72 – Maggio ‘91

maggio , 1991

L’angelo nero di Antonio Tabucchi (Feltrinelli, Milano 1991, pagg. 152, Lit. 20.000) è una raccolta di sei racconti. La lettura del primo: Voci portate da qualcosa, impossibile dire cosa, ci aveva favorevolmente impressionati. In una Pisa surreale ed umida, un tale rincorre una voce. Le atmosfere sono inquietanti e rarefatte, il passato e il presente si mescolano con garbo. Un sottile mistero ed un’impalpabile ansia pervadono il racconto, finché il protagonista giunge in cima alla torre in un brivido si vertigini. Nel secondo racconto: Note, mare o distanza, la voce di Tadeus si reincarna nella figura di un vecchio poeta. che parla nella notte ad alcuni giovani. La dittatura Salazarista incombe, nuovamente si mescolano presente e passato e le fantasie sono raccontate come fatti che avvengono lì per lì. Però già il narrare si è fatto più stanco, ovvio, scontato. La situazione letteraria si deteriora quando l’autore vi inserisce anche elementi di surreale umorismo, da raccontino mitteleuropeo. Una flaccida volgarità si insinua dappertutto. L’autore ricorre sempre agli stessi trucchi e trovatine. Scialbo e noioso si rivela anche l’ultimo racconto: La trota che guizza fra le pietre mi ricorda la tua vita.
Qui alcune atmosfere sono nuovamente rese con sensualità ed efficacia, ma il tutto non si risolve che in una ripetitiva sequela di analogie. Un libretto che si può leggere rapidamente, con un lieve velo di noia, durante un viaggio in treno.

Denis Gaita, psicoanalista e musicista, nel suo saggio Il pensiero del cuore (Bompiani 1991, pagg. 143, Lit. 30.000), vuole parlare di musica, inconscio e simbolo, rimanendo leggermente al di fuori del linguaggio verbale. A parte la confusione metodologica che opera tra i vari linguaggi, lo sforzo è quanto mai encomiabile. Noi non siamo in grado di giudicare se abbia o non abbia ottenuto il suo scopo. Con lui ci sentiamo polemici, ma riconosciamo che molte sue frasi ed affermazioni, seppure buttate qua e là un po’ alla rinfusa, ci hanno fatto pensare, il che è moltissimo.
Le prime pagine iniziano schematizzando in modo forse troppo semplice il rapporto tra «segno» e «significato». Noi pensiamo che il segno non abbia mai un significato univoco: è un gesto, un’espressione corporea, un accordo che non può legittimamente essere imprigionato. In tutte le pagine della prima parte del saggio l’autore manifesta una grande paura del linguaggio parlato, che addirittura finisce col confondere col linguaggio tout-court. Per noi la musica, il simbolo, l’inconscio sono veri e propri linguaggi non verbali. Il linguaggio nella sua essenza più vera si struttura nel desiderio che si articola in una successione di domande e risposte travestite da segni che sono linguistici, pur non essendo parole. Ci pare qualche volta che Gaita riscopra l’acqua calda quando per esempio analizza i due diversi significati delle acciaccature nelle sinfonie Praga e Jupiter di Mozart, concludendo che «La musica non ha vocabolario». Questo vale anche per lo psicanalese arido e convenzionale delle interpretazioni psicoanalitiche, che comunque non riusciranno mai a ridurre la ricchezza della psicoanalisi. La musica secondo noi non ha un linguaggio «verbale», ma non è vero che non abbia un suo vocabolario, che travalica quello di ogni altra forma espressiva, quotidiana o artistica. La musica non è intraducibile, semplicemente è «ineffabile». Si può tradurre anche in parole la Patetica di Beethoven, ma semplicemente le parole non bastano a comprenderla. Il linguaggio non si dirige inoltre solo dall’esterno verso di noi, ma viene anche ricreato da chi lo ascolta. La terzina dantesca che inizia con «Nel mezzo del cammin di nostra vita…» fa scervellare critici e lettori non solo per la difficoltà di capirne il significato all’interno del poema, ma perché si conclude con un’immagine che travalica quella di una «selva oscura» intesa come agglomerato contorto e folto di alberi.
Tutto è traducibile proprio allo stesso modo in cui nulla è traducibile. Il merito principale di Gaita è quello di avvertirci che per quanto si possa parlare di musica essa resterà sempre «oltre». Poi, senza reale giustificazione, Gaita giunge a parlare del simbolo nel cinema di Hitchcock, mescolandolo e sovrapponendolo al «detto – non detto» della musica: «Il simbolo è la forma felice che fa pensare qualcosa di un’etica senza parlarne» (p. 98). Simbolo-immagine-musica ruotano su di un perno indefinito che confonde però, più che chiarire, le idee a chi legge. È vero che ci sono simboli espliciti, consapevoli e simboli impliciti, ma dei primi si è già parlato sin troppo; dei secondi invece non si dice niente; mentre sarebbero le vere presenze inquietanti. Lo psicoanalista è di nuovo, come sempre accade, caduto ancora una volta nella prigionia dei discorsi verbali, senza neppure accorgersene.