72 – Maggio ‘91

maggio , 1991

Ci sono locali che ad un primo sguardo non ispirano fiducia; ma il guaio è quando la diffidenza iniziale viene confermata in modo clamoroso dall’esperienza incautamente tentata nella speranza di scoprire chissà quale gioiello nascosto. Così è accaduto a noi quando siamo passati davanti al ristorante-pizzeria La mangiatoia in via Dei due ponti 153, nella fascia informe di città e campagna che disordinatamente si affolla di costruzioni, tra la Flaminia e la Cassia.
Eravamo stati avviati sulla cattiva strada da un amico che ci aveva detto, con umile perentorietà: «Lì non si mangia davvero male». Gli tiriamo pubblicamente le orecchie.
Il luogo è triste e lo abbiamo già detto; gli avventori sono immondi imprenditori con telefonino «cellulare» in una mano e ovviamente la sigaretta nell’altra; il grande stanzone è gelido e scostante; quel che è peggio: i cibi sono inverecondi. Hanno un solo merito, ammesso che in questi casi sia tale: la smisurata quantità delle porzioni.
Gli antipasti alla credenza sono gelidi, bruciati, stantii, mollicci e senza sapore, gli gnocchi al gorgonzola sarebbero stati la disperazione di un avventore con dentiera che sarebbe rimasta irrimediabilmente incollata sa un impiastro di plastificate caramelle «mou», sugli spaghetti alle cozze si è operato un miracolo che ha suddiviso il piatto in una metà rovente ed un’altra ghiacciata, come se fossero stati reinseriti in un forno a microonde per una rapida dissurgelazione; il risotto agli scampi, stracotto, pareva insaporito con zucchero; il vitello alle noci era formato da una quantità immensa di scaloppine bruciate, cosparse da una segatura alla panna; l’ossobuco era troppo cotto e viscido; il filetto al pepe verde era un pezzo di carne frollata dal sapore di vino mal sfumato e salatissimo. Dei dolci industriali e di pasticceria non parliamo. I vini erano tutti assolutamente imbevibili, sia il bianco toscano acido, sia il rosso Bardolino insapore come un’acqua tinta. Il prezzo non c’è parso per nulla basso, tutti gli elementi considerati.

Avete mai mangiato in una erboristeria? Non stiamo parlando di quei ristorantini vegetariani, tutti patate e mais; ma proprio di un locale che sappia intensamente di erbe, un po’ secche, un po’ fresche. Ebbene se andrete al Girone VI, di Vicolo Sinibaldi 2 (all’Argentina) avrete proprio quest’impressione. Innanzitutto c’è da chiedersi perché un tale errato riferimento dantesco: i golosi, nell’inferno di Dante, sono al terzo cerchio e il poeta ne parla al canto VI. È solo questione di numeri?
Queste considerazioni, però, non hanno alcuna importanza; se non fosse che qui la cucina è veramente impropria: menta, rosmarino, borragine, salvia e timo impazzano in ogni piatto, dando a tutti i cibi un sapore che oscilla tra la tisana e il decotto. L’ambiente vorrebbe essere chic, ma è soltanto cheap: siete serviti malamente bene, con sussiego e distrazione da una gradevole padrona di casa, un po’ troppo «signora» e un simpatico «garcon» un po’ troppo distratto. Arredi, posateria, stoviglie e apparecchio sono poveramente pretenziosi; il fatto che i commensali nei tavoli a fianco del piccolo seminterrato fumino, non è colpa della gestione del locale!
Andiamo ora dicendo quel che vi abbiamo trovato: prima antipasti di verdure caldi, bruciaticci e sommersi di aromi di sottobosco, tegamino di seppie e carciofi eccessivamente oleoso, immerso in un prato di aromi, calamari ripieni di erbe ed erbacce iper-odorose.
Poi zuppa di porri e patate insapore, liquidissima e stantia; ravioli ai carciofi dall’incerto aroma di «eau de cologne» e crespelle di branzino in cui la borragine contendeva il campo al bruciaticcio. Come piatti principali lo slavato coniglio «alle erbe», gli acquosissimi involtini di pesce spada con pinoli, uvetta e non riconosciuti «sapori erbacei» e l’insipida tasca ripiena, imbottita di indecifrabili fieni non ci hanno proprio consolati. La consolazione, piccina, ci è venuta solo con i corretti dessert, mondi d’ogni erba, ricchi di creme, cioccolata e caramello: misto di gelati al cioccolato caldo e panna cotta al Cointreau. Abbiamo in compenso bevuto veramente bene: prima un Soave classico cru vigne di Fittà dell’ottantanove e poi un Gewurtztraminer d’Alsazia dell’ottantasette, entrambi semplicemente perfetti nei loro rispettivi generi. In un simile locale dove solo le pecore dell’agro romano potrebbero trovare soddisfazione, il conto di centomila lire risulta una pesante discriminazione, anche se non siamo ben certi dei redditi di tali ovini.