Archivio di maggio 1991

73 – Maggio ‘91

mercoledì, 1 maggio 1991

Sia quelli che oggi ci invitano a votare «sì» in risposta ad un referendum che propone l’abrogazione dell’attuale legge elettorale, in particolare per quel che si riferisce al numero delle preferenze da assegnare ad ogni lista; sia coloro che ci invitano a votare «no» o a scansare la noiosa bisogna scegliendo come alternativa un’allegra gitarella fuori porta, sembrano in ogni caso volerci confermare quello che fino ad oggi è stato un tremendo sospetto, sempre però smentito dalla classe politica che si divide il potere e il contropotere nel Palazzo. Se infatti gli elettori cui fino ad oggi sono state indicate le «terne» di preferenze all’interno delle varie liste elettorali sono stati veramente «condizionati al rispetto del ‘consiglio’ dall’esercizio spesso, non solo del potere di intimidazione delle centrali criminali ma anche dallo spregiudicato uso delle funzioni pubbliche e dei poteri istituzionali» (cfr. W Veltroni, Paese sera, 2/6/91), ne consegue che protagonisti e antagonisti della scena politica istituzionale sono, non solo dei cialtroni, ma molto più precisamente dei criminali, per azione diretta o mediata. Mandanti cioè di delitti veri che vanno dall’omicidio al furto aggravato, all’estorsione e alla strage.

Altro che seconda repubblica quindi! Quale costituzione inefficace o tradita? Quale manipolazione dei mezzi di comunicazione? Due assemblee legislative risulterebbero alla luce di tali elementari quanto reiterate denunce composte per intero di – non solo potenziali delinquenti. Fino ad estendere il contagio agli altri poteri dello Stato: esercito e magistratura. Non una mafia che si sostituisce allo Stato, ma uno Stato che realizza in toto i progetti mafiosi facendoli propri.

E ci scuserà chi è convinto che non di questo italico paese si parli ma di «qualche nazione sudamericana» (cfr. S. Fontana, ibidem). Corrotti siamo quindi anche noi, se questo abbiamo permesso si costruisse in quarantacinque anni di democrazia parlamentare. Capaci solo di risposte qualunquistiche, come la protesta imbelle di cui queste stesse righe sono esempio minuscolo nella loro velleitarietà; o – peggio – di sanguinarie parodie delittuose di rivoluzione che hanno affidato per anni all’uso indiscriminato del piombo il compito di rendere giustizia.

Per quanto certi che questo sia «il peggiore degli stati possibili», non possiamo quindi fidarci né di chi ci invita all’ennesima correzione parziale di un sistema tanto degenerato; né di chi ci propone di lasciare le cose come stanno, in attesa di quella «grande riforma» che segnerà infine la svolta.

Per questo acquista oggi significato politico la progressiva disgregazione dei partiti che non si deve limitare come si vorrebbe far credere ad una rotazione dei ruoli, ad una alternativa delle potenzialità di rappresentanza; e tantomeno ad una logica «regionalista» che trasferisca gli stessi criteri in ambiti locali, omogenei magari per dialetto e censo.

E importante infatti che si strutturi un recupero di autonomia decisionale. Per quanto possano far sorridere sono proprio le piccole unità «autarchiche», culturali ed economiche, una possibilità – tra poche altre – di prendere le distanze dalla delinquenza politica. Progetti, questi, sicuramente minimi; ma che possono soccorrere le coscienze, anche là dove manchi il coraggio di affidarsi ad una Provvidenza certo più efficace, ma oggi tanto compromessa dagli innumerevoli manzoniani Padri Provinciali, che usurpano il ruolo di mediatori tra la Giustizia e l’uomo.

72 – Maggio ‘91

mercoledì, 1 maggio 1991

Il Teatro dell’Opera di Roma ha tentato di risollevare le sorti di un’incerta stagione, mettendo in scena un allestimento interessante dell’opera di Francis Poulenc, su libretto di Georges Bernanos, in lingua originale: Dialogues des Carmélites.

In questo caso non si può tacere dell’importanza del libretto, che noi consideriamo una delle espressioni più alte della poesia, filosofia e drammaturgia del nostro secolo. Storie personali, che si inseriscono nella vicenda storica della rivoluzione francese; il cui terrore raggiunge le monache rinchiuse nel convento di Compiègne. Ecco gli ultimi giorni della vecchia Madre Superiora, che, dopo aver trascorso tutta la vita a riflettere sulla morte; quando l’ora estrema giunge non sa avere altra reazione che quella, umanissima, di paura e di incomprensione davanti a quello che le appare un assurdo. La storia poi di Bianca de la Force, che al convento chiede riparo dal mondo da cui fugge; per fuggire poi anche di lì, inseguita dalla propria paura, che saprà però vincere proprio al momento ultimo, quando, lasciando esterrefatta la folla assiepata sulla piazza del patibolo, aggiungerà il suo canto a quello dell’ultima consorella, stroncato dalla lama, per avviarsi a sua volta alla ghigliottina. La figura pratica e coraggiosa del padre cappellano; quella eroica e tenera della nuova superiora; il tormento interiore di Madre Maria dell’Incarnazione e le storie di tutte le altre monache sulle cui labbra fioriscono meditazioni profondissime e frasi di ingenuità disarmante. La grandezza dei perseguitati diventa emblematica e sottolinea la crudeltà di ogni violenza, anche di quella che si riempie la bocca di rivendicazioni assolute di eguaglianza, fraternità e libertà. Violenza agita da vere e proprie marionette del destino.

Bernanos trasse liberamente il suo testo da un racconto di Gertrude von Le Fort, per farne la sceneggiatura di un film che non fu mai realizzato, testo che, musicato da Poulenc, vide la luce alla Scala di Milano nel 1957.

La musica del grande compositore francese aderisce al libretto con una perfezione mirabile, perché, se per un verso sviscera alcune atmosfere sospese di mistico realismo, per un altro aggiunge ai dialoghi intensità che li portano su sentieri nemmeno sospettabili.

Raramente come in quest’opera si capisce che sebbene potrebbero esistere altre centinaia di rivestimenti musicali, belli, brutti, efficaci o inutili; però l’opera d’arte consiste proprio nell’unica occasione di unione in cui la musica riesce a vivificare la parola rendendola unica, libera e prigioniera di quelle note, che non possono essere che quelle, anche se avrebbero potuto essere mille altre.

Poulenc con un gesto di rispettosa umiltà sacrale, riesce a liberarsi quasi del tutto delle sue pur stupende e graffianti aggressioni sonore; talvolta sature di scarna ironia. Alcuni maestri del passato sono presenti o presentissimi: Debussy, Massenet, Mussorsky, ed anche il realismo pucciniano. Le melodie sono tese, lunghe e struggenti; oppure concise e drammatiche, altre ancore sono prosastiche o meditative.

Non vi sono mai fratture: le atmosfere cambiano il convento, il mondo, la trascendenza e la rabbia giacobine sanno costruire un contrappunto sapientissimo. Tutte le scene sono collegate da quei meravigliosi «interludi» che danno la cifra di ciò che avverrà e commentano. La raffinatezza estrema dell’orchestrazione non toglie nulla alla possibilità di coinvolgimento immediato dell’ascoltatore. La direzione di lan Latham Koenig è stata in ogni momento impeccabile ed equilibratissima; Patricia Schuman assolve il ruolo di Bianca con una voce limpida e misurata, anche nelle punte drammatiche, fin dalla prima scena in cui il personaggio si presenta con una melodia ampia e delicata; diventando poi efficace nel duetto verista e variato con il fratello, il tenore Claudio Di Segni, onesto e corretto. Margarita Zimmermann è la vecchia Priora dalla voce profonda e ricca di coloriti, con bei momenti di abbandono; cui fa pendant Mietta Sighele, la nuova Priora, vocalmente limpida e volitiva, e dal bel fraseggio. Sumi Jo dà la sua voce frizzante ed inquieta alla giovane Suor Costanza. Diane Curry svolge bene il suo compito di rendere le tormentate sfumature di Madre Maria dell’Incarnazione, prima con affermazioni perentorie che si stemperano poi in una progressiva incertezza spirituale che la voce asseconda con ampie articolazioni.

Diego D’ Auria serve bene il personaggio del Cappellano con una voce sicura e commossa.

La regia di Alberto Fassini ci è parsa solo a tratti sicura, anche se ha saputo dare momenti di partecipazione emotiva. Le scene e i costumi di Pasquale Grossi non si sono discostati da una sobria ed economica efficacia, specialmente nelle ambientazioni del Carmelo.

72 – Maggio ‘91

mercoledì, 1 maggio 1991

Il film di Daniele Luchetti: Il portaborse, non è un film polemico, non è neppure di condanna o di denuncia, non svela verità nascoste; è solo una piccola commediola all’italiana, ovvia nel suo banale sentimentalismo. Su tutto aleggia uno squallore da bric-à-brac e tutti gli interpreti recitano imperdonabilmente male. I due protagonisti: l’onorevole e il portaborse sono due personaggi assolutamente inverosimili. Nanni Moretti, il primo, ha l’aria patetica parrocchial-lacrimosa; non riesce a rendere per nulla l’idea di un aggressivo e cinico politicante. Silvio Orlando, nel ruolo melenso del professorino, non riesce meglio. Non c’è credibilità psicologica o realistica in quell’approssimativo insegnante di lettere che mal conosce la sua materia e che d’improvviso si trasforma in uno scriba dei potenti, figura che neppure oggi coincide con quella del portaborse. La fidanzatina, impersonata da Angela Finocchiaro, e il giornalista fallito che ha i tratti di Giulio Brogi, paiono assolutamente pleonastici. Il primo tempo è tutto un andirivieni di ovvii, se pur veri, misfatti politici, raccontati a spezzoni brevi, di taglio televisivo e di tono moralistico. Nella seconda parte forse il ritmo narrativo si fa più disteso e me no caotico; vengono fuori i drammi dei singoli personaggi, su cui viene versato fin troppo miele.
Noi siamo molto stupiti che un filmetto di «costume» così insignificante e simile a mille altri abbia destato così tanto interesse: su di esso si sprecano fiumi di inchiostro e dibattono voci autorevoli. Il quesito sconvolgente è: «Il personaggio protagonista è o non è Bettino Craxi?» Per fortuna la nostra satira di costume non si riduce a questo: basti pensare all’arguzia icastica del primo Dario Fo di tanti anni fa. Allora forse ci si commuoveva, si ironizzava, si vedeva qualcuno capace di mettere il dito nella piaga dei nostri costumi con grande e spietata arte. La politica da allora non è cambiata: gli artisti e gli attori, veri e meno veri, parlano sempre, ma l’astuzia della ragione deve continuare ad ordire le sue trame. Noi, da vecchi illusi, speriamo che qualcosa domani cambierà e la denuncia non sarà più patrimonio di filmacci di regime, veri fiori all’occhiello di tanta pseudo-democrazia.

72 – Maggio ‘91

mercoledì, 1 maggio 1991

Enrico Baj, pittore nato a Milano nel 1924, ha fondato con alcuni compagni di percorso il «Movimento Arte Nucleare» e risulta l’unico firmatario di un «Manifesto per un futurismo statico» del 1983.
Non chiedeteci la spiegazione dei termini, perché non siamo in grado di darvela.
Senza dubbio noi siamo crassamente ignoranti, però, come possa il «futuro» anche se «ismo» essere statico non lo capiamo.
Invece se vi volete divertire con un gioco intelligente e di buon gusto andate alla Galleria Rondanini dove è allestita la mostra Dal Paradiso Perduto al Giardino delle delizie. Gli specchi esplodono e incrostano grandi superfici scintillanti. Oggetti di bigiotteria e passamaneria si arrampicano e si stendono su visioni oscillanti tra Disney e Picasso. Ragazzotti e ragazzotte ignude, un po’ bambocci e un po’ aggressivi giocano con frasche, serpenti, mele e divinità. Ovviamente un mondo di questo genere non poteva che perdere il Paradiso e contentarsi di un Giardino delle delizie un po’ hollywoodiano.
Nonostante ciò pensiamo che Milton, se pur cieco, avrebbe accettato questo proliferare di immagini, perché non sono mai sciocche. La loro essenza è arguta, variopinta e allegra. Qua e là qualche arresto meditativo non disturba, anzi permette una piacevole sosta al pensiero. I denigra tori propensi a dire che questa pittura è piuttosto una cartellonistica pubblicitaria per la moda, sbagliano: l’arte può anche essere serena e un po’ ovvia. Quando però Baj si impegna rivela doti artigianali ottime e una buona capacità costruttiva, oltre che un evidente desiderio di comunicazione.

Che Berlino sia giustamente oggi al centro dell’attenzione generale è un fatto scontato. Dal Nazismo al Comunismo mezza città, come mezza Germania, ha conosciuto la mancanza di libertà d’espressione anche artistica. Del resto era prevedibile che l’arte dei transfughi intendesse farsi percepire come rottura e protesta.
Per cui sconvolge non poco che nella prima occasione che ci viene data di vedere insieme giovani artisti delle due Germanie, riuniti in un solo spazio espositivo al Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, essi vengano a proporci ancora una volta L’ordine delle cose. Questo per una sgradevole assonanza con concetti di «ordine» di ingrata memoria. Turba però che osservando e visitando si veda in essi e nelle loro opere un’ordinata intenzione di rientrare «nei ranghi» di una concezione artistica, «povera» e «concettuale», irrimediabilmente vecchia nel suo gusto «atlantico» tanto caro a chi, a suo tempo, decretò nei musei d’America e d’Europa il successo dell’ingenuo antropologismo sociale di Joseph Beuys.
Livellati da un bisogno esasperato di essere “up to date” i giovani artisti tedeschi si presentano come plotone indistinto ad una sola dimensione. Installazioni, collage, assemblaggi, pitture e sculture esprimono solo la frantumazione di coscienze indifese che hanno scambiato per arte il loro disorientamento psichico. Un’arte che non ha qualità artigiane di manipolazione dei materiali, quasi sempre vincenti di per sé sull’intenzione di chi vorrebbe dirigerli a qualche uso. La mostra sarebbe più significativa quale saggio riassuntivo di una didattica montessoriana, se alcuni degli espositori non fossero trentenni.

72 – Maggio ‘91

mercoledì, 1 maggio 1991

L’angelo nero di Antonio Tabucchi (Feltrinelli, Milano 1991, pagg. 152, Lit. 20.000) è una raccolta di sei racconti. La lettura del primo: Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa, ci aveva favorevolmente impressionati. In una Pisa surreale ed umida, un tale rincorre una voce. Le atmosfere sono inquietanti e rarefatte, il passato e il presente si mescolano con garbo. Un sottile mistero ed un’impalpabile ansia pervadono il racconto, finché il protagonista giunge in cima alla torre in un brivido si vertigini. Nel secondo racconto: Note, mare o distanza, la voce di Tadeus si reincarna nella figura di un vecchio poeta. che parla nella notte ad alcuni giovani. La dittatura Salazarista incombe, nuovamente si mescolano presente e passato e le fantasie sono raccontate come fatti che avvengono lì per lì. Però già il narrare si è fatto più stanco, ovvio, scontato. La situazione letteraria si deteriora quando l’autore vi inserisce anche elementi di surreale umorismo, da raccontino mitteleuropeo. Una flaccida volgarità si insinua dappertutto. L’autore ricorre sempre agli stessi trucchi e trovatine. Scialbo e noioso si rivela anche l’ultimo racconto: La trota che guizza fra le pietre mi ricorda la tua vita.
Qui alcune atmosfere sono nuovamente rese con sensualità ed efficacia, ma il tutto non si risolve che in una ripetitiva sequela di analogie. Un libretto che si può leggere rapidamente, con un lieve velo di noia, durante un viaggio in treno.

Denis Gaita, psicoanalista e musicista, nel suo saggio Il pensiero del cuore (Bompiani 1991, pagg. 143, Lit. 30.000), vuole parlare di musica, inconscio e simbolo, rimanendo leggermente al di fuori del linguaggio verbale. A parte la confusione metodologica che opera tra i vari linguaggi, lo sforzo è quanto mai encomiabile. Noi non siamo in grado di giudicare se abbia o non abbia ottenuto il suo scopo. Con lui ci sentiamo polemici, ma riconosciamo che molte sue frasi ed affermazioni, seppure buttate qua e là un po’ alla rinfusa, ci hanno fatto pensare, il che è moltissimo.
Le prime pagine iniziano schematizzando in modo forse troppo semplice il rapporto tra «segno» e «significato». Noi pensiamo che il segno non abbia mai un significato univoco: è un gesto, un’espressione corporea, un accordo che non può legittimamente essere imprigionato. In tutte le pagine della prima parte del saggio l’autore manifesta una grande paura del linguaggio parlato, che addirittura finisce col confondere col linguaggio tout-court. Per noi la musica, il simbolo, l’inconscio sono veri e propri linguaggi non verbali. Il linguaggio nella sua essenza più vera si struttura nel desiderio che si articola in una successione di domande e risposte travestite da segni che sono linguistici, pur non essendo parole. Ci pare qualche volta che Gaita riscopra l’acqua calda quando per esempio analizza i due diversi significati delle acciaccature nelle sinfonie Praga e Jupiter di Mozart, concludendo che «La musica non ha vocabolario». Questo vale anche per lo psicanalese arido e convenzionale delle interpretazioni psicoanalitiche, che comunque non riusciranno mai a ridurre la ricchezza della psicoanalisi. La musica secondo noi non ha un linguaggio «verbale», ma non è vero che non abbia un suo vocabolario, che travalica quello di ogni altra forma espressiva, quotidiana o artistica. La musica non è intraducibile, semplicemente è «ineffabile». Si può tradurre anche in parole la Patetica di Beethoven, ma semplicemente le parole non bastano a comprenderla. Il linguaggio non si dirige inoltre solo dall’esterno verso di noi, ma viene anche ricreato da chi lo ascolta. La terzina dantesca che inizia con «Nel mezzo del cammin di nostra vita…» fa scervellare critici e lettori non solo per la difficoltà di capirne il significato all’interno del poema, ma perché si conclude con un’immagine che travalica quella di una «selva oscura» intesa come agglomerato contorto e folto di alberi.
Tutto è traducibile proprio allo stesso modo in cui nulla è traducibile. Il merito principale di Gaita è quello di avvertirci che per quanto si possa parlare di musica essa resterà sempre «oltre». Poi, senza reale giustificazione, Gaita giunge a parlare del simbolo nel cinema di Hitchcock, mescolandolo e sovrapponendolo al «detto – non detto» della musica: «Il simbolo è la forma felice che fa pensare qualcosa di un’etica senza parlarne» (p. 98). Simbolo-immagine-musica ruotano su di un perno indefinito che confonde però, più che chiarire, le idee a chi legge. È vero che ci sono simboli espliciti, consapevoli e simboli impliciti, ma dei primi si è già parlato sin troppo; dei secondi invece non si dice niente; mentre sarebbero le vere presenze inquietanti. Lo psicoanalista è di nuovo, come sempre accade, caduto ancora una volta nella prigionia dei discorsi verbali, senza neppure accorgersene.

72 – Maggio ‘91

mercoledì, 1 maggio 1991

Ci sono locali che ad un primo sguardo non ispirano fiducia; ma il guaio è quando la diffidenza iniziale viene confermata in modo clamoroso dall’esperienza incautamente tentata nella speranza di scoprire chissà quale gioiello nascosto. Così è accaduto a noi quando siamo passati davanti al ristorante-pizzeria La mangiatoia in via Dei due ponti 153, nella fascia informe di città e campagna che disordinatamente si affolla di costruzioni, tra la Flaminia e la Cassia.
Eravamo stati avviati sulla cattiva strada da un amico che ci aveva detto, con umile perentorietà: «Lì non si mangia davvero male». Gli tiriamo pubblicamente le orecchie.
Il luogo è triste e lo abbiamo già detto; gli avventori sono immondi imprenditori con telefonino «cellulare» in una mano e ovviamente la sigaretta nell’altra; il grande stanzone è gelido e scostante; quel che è peggio: i cibi sono inverecondi. Hanno un solo merito, ammesso che in questi casi sia tale: la smisurata quantità delle porzioni.
Gli antipasti alla credenza sono gelidi, bruciati, stantii, mollicci e senza sapore, gli gnocchi al gorgonzola sarebbero stati la disperazione di un avventore con dentiera che sarebbe rimasta irrimediabilmente incollata sa un impiastro di plastificate caramelle «mou», sugli spaghetti alle cozze si è operato un miracolo che ha suddiviso il piatto in una metà rovente ed un’altra ghiacciata, come se fossero stati reinseriti in un forno a microonde per una rapida dissurgelazione; il risotto agli scampi, stracotto, pareva insaporito con zucchero; il vitello alle noci era formato da una quantità immensa di scaloppine bruciate, cosparse da una segatura alla panna; l’ossobuco era troppo cotto e viscido; il filetto al pepe verde era un pezzo di carne frollata dal sapore di vino mal sfumato e salatissimo. Dei dolci industriali e di pasticceria non parliamo. I vini erano tutti assolutamente imbevibili, sia il bianco toscano acido, sia il rosso Bardolino insapore come un’acqua tinta. Il prezzo non c’è parso per nulla basso, tutti gli elementi considerati.

Avete mai mangiato in una erboristeria? Non stiamo parlando di quei ristorantini vegetariani, tutti patate e mais; ma proprio di un locale che sappia intensamente di erbe, un po’ secche, un po’ fresche. Ebbene se andrete al Girone VI, di Vicolo Sinibaldi 2 (all’Argentina) avrete proprio quest’impressione. Innanzitutto c’è da chiedersi perché un tale errato riferimento dantesco: i golosi, nell’inferno di Dante, sono al terzo cerchio e il poeta ne parla al canto VI. È solo questione di numeri?
Queste considerazioni, però, non hanno alcuna importanza; se non fosse che qui la cucina è veramente impropria: menta, rosmarino, borragine, salvia e timo impazzano in ogni piatto, dando a tutti i cibi un sapore che oscilla tra la tisana e il decotto. L’ambiente vorrebbe essere chic, ma è soltanto cheap: siete serviti malamente bene, con sussiego e distrazione da una gradevole padrona di casa, un po’ troppo «signora» e un simpatico «garcon» un po’ troppo distratto. Arredi, posateria, stoviglie e apparecchio sono poveramente pretenziosi; il fatto che i commensali nei tavoli a fianco del piccolo seminterrato fumino, non è colpa della gestione del locale!
Andiamo ora dicendo quel che vi abbiamo trovato: prima antipasti di verdure caldi, bruciaticci e sommersi di aromi di sottobosco, tegamino di seppie e carciofi eccessivamente oleoso, immerso in un prato di aromi, calamari ripieni di erbe ed erbacce iper-odorose.
Poi zuppa di porri e patate insapore, liquidissima e stantia; ravioli ai carciofi dall’incerto aroma di «eau de cologne» e crespelle di branzino in cui la borragine contendeva il campo al bruciaticcio. Come piatti principali lo slavato coniglio «alle erbe», gli acquosissimi involtini di pesce spada con pinoli, uvetta e non riconosciuti «sapori erbacei» e l’insipida tasca ripiena, imbottita di indecifrabili fieni non ci hanno proprio consolati. La consolazione, piccina, ci è venuta solo con i corretti dessert, mondi d’ogni erba, ricchi di creme, cioccolata e caramello: misto di gelati al cioccolato caldo e panna cotta al Cointreau. Abbiamo in compenso bevuto veramente bene: prima un Soave classico cru vigne di Fittà dell’ottantanove e poi un Gewurtztraminer d’Alsazia dell’ottantasette, entrambi semplicemente perfetti nei loro rispettivi generi. In un simile locale dove solo le pecore dell’agro romano potrebbero trovare soddisfazione, il conto di centomila lire risulta una pesante discriminazione, anche se non siamo ben certi dei redditi di tali ovini.

72 – Maggio ‘91

mercoledì, 1 maggio 1991

Paolo Poli, da tempo immemorabile, si esibisce sulla scena italiana: arguto, colto, estroverso, maschio, femmina, fine dicitore e mezzosoprano. Tra piume e paramenti sacri, tra crinoline e boa, sguscia da un vestito per infilarsi in un’uniforme, con vorticosa e ritmica abilità. Uno dei principali pregi dei suoi spettacoli, di cui cura egli stesso la regia, è proprio lo stringersi continuo di gag, canzoni, poesie, balletti.
Con questo suo modo vorticoso di muoversi e far muovere è coerente il suo parlare, dal tipico accento toscaneggiante; escono dal suo apparecchio fonico fiumi di parole, veri e propri scioglilingua. che talvolta inducono chi ascolta a lasciarsi andare al puro suono di essi, senza tentare di comprenderne il significato, appagati di quel turbinio verbale ingioiellato sempre di rime preziose. Eppure quello che Poli dice è spesso spiritoso e per nulla inessenziale, anche se talvolta pesantemente volgare! Inoltre la realtà fisica dell’attore toscano è passata indenne attraverso gli anni: magro e allampanato, sembra sempre uguale. Ai suoi spettacoli ci si può illudere di percepire il senso dell’eternità.
Anche se gli spunti sono sempre diversi, le vicende sono tutte confezionate allo stesso modo, rafforzando l’impressione di assistere ad un solo eterno spettacolo che si dipana, forse, lungo secoli. Ciononostante l’attenzione rimane sempre desta e si sorride e anche si ride.
Nel 1942 il grande pittore e musicista Alberto Savinio dette alle stampe il volume Narrate uomini la vostra storia: una raccolta di irriverenti biografie di alcuni personaggi aulici ed «immortali», come Verdi, Gemito, Collodi, ma anche Paracelso, Isadora Duncan, Felice Cavallotti, visti con un occhio dissacrante, capace di . cogliere in ciascuno l’umana miseria in forte contrasto con la figura ideale imposta dalla cultura non solo di regime.
Come è facile capire un’occasione tanto preziosa permette a Poli e ad Ida Omboni di buttarsi a capofitto, costruendo con lo spettacolo Il coturno e la ciabatta da noi visto al Teatro Valle di Roma, una corbeille di storie strampalate, infiocchettando il tutto di tulle e nastrini: canzonette, romanze, scenette estemporanee e balletti. Tutto quanto reso con brillante fantasia dai costumi di Santuzza Cali che, nobilmente, ha saputo concedere il dovuto anche al gusto vecchiotto del travestitismo cui Poli non sa rinunciare, soddisfatto di mostrare gambette sventolanti sotto i lustrini di maliarda da bel tempo che fu.
Bene ha retto la penna di Savinio, che ha conservato in mezzo ai lazzi una sua graffiante autonomia, qua e là anche valorizzata oltre che alleggerita dall’acrobatismo vociferante dell’imperversante protagonista, ben sorretto da quattro compagni: mimi-attori-ballerini e sciantose disinvolte ed efficaci (Alfonso De Filippis, Giorgio De Vido, Marco Magno e Daniele Vitali), orchestrati dalle sapienti coreografie di Claudia Lawrence. Un contributo notevole alla piacevolezza dello spettacolo è venuto dall’intervento scenografico di Emanuele Luzzati che, attraverso una serie di fondali spiritosi, ha rivisitato le atmosfere di un’arte novecentesca, nelle quali, forte e appropriata, ritornava la suggestione dissacratoria e colta di Alberto Savinio.
La solita e brava Jacqueline Perrotin ha legato il tutto con moltissima musica: ammiccante, brillante e sinuosa, capace di costruire momenti sonori e di orchestrare (seppur coi soliti sintetizzatori tutto-fare) molti piacevoli brani di repertorio.

Se già sull’orlo della sopportabilità è lo spettacolo en travesti quando è realizzato al massimo livello dell’auto-ironia consapevole, come avviene solo in rarissimi casi, rischia di diventare del tutto insopportabile, quando esprime una negata invidia della donna.
Tango misogino di Pannullo, Pizzirani e Mari, messo in scena al Piccolo Eliseo dal «Teatro popolare di Roma» diretto da Piero Nuti, vorrebbe insegnarci come sia possibile «parlar male delle donne cantandone bene». In realtà la buona intenzione di raccogliere e riproporre tutta la satira contro le donne espressa dall’antica Grecia al Novecento rapidamente si stinge in una pavida rincorsa dietro al mito dell’eterno femminino, da parte di uomini ancor non rassegnati del tutto alla loro ingombrante virilità. Detto questo va anche detto che sulla scena si svolge un’azione in due tempi ricca di trovate e spesso intelligentemente condotta.
Fernando Pannullo e Sergio Basile sono due signori in nero, tanto volgari quanto impeccabili rappresentanti di una borghesia «distinta» che bene esprimono il modello perdente del maschio donnaiolo e vendicativo nel ribrezzo dei suoi sproloqui scatologici. Gianfranco Mari è un campione di femminilità fasulla trionfante, grazie alla sua arte mimica e canora. Peccato che in tutti si insinui, strada facendo, l’idea del «pentimento» che li vede alla fine stroncati e proni di fronte alla voce della «vera donna» irraggiungibile ideale ammonitore, cui dà suono ineffabilmente e perversamente dolce Adriana Innocenti.
Massimo Carrano alle tammorre e tamburelli è una presenza vitale anche per l’esuberante personaggio che sa costruire. Giancarlo delle Chiaie è un pianista che sa indossare le più indecenti mises femminili con la stralunata imperturbabilità un po’ funebre di un sacrestano.