72 – Maggio ‘91

maggio , 1991

Enrico Baj, pittore nato a Milano nel 1924, ha fondato con alcuni compagni di percorso il «Movimento Arte Nucleare» e risulta l’unico firmatario di un «Manifesto per un futurismo statico» del 1983.
Non chiedeteci la spiegazione dei termini, perché non siamo in grado di darvela.
Senza dubbio noi siamo crassamente ignoranti, però, come possa il «futuro» anche se «ismo» essere statico non lo capiamo.
Invece se vi volete divertire con un gioco intelligente e di buon gusto andate alla Galleria Rondanini dove è allestita la mostra Dal Paradiso Perduto al Giardino delle delizie. Gli specchi esplodono e incrostano grandi superfici scintillanti. Oggetti di bigiotteria e passamaneria si arrampicano e si stendono su visioni oscillanti tra Disney e Picasso. Ragazzotti e ragazzotte ignude, un po’ bambocci e un po’ aggressivi giocano con frasche, serpenti, mele e divinità. Ovviamente un mondo di questo genere non poteva che perdere il Paradiso e contentarsi di un Giardino delle delizie un po’ hollywoodiano.
Nonostante ciò pensiamo che Milton, se pur cieco, avrebbe accettato questo proliferare di immagini, perché non sono mai sciocche. La loro essenza è arguta, variopinta e allegra. Qua e là qualche arresto meditativo non disturba, anzi permette una piacevole sosta al pensiero. I denigra tori propensi a dire che questa pittura è piuttosto una cartellonistica pubblicitaria per la moda, sbagliano: l’arte può anche essere serena e un po’ ovvia. Quando però Baj si impegna rivela doti artigianali ottime e una buona capacità costruttiva, oltre che un evidente desiderio di comunicazione.

Che Berlino sia giustamente oggi al centro dell’attenzione generale è un fatto scontato. Dal Nazismo al Comunismo mezza città, come mezza Germania, ha conosciuto la mancanza di libertà d’espressione anche artistica. Del resto era prevedibile che l’arte dei transfughi intendesse farsi percepire come rottura e protesta.
Per cui sconvolge non poco che nella prima occasione che ci viene data di vedere insieme giovani artisti delle due Germanie, riuniti in un solo spazio espositivo al Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, essi vengano a proporci ancora una volta L’ordine delle cose. Questo per una sgradevole assonanza con concetti di «ordine» di ingrata memoria. Turba però che osservando e visitando si veda in essi e nelle loro opere un’ordinata intenzione di rientrare «nei ranghi» di una concezione artistica, «povera» e «concettuale», irrimediabilmente vecchia nel suo gusto «atlantico» tanto caro a chi, a suo tempo, decretò nei musei d’America e d’Europa il successo dell’ingenuo antropologismo sociale di Joseph Beuys.
Livellati da un bisogno esasperato di essere “up to date” i giovani artisti tedeschi si presentano come plotone indistinto ad una sola dimensione. Installazioni, collage, assemblaggi, pitture e sculture esprimono solo la frantumazione di coscienze indifese che hanno scambiato per arte il loro disorientamento psichico. Un’arte che non ha qualità artigiane di manipolazione dei materiali, quasi sempre vincenti di per sé sull’intenzione di chi vorrebbe dirigerli a qualche uso. La mostra sarebbe più significativa quale saggio riassuntivo di una didattica montessoriana, se alcuni degli espositori non fossero trentenni.