72 – Maggio ‘91

maggio , 1991

Paolo Poli, da tempo immemorabile, si esibisce sulla scena italiana: arguto, colto, estroverso, maschio, femmina, fine dicitore e mezzosoprano. Tra piume e paramenti sacri, tra crinoline e boa, sguscia da un vestito per infilarsi in un’uniforme, con vorticosa e ritmica abilità. Uno dei principali pregi dei suoi spettacoli, di cui cura egli stesso la regia, è proprio lo stringersi continuo di gag, canzoni, poesie, balletti.
Con questo suo modo vorticoso di muoversi e far muovere è coerente il suo parlare, dal tipico accento toscaneggiante; escono dal suo apparecchio fonico fiumi di parole, veri e propri scioglilingua. che talvolta inducono chi ascolta a lasciarsi andare al puro suono di essi, senza tentare di comprenderne il significato, appagati di quel turbinio verbale ingioiellato sempre di rime preziose. Eppure quello che Poli dice è spesso spiritoso e per nulla inessenziale, anche se talvolta pesantemente volgare! Inoltre la realtà fisica dell’attore toscano è passata indenne attraverso gli anni: magro e allampanato, sembra sempre uguale. Ai suoi spettacoli ci si può illudere di percepire il senso dell’eternità.
Anche se gli spunti sono sempre diversi, le vicende sono tutte confezionate allo stesso modo, rafforzando l’impressione di assistere ad un solo eterno spettacolo che si dipana, forse, lungo secoli. Ciononostante l’attenzione rimane sempre desta e si sorride e anche si ride.
Nel 1942 il grande pittore e musicista Alberto Savinio dette alle stampe il volume Narrate uomini la vostra storia: una raccolta di irriverenti biografie di alcuni personaggi aulici ed «immortali», come Verdi, Gemito, Collodi, ma anche Paracelso, Isadora Duncan, Felice Cavallotti, visti con un occhio dissacrante, capace di . cogliere in ciascuno l’umana miseria in forte contrasto con la figura ideale imposta dalla cultura non solo di regime.
Come è facile capire un’occasione tanto preziosa permette a Poli e ad Ida Omboni di buttarsi a capofitto, costruendo con lo spettacolo Il coturno e la ciabatta da noi visto al Teatro Valle di Roma, una corbeille di storie strampalate, infiocchettando il tutto di tulle e nastrini: canzonette, romanze, scenette estemporanee e balletti. Tutto quanto reso con brillante fantasia dai costumi di Santuzza Cali che, nobilmente, ha saputo concedere il dovuto anche al gusto vecchiotto del travestitismo cui Poli non sa rinunciare, soddisfatto di mostrare gambette sventolanti sotto i lustrini di maliarda da bel tempo che fu.
Bene ha retto la penna di Savinio, che ha conservato in mezzo ai lazzi una sua graffiante autonomia, qua e là anche valorizzata oltre che alleggerita dall’acrobatismo vociferante dell’imperversante protagonista, ben sorretto da quattro compagni: mimi-attori-ballerini e sciantose disinvolte ed efficaci (Alfonso De Filippis, Giorgio De Vido, Marco Magno e Daniele Vitali), orchestrati dalle sapienti coreografie di Claudia Lawrence. Un contributo notevole alla piacevolezza dello spettacolo è venuto dall’intervento scenografico di Emanuele Luzzati che, attraverso una serie di fondali spiritosi, ha rivisitato le atmosfere di un’arte novecentesca, nelle quali, forte e appropriata, ritornava la suggestione dissacratoria e colta di Alberto Savinio.
La solita e brava Jacqueline Perrotin ha legato il tutto con moltissima musica: ammiccante, brillante e sinuosa, capace di costruire momenti sonori e di orchestrare (seppur coi soliti sintetizzatori tutto-fare) molti piacevoli brani di repertorio.

Se già sull’orlo della sopportabilità è lo spettacolo en travesti quando è realizzato al massimo livello dell’auto-ironia consapevole, come avviene solo in rarissimi casi, rischia di diventare del tutto insopportabile, quando esprime una negata invidia della donna.
Tango misogino di Pannullo, Pizzirani e Mari, messo in scena al Piccolo Eliseo dal «Teatro popolare di Roma» diretto da Piero Nuti, vorrebbe insegnarci come sia possibile «parlar male delle donne cantandone bene». In realtà la buona intenzione di raccogliere e riproporre tutta la satira contro le donne espressa dall’antica Grecia al Novecento rapidamente si stinge in una pavida rincorsa dietro al mito dell’eterno femminino, da parte di uomini ancor non rassegnati del tutto alla loro ingombrante virilità. Detto questo va anche detto che sulla scena si svolge un’azione in due tempi ricca di trovate e spesso intelligentemente condotta.
Fernando Pannullo e Sergio Basile sono due signori in nero, tanto volgari quanto impeccabili rappresentanti di una borghesia «distinta» che bene esprimono il modello perdente del maschio donnaiolo e vendicativo nel ribrezzo dei suoi sproloqui scatologici. Gianfranco Mari è un campione di femminilità fasulla trionfante, grazie alla sua arte mimica e canora. Peccato che in tutti si insinui, strada facendo, l’idea del «pentimento» che li vede alla fine stroncati e proni di fronte alla voce della «vera donna» irraggiungibile ideale ammonitore, cui dà suono ineffabilmente e perversamente dolce Adriana Innocenti.
Massimo Carrano alle tammorre e tamburelli è una presenza vitale anche per l’esuberante personaggio che sa costruire. Giancarlo delle Chiaie è un pianista che sa indossare le più indecenti mises femminili con la stralunata imperturbabilità un po’ funebre di un sacrestano.