente a causa di errori facilmente accertabili di qualcuno degli analisti; ma queste considerazioni valgono solo in parte, infatti anche in questo caso accade che la difformità dei risultati abbia la sua ragion d’essere nella diversa impostazione teorica che induce i ricercatori a predisporre le macchine in un modo piuttosto che in un altro ed a leggerne i risultati dando maggiore o minor valore ad alcune piuttosto che ad altre indicazioni che ne emergono. Nel caso delle scuole psicodinamiche il fenomeno è soltanto più accentuato e le differenziazioni semplicemente rivendicate anziché negate o minimizzate.
Ogni scuola sosterrà la maggior fondatezza ed organicità del proprio sistema metapsicologico, la maggior efficacia terapeutica. Ma nessuna sarà capace di chiarire incontrovertibilmente il significato ultimo dell’uomo, di salute e di malattia psichica. In fondo tutte le metapsicologie psicodinamiche possono essere considerate valide, perché tutte sono in grado forse di mettere in luce qualche aspetto della persona umana. A questo punto si potrebbe obiettare che allora qualunque delirante ipotesi avrebbe un suo valore metapsicologico e questo è quanto di più lontano ci sia dal mio pensiero; alla luce soprattutto dell’esperienza passata negli ospedali psichiatrici dove ho visto fiorire le teorie più ardite e stravaganti, formulate da medici e da pazienti, a spese della dignità umana. Era molto facile liquidare come insensati i casi estremi; come quello del vecchio medico impazzito che mi teneva per ore inchiodato nel padiglione a sentirlo illustrare la sua teoria che gli permetteva, seguendo pochi segni indicatori, di tracciare sulla epidermide dei soggetti sotto osservazione, il nome della malattia che li affliggeva, risolvendo in modo prodigioso e definitivo i problema delle diagnosi. Quante altre volte i confini tra logico ed assurdo sono invece tanto impalpabili che è quasi impossibile distinguere tra la bizzarria fantastici e l’ipotesi clinicamente audace? La saggistica letta fino ad oggi e molti incontri scontri con studiosi delle più diverse discpline mi hanno insegnato quanto sia problematico ed arbitrario dare giudizi definitivi.

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Tutte le argomentazioni fin qui riportate potrebbero dare fin troppa soddisfazione a quelli che io ho chiamato con una punta di derisione «teorici vili», certi ormai non solo dell’impossibilità di riferire obiettivamente un caso clinico, ma anche dell’assurdità di ogni riflessione basata sull’esperienza. Invece a mio avviso il coraggio dello scienziato sta proprio nell’assumersi le responsabilità della propria visione del mondo, dalla quale necessariamente dipendono anche le convinzioni scientifiche e le metodologie operative.

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Una cosa a questo punto è importante aggiungere: non è in ogni caso possibile che si verifichi sperimentalmente la situazione di tre terapeuti di diverso orientamento che si pongano il problema di analizzare in una identica seduta, per così dire «in laboratorio», lo stesso momento, o sogno, della stessa storia clinica. Se infatti si dovesse sottoporre tre volte un identico copione a tre terapeuti diversi non si avrebbero in ogni i caso tre vere «sedute» di psicoanalisi; perché ogni seduta si realizza soltanto attraverso il rapporto assolutamente irripetibile che ogni volta si stabilisce tra paziente e terapeuta, assolutamente non riproducibile attraverso nessun tipo di trascrizione scritta o audiovisiva. Ogni seduta è una storia a se stante e ogni diversità di interpretazione corrisponderebbe quindi anche ad una diversità oggettiva della situazione clinica sperimentata. Quindi sarebbero tre diverse sedute anche se gli psicoanalisti si uniformassero ad uno stesso principio metapsicologico.

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Apparentemente sto continuando a fare il gioco di chi vuole privilegiare una comunicazione oggettiva il più possibile slegata dalla pratica personale e che cerchi in una formulazione teorica oggettiva e neutrale il proprio fondamento quanto più universale possa essere. Invece io intendo portare le stesse argomentazioni a difesa del mio punto di vista, solidale con quanti nella contraddittoria ambiguità della pratica quotidiana e della soggettività delle interpretazioni vedono il senso migliore della scienza e la sua più autentica possibilità di comunicazione.
Gli scritti dei teorici puri, o meglio «vili» mi sembrano essere soltanto schemi calati sulla realtà degli individui, formule prive di reale significato in confronto alla ricchezza di contenuti del mondo. La scienza ha i suoi contenuti più autentici proprio nella quotidiana realtà degli individui e dei gruppi sociali, fatta di sogni e di desideri, di gioie e di sofferenze che debbono essere percepite e comunicate anche attraverso il racconto che è possibile farne. Terapeuti e pazienti possono in questo modo mettere a disposizione il frutto di un lavoro prolungato, fornendo indicazioni, suggerendo ipotesi, lasciando intravedere intuizioni. In questo modo lo scienziato resta figura viva e di carne, non imbalsamata nella parola fissata sulla carta; certo meno infallibile, ma più vero, più vicino all’uomo su cui l’altro pretende solo di teorizzare.

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È vero che né in un caso né nell’altro si evita definitivamente il rischio di perdersi, come si era perso quel medico pazzo che voleva scrivere sulla pelle del mio braccio il nome delle mie malattie. Viltà e delirio sono le avvisaglie di un male profondo in agguato. La sovrapposizione delle difese narcisistiche e sadomasochistiche porta alla follia, che consegue alla rinuncia alla lotta, alla -comunicazione. Il coraggio di non chiudersi nelle difese, di non rinunciare alla comunicazione, di esporsi alla critica, di rinunciare alle certezze è piuttosto raro. Il coraggio uno non se lo può dare, diceva il parroco pusillanime di manzoniana memoria. Forse per questo molti vigliacchi di oggi travestono la propria viltà di alterigia pseudo-scientifica, di fumo retorico.

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Continuo dopo tutte queste mie considerazioni, ad essere convinto che la verità sia una; irraggiungibile purtropp dall’uomo e anche dallo scienziato, che hanno però il dovere di andarne alla ricerca, nel tentativo di avvicinarlesi il più possibile, poiché per quanto «oltre», pure essa non è mai «altrove», rispetto alla realtà dell’uomo. Compito della scienza è cercare di avvicinarsi indefinitamente, nella convinzione che essa è possibile. La verità permea di sé anche l’aspetto più quotidiano della vita che in questo senso non ne sta più lontano di quanto possa sperare di giungere la più avanzata delle speculazioni scientifiche.

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Ripeto ancora una volta il mio atto di fede nella verità unica ed irraggiungibile. Per questo credo che le mie ipotesi cliniche si avvicinino ad essa più di altre e voglio sperare che saprei riconoscere quelle che ad essa eventualmente si avvicinassero ancor di più delle mie. Sono convinto della necessità di adottare un principio interpretativo della realtà e dell’uomo, pur nella consapevolezza di quanto ci sia anche di illusorio in ciò.

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Una paziente mi raccontò questo sogno: «Mi trovavo in montagna, era notte, c’erano tante stelle. Ero felice. Camminavo per un sentiero luminosissimo, ad un tratto m’imbattei in una cappellina di quelle tipiche di certi paesaggi alpini da cartolina. Però dietro la facciata della chiesa c’era solo il vuoto. Ad un tratto, chinandomi per raccogliere un fiore persi l’equilibrio, ondeggiavo spaventata, temendo di precipitare, quando mi svegliai.»
Per prima cosa le domandai se mi avesse davvero raccontato tutto del sogno, e lei sinceramente mi rispose che aveva almeno cercato di farlo per quanto era in grado.
Davvero quella donna aveva sognato solo quello che mi aveva raccontato, quante sfumature nuove aveva creato nel narrarmelo e quante ne aveva perse del sogno originale? Chi si provi a tentarne un’interpretazione, tra quanti stanno leggendo, malgrado la mancanza in questo caso di libere associazioni, si accorgerà che nel tentativo di interpretazione lo farà proprio. Adesso parrà più chiaro il senso delle due opposte critiche mossemi dai miei due lettori, di cui ho riferito all’inizio. Sembra tutto molto semplice: si racconta un sogno, si immagina che voglia dire qualcosa, che si comunichi questa interpretazione ad altri con maggiore o minore fecondità interpretativa; ma in ogni caso questa non sarà mai chiara per altri come lo è per me. Quello che vale per il sogno resta valido per tutti gli altri concetti e idee che cerco di comunicare, che per quanto chiari in me, saranno diversamente oscuri per gli altri.
La conclusione non sta a me di trarla: so solo che persino la paziente che mi ha raccontato quel sogno sorriderà leggendo come l’ho riferito, senza sapere bene perché. Parlare agli altri ci espone alla loro critica, questo è giusto, anche se fa soffrire.