Archivio di dicembre 1990

68 – Dicembre ‘90

sabato, 1 dicembre 1990

E’ appena diventato disegno di legge il progetto di «riforma della 180» che già più o meno disinformati cronisti si affrettano a megafonare le voci di scontento e quelle d di entusiasmo. Che una legge di per sé non possa avere i requisiti minimi per risolvere un problema come quello psichiatrico è auto-evidente. Se così non fosse la legge del 1978 avrebbe risolto i problemi della legislazione del 1904, e comunque quella avrebbe rappresentato un miglioramento indiscusso rispetto, per esempio, a quella francese del 1838. Che le leggi destinate a regolare l’istituzione psichiatrica possano esprimere di volta in volta l’adesione ad una teoria piuttosto che a un ‘altra non è neppure, in ultima analisi, un parametro su cui basarne l’efficienza. Pur convinti come siamo dell’inettitudine scientifica, oltre che storica, dell’antipsichiatria, siamo certi che una determinata volontà politica di realizzare quell’utopia avrebbe portato senz’altro ad un miglioramento della situazione a la recupero sociale del folle. Il guaio è che la volontà politica manca quando si tratta di attuare progetti minimi e pragmatici, figuriamoci se l’obiettivo è una Utopia, falsamente illuminata, per di più! Così: quale serio «Progetto di tutela della salute mentale» può essere proposto alle attuali strutture sanitarie? Se è vero che solo 11 UUSSLL su 696 hanno fino ad oggi impiantato la struttura completa di assistenza prevista nel 1978, cosa si suppone possa essere realizzato del nuovo progetto nei prossimi 12 anni? E quanto verrà omesso del pre-esistente, grazie al nuovo alibi?

Tutto questo senza tener conto dei patteggiamenti che modificheranno l’attuale disegno prima dell’approvazione definitiva (chissà quando) da parte di Camera e Senato. Non ci è mai piaciuta la legge 180, non solo perché nessuno ha mai cercato di metterla in pratica, ma perché aveva in sé la condanna all’inattuabilità. Non ci sorride l’idea che un tentativo di riforma venga preso in considerazione solo perché contiene alcune ipotesi restrittive e di contenimento, tese a salvaguardare la tranquillità di famiglie e nuclei sociali, oggi distrutti dall’impotenza e dall’inefficienza. Pensiamo comunque che ogni legge, per quanto perfettibile in eterno, debba almeno tenere conto della realtà in cui si propone. Ci accorgiamo però che la realtà italiana non è pronta per alcuna seria alternativa al Manicomio, perché ancora oggi l’isolamento del ghetto è la sola risposta che viene da tutti: dai politici come dall’opinione pubblica: per il matto, per il sieropositivo e per ogni «straniero» che si trovi nel cortile.

68 – Dicembre ‘90

sabato, 1 dicembre 1990

I divertimenti della vita privata è un film con regia, soggetto e in parte anche sceneggiatura di Cristina Comencini. La quale è riuscita a costruire un prodotto unitario, onesto e di buona fattura artigianale. Non si può certo gridare al capolavoro: il tutto infatti è un po’ troppo patinato e zuccherino. L’intreccio è sempliciotto. Le velleità culturali mostrano la corda di una cultura non eccelsa. I richiami storici sono ovvi i e buttati alla carlona. Però le scene si susseguono con un buon ritmo. Vi è abbastanza suspence. Tutto il soggetto è pervaso da un sottile umorismo. I personaggi sono disegnati con tratto sicuro e abbastanza efficace. Gli spunti socio-politici non sono presi sul serio e sono persino ironizzate le esecuzioni capitali per mezzo della ghigliottina. Dal che si capisce che la vicenda si svolge ai tempi della rivoluzione francese.
Un vecchio aristocratico libertino (cui dà corpo e voce Vittorio Gassmann) durante la prigionia nelle carceri giacobine scommette con un compagno di pena che riuscirà nonostante i suoi ottant’anni, appena uscirà dal carcere, a sedurre in modo inedito una donna: conquistandone cioè lo spirito. Di qui parte la vicenda che vede una giovane signora della nuova aristocrazia rivoluzionaria chiedere ad una prostituta che le rassomiglia moltissimo di prendere per una settimana le sue spoglie. A scambio di ruoli avvenuto succedono come è prevedibile molte peripezie che rendono piuttosto problematica la riacquisizione delle rispettive identità. La cosa si complica particolarmente per il successo che la pseudo-dama riscuote sia in famiglia, col marito e i figli, sia presso l’amante, aristocratico di belle forme e costretto alla clandestinità. Le cose si risolveranno nel migliore dei modi, con la soddisfazione anche del vecchio libertino.
Delphine Forrest che interpreta il doppio personaggio della dama e della puttana è arguta, spigliata e credibile. Si muove con grazia e, pur nella ovvia somiglianza, riesce un po’ a differenziare i due personaggi. Il marito (Giancarlo Giannini) è molto efficace, giustamente trombone, disorientato ed anche un po’ tenero, nella sua querula illusione rivoluzionaria. Adeguatamente sexy il giovane amante (Cristophe Malavoy): protervo, sentimentale e «stranito» allo stesso tempo. Bravo come sempre, pur nella piccola parte, Vittorio Gassmann, e tutt’intorno una ridda di personaggi facili quanto gustosi.
Le musiche di Fiorenzo Carpi sono molto piacevoli ed accattivanti; si reggono pressoché completamente su di un tema popolaresco costruito su di una progressione discendente e accompagnano con efficacia quasi tutte le scene.
In questa palude, in cui ogni giorno sprofondiamo, di film noiosi e magniloquenti ci pare positivo l’intento di divertire con una produzione piacevolmente frizzante dall’inizio alla fine.

68 – Dicembre ‘90

sabato, 1 dicembre 1990

La compositrice palermitana Barbara Giuranna è una tra le figure significative del mondo musicale italiano. Allieva di De Nardis, Savasta e Ghedini, dopo aver tenuto fino al 1970 la cattedra di composizione al Conservatorio di S. Cecilia di Roma, è stata nominata dal 1983 membro dell’omonima Accademia. Autrice di musica pianistica, sinfonica e operistica, è sulla cena con un’attività continua da più di sessant’anni.
In occasione del suo novantunesimo compleanno è stato organizzato dall’Accademia internazionale delle Arti un concerto di sue musiche, all’Oratorio del SS. Sacramento, con la collaborazione di monsignor Di Liegro e della Radio Vaticana.
Il piccolo spazio dell’oratorio barocco era follato fino all’inverosimile e la serata ha avuto le caratteristiche di una festa di amici ammiratori che si stringono attorno alla figura della Maestra per tributarle un omaggi affetto e di stima.
La musica di Barbara Giuranna è di sapientissima e seria fattura; sono presenti gestioni respighiane ed anche vi si può reperire la presenza di un Debussy, più spudoratamente tonale. Le melodie si lasciano scoprire nella loro tornita ingenuità; la polifonia, sempre presente, è ricca e articolata. Le varie parti del suo discorso musicale si possono seguire con facilità e le architetture sonore, che hanno talvolta qulalcosa di barocco, sono immediate e coinvolgenti. Sia la luce sia le ombre hanno nella sua musica qualcosa di sensuale.
Tutto questo è stato ben percepibile anche nel programma della serata del 28 novembre.
L’improvviso a quattro mani per pianoforte è una breve pagina di buon pianismo, ironica e dal ritmo incalzante, che Lea Leone e Cristina Tarquini hanno reso con un’esecuzione abbastanza pulita; la Sonatina per arpa si apre con un primo tempo morbido, dalle tonalità evidentissime, ma sospese a cui succede un secondo tempo di orientaleggiante impressionismo e che si conclude con un finale efficacissimo dalle squisite sonorità; Isabella Mori ha variato sapientemente con fluidità e precisione, tranne il piccolo inconveniente di un dito ribelle, quasi nell’ultimo arpeggio.
L’incipit per chitarra ha quasi l’andamento di un ricercare, che Simonetta Camilletti ha valorizzato con precisione di tocco.
È seguita una piccola serie di canti per soprano: l’austero Canto storico, dai canti greci tradotti dal Tommaseo; il Canto arabo, quartina d’autore ignoto, dalla bella melodia sinuosa su di un ritmo di ninna nanna; La guerriera, da una poesia popolare, cui si evidenziano una melodia arcaica e il bel dialogo col pianoforte; O suonno, suonno viene, di autore napoletano del settecento consiste di un ampio motivo musicale malinconico che ricorda la barcarola; lo Stornello, da una poesia popolare toscana presenta armonie ricche e una raffinata melodia; l’Aria di Maria Wetzera, dall’opera Mayerling, ha l’andamento sensuale di una danza gitana; infine Il nostro vecchio Dnipro, col testo di un poeta russo contadino è un brano sentimentale e dalle abili modulazioni. Il soprano Sabina Maculi ha esibito una vocalità ampia ed espressiva, accompagnata con grande buon guasto al pianoforte da Raffaele Centurioni.
È seguito un Adagio e Allegro per nove elementi: nel primo movimento di grande efficacia si evidenziano una cellula ritornante di quattro note e un bel contrappunto; nel secondo si apprezzano eleganti impasti sonori. L’esecuzione è stata efficace ed accurata da parte dei solisti della Piccola Accademia (Davide Amodio, violino; Antonio Bossone, viola; Daniela Petracchi, violoncello; Dobrina Gospodinoff, flauto; Anna Rita Argentieri, oboe; Lorenzo Coppola, clarinetto; Fabio Angeletti, fagotto; Adriano Romano, corno; Corrado Pastore, contrabbasso); apprezzabilmente diretti da Marcello Bufalini.
L’Alma Mater, per soprano, voci bianche e pianoforte, è una breve invocazione che il soprano esprime con una melodia asciutta e il coro con un complesso e limpido contrappunto baroccheggiante.
Ha concluso la serata la Missa Sinite Parvulos, in prima esecuzione assoluta, per coro di voci bianche, arpa e organo. Dopo lo splendido Kyrie, luminoso e aereo, si passa a un Sanctus ricco di inaspettate modulazioni; il Benedictus evidenzia una melodia molto fresca; il tutto si conclude con un pensieroso Agnus Dei. Il coro di voci bianche dell’ARCUM è risultato sempre molto equilibrato nelle sue varie parti; l’arpista Vincenzina Capone e l’organista Daniele Rossi sono stati attenti e precisi. Paolo Lucci si è dimostrato un direttore quanto mai all’altezza del suo compito.

68 – Dicembre ‘90

sabato, 1 dicembre 1990

Alla Galleria di Carlo Virgilio a via della Lupa 10 sono esposte trentasei tempere di Enrico D’Assia, che abbracciano l’arco l tempo che va dal 1961 al 1990.
Queste immagini suggestionano, affascinano e qualche volta cullano chi le osserva; non sono mai aggressive; non disturbano, ma accompagnano. Dove? In un mondo vicino e lontano allo stesso tempo. Vicino per la immediatezza delle forme: chiare e talvolta quotidiane. Lontano per l’atmosfera nostalgica e di sogno che tutto avvolge, ed anche per alcune ingenuità infantili. Gli esseri umani vivi sono praticamente assenti da queste opere: il loro posto è preso da simulacri antichi, sorpresi da uno sguardo indiscreto nella loro malinconica riflessione, in mezzo ad una natura amica, che accoglie e nasconde.
Qualche gioco surrealmente ironico, come il proliferare di radici inconsuete o l’apparizione di forme geometriche dinamicamente irrompenti o fissate in una immobilità impensabile. Il mare si insinua, riempiendo spazi vuoti con la sua presenza solennemente calma, ma inquietante nel suo costante assorbire. La pietra lavorata nelle forme di un passato classico e definitivamente morto resta comunque la caratteristica dominante: sia quando è lo scenografico punto di partenza di grandi paesaggi infiniti, sotto forma di nuvola o di collina, sia quando è mimetizzata presenza, nell’oleandro o nella cascata; improbabile parafrasi di un’assunzione nel gioco dell’altalena sopra un affollamento di piccole vele bianche; desolato abbandono di un nido al sole di mezzogiorno.
I colori vengono sparsi da Enrico D’Assia attraverso crescendo o diminuendo di densità che vanno dagli amplissimi cieli variamente tersi o nuvolosi fino allo spessore della terra e alla durezza della pietra e all’impenetrabile lucentezza dell’acqua; così che il risultato è di una vastità quasi sconfinata anche quando l’opera, «il quadro», è di piccole dimensioni.
Si è parlato, a proposito di questo pittore, di Magritte; qui però ogni influsso dell’artista belga è scomparso: non c’è la sorpresa spaventata, ma, piuttosto, uno stupore che non è del tutto improvviso o imprevedibile; le forme si dipanano con tranquillità e calma. Ci sembra invece presente qualcosa dell’inquieta sospensione romantica di Friedrich o anche l’euritmica arcaicità un po’ fissa di Fabrizio Clerici. Di suggestioni se ne potrebbero trovare molte, tutte però appena accennate, ben armonizzate in un mondo poetico, limpido e personale.

Ogni artista, nella sua ricerca, segue un percorso. Non necessariamente il divenire tende al progresso, spesso le fasi si susseguono giustapponendosi e anche sovrapponendosi. Frange di ieri si sovrappongono ad elementi di oggi. Vi sono artisti che sembrano nascere maturi e altri che, invece, conquistano il loro linguaggio lentamente ed a fatica; alcuni quando credono di aver raggiunto una visione del mondo coerente non la abbandonano più, altri la infrangono per ricominciare nuovamente da capo. Ha senso osservare diacronicamente il lavoro di un artista? Non sarebbe meglio studiarlo sincronicamente; o forse ancor di più: non sarebbe meglio guardare ogni singola opera, ritenendola irripetibile? Con un significato autonomo? Però, non appena si è scelto quest’ultimo punto di vista, le opere cominciano a sovrapporsi le une sulle altre, con un’esplosione da caleidoscopio. Sarebbe forse meglio allora considerare tutto il percorso e ritenerlo un unico gesto artistico; ma qual è l’artista isolato? Tutti sono «anche» imitatori, ritorna il problema: visione sincronica o diacronica?
Questa volta però l’argomento riguarda tutta la storia dell’arte; dalla storia dell’arte si potrebbe passare a quella delle arti e così via, quasi all’infinito. Comunque si va di certo oltre le possibilità umane.
Tutte queste considerazioni ci sono venute alla mostra di Guido Turchiaro nelle sale di Palazzo Braschi, dal titolo L’arca di Turchiaro. Noi lo consideriamo un pittore che si è andato evolvendo, ma il cui senso dell’evolversi non si capisce quanto sia un progredire o non addirittura un regredire; magari verso moduli ossessivi, ostinati, monotonamente reiteranti. Eppure tutta la sua pittura è coinvolgente; poeticamente indifesa prima, poi impietosamente metallica, poi ancora ritualizzata in immagini quasi sempre uguali: i delfini. Girasoli, lamiere, grilli, mammiferi acquatici avanzano con la confusione di una processione medievale, promiscuamente ambigua. La natura è amata, ma è raccontata attraverso colori di caramella e di cartone animato. I delfini sono indiscutibilmente troppi:
alla fine diventano mostri antipatici ed irritanti. Per lo spettatore il coinvolgimento si trasforma in aggressività: viene voglia di dire: «basta non sei ancora così vecchio da dover diventare prolisso e ostinatamente ripetitivo». I vecchi sono queruli, lamentosi, ostinati, perché hanno paura del domani in cui c’è soltanto la morte. Quella di Turchiaro oggi rischia di essere una pittura vecchia e un po’ qualunquista, come sono i discorsi di troppe persone anziane.
Riesce bensì a stimolare qualche pensiero, ma non accompagna da nessuna parte; rimane inerte ed immobile. Forse inutile?

68 – Dicembre ‘90

sabato, 1 dicembre 1990

Che l’Italia, di fatto, non sia mai stata unita, non c’è di certo bisogno che venga a dircelo Giorgio Bocca con il suo libro La disunità d’Italia (Garzanti 1990, pagg. 112, lit. 15.000). È questo un refrain che, qualunquisticamente, ripetono tutti, dal tempo della pseudo unificazione fino ad oggi, siano uomini politici siano i ragazzetti delle scuole medie.
Nei confronti del libercolo in questione, noi abbiamo avuto due sentimenti opposti: il primo è stato di fastidio, perché vedersi riproporre con troppa sicumera la scoperta dell’acqua calda è sempre un po’ irritante e lo è ancora di più quando vi si allega a supporto una documentazione raffazzonata e poco seria; il secondo sentimento che abbiamo invece provato è stato di ammirazione per il coraggio dimostrato nel denunciare corruzione e corrotti esplicitamente, con tanto di nome e cognome; sebbene anche qui tiri un po’ un’aria da pettegolezzo da condominio, in cui si parla male del notaio del terzo piano.
Bocca incomincia parlando delle «leghe», fenomeno esploso improvvisamente nel nord Italia dopo anni di tentativi localistici più o meno riusciti: folc1orismo, razzismo e stanchezza nei confronti del governo centrale hanno indotto moltissimi italiani a stringersi intorno ad alcuni leader più o meno ambigui e demagogici per dire basta ad una situazione di fatto abbastanza insostenibile. La tesi principale è che si è stanchi in quelle regioni del nord, attive e vitali, di servire da serbatoio finanziario di un sud passivo e corrotto, detentore però del potere centrale. L’autore sembra abbastanza favorevole ai principi di tali fermenti; purtroppo però non ci spiega perché proprio nel momento in cui 1′Italia del nord è ormai irrimediabilmente contagiata dal malcostume «sudista» si risvegli un così forte sentimento autonomista; forse per salvare quel poco che resta da salvare? Certo che l’esaltazione del nord come luogo dell’efficienza e della «trasparenza» è un po’ un delirio. Noi siamo settentrionali (come Craxi e Carraro) e viviamo in stretto contatto, anche di lavoro, con quell’area, eppure possiamo dire che camorra e mafia ormai sono presenti là come altrove. La frase che definisce i nostri compatrioti come «faus e courteis» è quanto mai azzeccata; e non bisogna scambiare la falsità per onestà. Indubbiamente in Piemonte, Lombardia, Veneto e Liguria c’è meno tracotanza, meno pancioni dilatati su cui scoppiano giacche gessate, che sembrano pagate dalla pro-loco; però la sostanza cambia poco.
Bocca poi si addentra in un tentativo sommario di analisi spietata e coraggiosa che perde purtroppo, per il suo pressapochismo, parte dell’efficacia. È messo in evidenza con acume letterario, e quindi forse un po’ inventato, il lavorio più oscuro e depresso della mafia siciliana al confronto con l’esibizionismo da Pu1cinella della camorra campana, su cui però aleggia sempre la tragica ala della morte. Si parla anche, senza chiarirli molto, sia del bisogno truculento, sadomasochista del brigantaggio calabrese, sia dell’esigenza che la malavita ha di proteggere per un verso e per l’altro tenere in miseria i diseredati per avere risorse di manodopera da usare nei suoi loschi traffici.
Personaggi e personaggini vanno e vengono, disegnati spesso con efficacia pirandelliana o verghiana, anche se talvolta più burocratica che tragica.

Quando ci è capitato in mano il libro di Roberto D’Agostino e Federico Zeri Sbucciando piselli (Mondadori, 1990, pagg. 439, lit. 30.000) abbiamo letto distrattamente i titoli di alcuni capitoletti: Pettegolata, Quando la cacca colpisce il ventilatore, Il ditalino di Freud, Sex cathedra, L’invasione degli ultra-Gorby, etc… ed abbiamo detto: «Queste sciocchezzuole non sono degne neppure di una stroncatura. Insultare tutte queste vacuità è mortificante!» Poi abbiamo letto qua e là (confessiamo che è stato al di sopra delle nostre possibilità leggere tutto) ed insieme agli sbadigli ci è anche scappato un sorrisetto di commiserazione. Questo è il libro più perbenista, impettito conformista e leccapiedi della cultura che abbiamo letto in questi ultimi anni. Frasi sussiegose, affermazioni moralistiche si sprecano. Neanche l’ombra di qualche lazzo umoristico: i due si prendono disgustosamente sul serio; convinti di possedere la Verità in ogni suo aspetto. Al confronto le stupidaggini da noi detestatissime degli ormai antidiluviani uomini «della notte» erano frizzanti arguzie. Nei due gentiluomini urge il bisogno di mostrarsi eruditi: loro sanno che in Inghilterra c’è un’espressione che suona: «When the shit hits the fan» per esprimere il concetto di pettegolezzo come «raffica di malignità». Ed anche sta loro a cuore mostrarsi rispettosi della psicoanalisi seria: «lo credo in certi principi della psicoanalisi basati sull’inconscio. La teoria freudiana dei complessi è assolutamente valida.» Svillaneggiando con burbanzosa prosopopea quella «psicoanalisi tanto diffusa nei film, nei romanzi e in televisione, da far rivoltare nella tomba Sigmund Freud.» Arrivati a questo punto, con un po’ di vergogna ci accorgiamo di star parlando di qualcosa di cui avremmo preferito tacere.
Abbiamo schizzato un po’ di veleno gratuitamente, con vigliacca tracotanza e ce ne scusiamo con i lettori. Però siccome in questi giorni siamo affetti da crisi di avarizia non ci andava di buttare trentamila lire proprio per niente. Pazienza!

68 – Dicembre ‘90

sabato, 1 dicembre 1990

Il ristorante Mblo di via della Stelletta 25, si fa subito notare per il nome tanto bizzarro: noi abbiamo tentato di farcene dire l’origine dal sorridente giovane maitre che ci serviva, ma siamo soltanto riusciti a sapere che ha il nome di un analogo ristorante di Fondi, forse della stessa proprietà. Il nome quindi rimane avvolto nel mistero; misterioso invece non è tutto il resto. Ripide scalette conducono ad una suite di ambienti sotterranei, rivestiti di mattoncino e pavimentati di freddo marmo, arredati con sedie tardo stile decò e tavoli bene apparecchiati, ambienti sfavoriti da un’acustica pessima che rende difficile la conversazione; si potrebbe forse ovviarvi con una moquette e qualche tendaggio. Nel complesso noi vi abbiamo trascorso una piacevole serata, anche se siamo costretti a muovere qualche critica. Vogliamo premettere che, considerato il livello del locale, non certo popolare, abbiamo pagato un conto decisamente ragionevole, quasi basso, il che non guasta mai. Il menù è imposto dall’alto e così pure gli abbinamenti. Poiché i farfalloni, almeno a tavola, non sono frigidi e sono disposti a provare qualunque pietanza, la cosa a noi non è dispiaciuta, forse a qualcuno più schizzinoso e nevrotico potrebbe creare qualche problema.
Abbiamo cominciato con l’immancabile spumantino di benvenuto, corretto quanto anodino, e subito dopo, insieme con un Sauvignon di Ronco del Castagneto dell’89, servito poco freddo, ma che rimanendo in ghiaccio ha acquistato presto il suo buon profumo di mandorla e un deciso gusto salato, è arrivato un delizioso foie gras che ci hanno detto essere fatto in casa, con un pan carré che avremmo preferito tostato e caldo e che invece era soffice ma gelido; è seguito un piatto di carne secca, carciofo e spicchi d’arancia dissennato e soprattutto poco propizio al bicchier di vino; la successiva trancia di pesce spada affumicato con asparagi consisteva di eteree fettine e di qualche croccante punta di asparagi (!), dobbiamo dire che ci ha stupito che venisse dopo la carne, poiché malgrado l’affumicatura e la presenza dell’arancia nel piatto precedente avremmo preferito un ordine inverso. Nulla da eccepire sull’ottimo risotto al tartufo con asparagi perfettamente mantecato, ben cotto e armoniosamente profumato. È seguita una proposta di polenta e cacio, con cimette di cavolfiore e puré di broccoli che ci è parsa un esempio di dissociazione di sapori. Decisamente mal cucinato è risultato il girello d’agnello con asparagi (!) e testa di champignon, questa intrisa di acqua amarissima che inzuppava anche la carne bruciacchiata.
C’è una regola dell’armonia che dice: «Non si può mai far ritornare nei punti nodali di una melodia la stessa nota con lo stesso valore armonico, perché ingenera nell’orecchio un senso di stucchevole ripetitività.» La stessa norma deve a maggior ragione valere in cucina: in un menù è un grave errore far ritornare tre volte lo stesso ingrediente (gli asparagi!).
Un altro appunto riguarda i vini: il Sauvignon tenuto su tutti i piatti che hanno preceduto la carne è risultato monotono e inoltre sul fegato d’oca era troppo debole e salato. Il Cabernet giovanissimo della stessa casa è invece risultato appropriato sul girello: dalla buona e delicata stoffa, decisamente caratterizzato dal debito sentore di peperone.
La piccola pasticceria è risultata nel complesso gradevole, ma la pasta di mandorle dei petits fours era dura come gesso; il Savarin finale al Millefiori con formaggio bianco aveva un buon impasto, ma risultava nel suo insieme un po’ ingenuo e ci è stato servito con un fin troppo ovvio Moscato d’Asti dei Vignaioli di S. Stefano. Per concludere, diremo della finale generosissima offerta di un buon Courvoisier servito in un enorme adattissimo ballon.

Da poco una nuova gestione conduce il ristorante cinese Il giardino di melograno in via dei Chiodaroli, proprio dietro al Teatro Argentina. L’ubicazione è di quelle che fanno sentire appieno l’atmosfera di quella certa Roma; i locali spaziosi sono di sobrio buon gusto (non c’è una doratura, né un rosso lacca) e il personale accoglie e serve i commensali con squisita cortesia… Le note positive si fermano però qui.
Ormai anche a Roma i ristoranti cinesi imperversano: ce ne sono di tutti i tipi e per tutte le borse. Perciò se ne trovano anche di quelli che ammanniscono i prodotti di una cucina raccapricciante. Sono sempre i medesimi numerosissimi piatti con nessuna o pochissime varianti da un posto all’altro.
A parte gli involtini primavera e i ravioli al vapore che nella loro banalità si presentavano quasi perfetti, tanto da farei dubitare che provenissero direttamente da una fornitura di surgelati precotti, tutte le altre portate si sono caratterizzate per insignificanza e trascuratezza.
Spaghetti saltati con verdure mollicci e affumicati; riso alla cantonese pressoché lessato e insapore; maiale in agrodolce viscido e dalla carne sfatta, come quella del brodoso pollo alle mandorle, e del dolciastro vitello alla piastra; lo stesso discorso vale anche per il maleodorante misto piccante dello che/, fin troppo scopertamente ammasso di rimasugli. Il gelato fritto e la frutta caramellata tornavano ad avere poi la caratteristica del già pronto. Ovviamente la solita miserabile e implacabile lista di vinelli bianchi e le grappe di riso e di rose offerte con generosità per farsi perdonare il tutto. Sempre, pensiamo per fare un po’ dimenticare ogni giusto risentimento, il conto bassissimo viene offerto insieme con un fazzolettino di seta omaggio alle gentili signore.

68 – Dicembre ‘90

sabato, 1 dicembre 1990

Raymond Queneau (1903 – 1976) è un autore francese che ha imperversato dagli anni venti alla morte. Zazie nel metrò e I fiori blu sono romanzi di una certa funambolica efficacia, con spunti di graffiante umorismo e non privi di alcuni momenti di tenerezza. Tutto sommato però la sua arte può piacere agli intellettuali piccolo borghesi: soddisfatti di una cultura raffazzonata che si sposa malamente a virtuosismi linguistici. Noi lo consideriamo tutto sommato uno scrittore discreto, senza nulla di più.
Una ragazzina incontra sull’autobus della linea S un giovanotto atticciato il quale porta un cappello con una cordicella in luogo del nastro e si accorge che costui, dopo aver pestato accidentalmente un piede al vicino, cerca di rubare ad un altro passeggero un sedile appena liberatosi. Poco tempo dopo, nella stessa mattinata rivede lo stesso individuo davanti alla stazione parigina di St. Lazare, mentre discute con un amico a proposito di un bottone del suo cappotto attaccato troppo in alto.
Questa è la cellula di partenza da cui Queneau ha tratto ben novantanove versioni che ha raccolto in un volume. La stessa storia viene raccontata in più lingue, compreso il giapponese e il latino, in più stili: dal forense al filosofico, dal politico allo scientifico, e così via, in versi e in prosa.
Tutti i musicisti, noi compresi, da quando sono ragazzetti, si divertono a fare un giochetto con gli amici, bevendo vino, la domenica in campagna, accanto al caminetto d’inverno e al fresco d’estate. Si mettono alla tastiera, prendono un tema di canzonetta o del repertorio classico e lo ripropongono, più o meno argutamente, alla Schubert, alla Strawinsky, come un valzer Musette, alla marcia militare, ecc. C’è però un dogma che va sempre rispettato nel gioco: bisogna assolutamente improvvisare; altrimenti l’effetto è di impettita, stucchevole monotonia. Questo vale per le note, ma vale anche per le parole. Ecco perché noi troviamo stupidissimo e noioso il testo di Queneau: la sensazione di vuota insulsaggine viene poi raddoppiata se si passa alla rappresentazione di tutto ciò sulla scena. O gli attori sanno inventare senza regia, improvvisando agli strumenti e cambiando il testo ad ogni rappresentazione, oppure è proprio come vedere un cadavere col maquillage; cosa che estasia gli americani ma speriamo disturbi il buon gusto europeo.
Questa non gradevole impressione ci ha fatto assistere alla messa in scena di Esercizi di stile, nella traduzione e adattamento di Mario Moretti, da parte della Società Teatrale L’Albero, e con la regia di Jacques Seiler e l’interpretazione di Gigi Angelillo, Ludovica Modugno e Francesco Pannofino.
La versione e l’adattamento in italiano sono sufficientemente astuti, ma, ovviamente, non possono avere gli stessi effetti dell’originale. I tre attori si prodigano con risultati penosi: innanzi tutto per animare quel cadaverico virtuosismo letterario ci vorrebbero doti di istrionismo eccezionale, che mancano ai tre, pur diligenti, professionisti. Gesti e gestacci, parole, paro lette e parolacce; calembours e contorcimenti linguistici si sprecano. Su tutto domina una volgarità parrocchiale-televisiva. Giochi fecali e rutti infiocchettano disgustosamente lo spettacolo. Con molta tristezza dobbiamo riferire che la cosa suscita grande ilarità negli spettatori paghi di una viscida complicità. Noi non vedevamo l’ora di porre fine alla tortura. Le musiche di Michel Deroin sono costruite onestamente, nella parodia dei vari stili, non escluse alcune cantatine polifonico-cabarettistiche. Riconosciamo che hanno costituito l’aspetto migliore della serata ma non sufficiente a riscattare il fallimento dell’insieme.

Il Teatro del Viaggio propone, al Teatro in Trastevere, tre lavori del suo passato percorso sotto la forma di una trilogia che vorrebbe anche suggerire l’idea di un viaggio. Siddharta ne è la prima tappa, alla quale faranno seguito Gilgamesh e Il profeta. Stelio Fiorenza cura la versione teatrale del testo di Hermann Hesse e ne affida la regia alla sua compagna Shahroo Kheradmand, nativa di Teheran , ma da anni operante a Roma.
Il romanzo ha avuto una fortuna strepitosa, anche per ragioni un po’ squallide. Tutti i maniaci del misticismo orientaleggiante, orgogliosi dei loro capelli sudici, dei sacchi a pelo, delle abboffate di droga ed altre similari sciocchezze, lo hanno eletto uno dei testi sacri della loro pseudo-cultura.
Malgrado ciò non dobbiamo lasciarci influenzare dall’antipatia che quei loschi figuri ci ingenerano. Quelle di Resse sono pagine di profonda intensità poetica, luminose e sensualissime. I moduli filosofici dell’oriente, pur se trattati con qualche ingenuità, sono affrontati con onesta e bella serietà.
«Nell’ombra della casa, sulle rive soleggiate del fiume presso le barche, nell’ombra del bosco di Sal, all’ombra del fico crebbe Siddharta, il bel figlio del Brahmino, il giovane falco, insieme all’amico suo, Govinda, anch’egli figlio di Brahmino. Sulla riva del fiume, nei bagni, nelle sacre abluzioni, nei sacrifici votivi il sole bruniva le sue spalle lucenti» (tr. Massimo Mila, ed. Frassinelli, 1957).
Non sono queste che poche righe tratte dall’inizio del romanzo, però secondo noi bastano a dimostrare le qualità cui abbiamo appena fatto cenno della scrittura poetica di Resse. Questa atmosfera magica e dorata è completamente scomparsa nel testo teatrale: tutto vi è asciutto, secco, frigido. I dialoghi sono poco interessanti e i frequenti monologhi risultano stantii, per quanto sembrino presi dall’originale. La messa in scena poi è quanto mai squallida, a tratti funebre. Pochi gesti che non sono per altro tanto ieratici quanto castrati. Gli elementi sonori di Luigi Cinque sono sommessi, fantasmeschi ed inessenziali.
Non parliamo poi dei contorcimenti vocali delle pseudo-canzonette in tedesco. Abbiamo ritrovato qualcosa della suggestione perduta soltanto nel gradevole chiocciare dell’acqua di una ciotola in cui cadono sassolini. Poco suggestive anche le scene e i costumi di Tiziano Fario, in particolare abbiamo trovato puerile e fastidiosa l’abbondanza di garze trasparenti che troppo spesso sono una pessima traduzione scenica dell’atmosfera mistica od lirica. Molto buona invece ci è parsa la prestazione di tutti gli attori, sui quali senz’altro primeggia Luigi Mezzanotte nei panni del protagonista; ci è piaciuta la sua voce bella e vibrante, abbiamo apprezzato lo sforzo di dare un senso teatrale al personaggio anche con alcuni azzeccati, se pur elementari, gesti. Brava Patrizia Bettini, ironica e malinconica. Fabio D’Avino ha fatto di Govinda una figura sognante e drammatica. Reza Keradman è stato efficace nella sua presenza astratta e un po’ inquietante.
Il numeroso pubblico ci è sembrato coinvolto.

Psicoanalisi contro n.68 – Tanto per fare un esempio

sabato, 1 dicembre 1990

Una tra le motivazioni capaci, spesso, di determinare i comportamenti, i gesti e addirittura i modi di dire delle persone è la diretta identificazione – per lo più inconsapevole – con gli altri. Raramente, al di fuori del trattamento psicoanalitico, questo meccanismo riesce a venire in evidenza; succede invece con una certa regolarità che ad un determinato momento dell’analisi il paziente si trovi – magari con raccapriccio – a scoprire in sé caratteristiche tipiche del comportamento o del carattere di congiunti o conoscenti. Generalmente alla constatazione si accompagna il desiderio di ribellione, ma per lo più non si giunge ad inibire sul serio una dinamica così poco gradita. Ovviamente, anche all’interno dell’analisi il controllo delle identificazioni e la loro stessa presa di coscienza sono tanto più inibiti quanto più gli oggetti dell’identificazione sono detestati. L’analista deve stare molto attento a valutare l’opportunità di far notare queste identificazioni: se infatti il paziente non è pronto a riconoscere in se stesso quei modelli può irrigidirsi e ribellarsi, provocando una battuta d’arresto nel lavoro analitico o addirittura fuggendo. È bene accompagnare invece il paziente :verso una lenta presa di coscienza che gli permetta di credere di essere giunto da solo alla scoperta di ciò che gli fa tanto orrore. Le cose, quando vengono solo dette, rischiano di rimanere lettera morta e il paziente è prontissimo a dimenticarle; perciò il terapeuta deve con accortezza riprendere ogni frase, sottolineandone o a volte addirittura ingigantendone l’importanza, o conferendogli una grossa carica emotiva per mezzo magari di un silenzio volutamente carico di intenzioni.
Questi momenti di acquisizione della consapevolezza non sono indolori per il paziente; magari lo si vedrà agitarsi, disperarsi per non essere stato smentito come avrebbe desiderato; con qualche frase stizzita, anche, come: «Ma se anche lei pensa questo di me, perché non mi ha impedito di caderci? Mi dica piuttosto che sono solo paure mie, che non è vero.» Allora il terapeuta può permettere al paziente di divagare, di concentrarsi su qualcos’altro, di meno scomodo, in attesa che si presenti il momento opportuno per ritornare sul problema.

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Evidentemente però dà meno fastidio l’identificazione con qualcuno che si stima o che si accetta.
Se la suscettibilità individuale porta, fuori dell’analisi, a reagire anche in questi casi come davanti ad un offesa, tuttavia nell’analisi si fa molto meno fatica a pervenire alla consapevole accettazione, sebbene questa provochi ugualmente un certo disorientamento. Dà fastidio dover riconoscere che il proprio comportamento non è originale, che il linguaggio è quello caratteristico di qualcun altro, che appare chiara l’influenza di un «modello» per quanto ammirato ed ammirevole. Ogni essere umano vorrebbe essere assolutamente originale nel modo di comportarsi e di esprimersi; mentre invece è vero che ciascuno si costruisce attraverso i meccanismi dell’identificazione e della proiezione, che spesso si unificano in quello dell’«identificazione – proiezione» attraverso cui si cerca di fare proprio quello che si capta dell’altro, per poi ributtare all’esterno, su quello stesso altro, le caratteristiche che grazie a lui abbiamo appena acquisite, per meglio identificarci ancora una volta. È un gioco, come ho già detto, quasi infinito di rimandi che lentamente però ci costruiscono come siamo, insieme con quei caratteri fondamentali filogeneticamente trasmessi che partecipano alla formazione dell’individuo, fin dalla fase embrionale. Questo mutuo processo di inter-azione tra individuo e ambiente, non si arresta mai: vivere vuol dire identificarsi sempre con l’altro da sé e proiettare: l’io è sempre «uno, nessuno, centomila». Così è, che piaccia o no. La ribellione è impossibile. Meglio, se mai, scoprire la provenienza dei nostri comportamenti. Non sono soltanto le persone ad ispirarci e condizionarci, ma anche le cose.

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Tutti gli uomini – e non solo i «selvaggi» o i bambini – tendono a dare un’anima alle cose: le piante, i fiori, i sassi, il mare e le stelle sono per noi esseri vivi ed animati che si muovono con intenzione. Ogni cosa si dirige verso un obiettivo. Gli oggetti hanno un loro linguaggio e parlano, per chi li sa ascoltare.
Ci si può arrabbiare prendendosela con una scarpa, si può dare con stizza un calcio ad una porta, si può sbattere con violenza un libro sul tavolo per punirlo di averci tormentato. Facciamo fatica ad attualizzare davvero che gli oggetti intorno a noi non abbiano una psiche, non vogliano una cosa o l’altra: il sole si alza e va a dormire stanco. Non importa che razionalmente sappiamo che il sole non si leva mai e neppure si corica; così è per poeti, bambini, selvaggi e tutti gli altri; con il sole parliamo, anche se non con lo stesso stile di Orazio; capace lui anche di rivolgersi ad una città pigramente adagiata sulle rive di un fiume biondo come un eroe. Con le cose alle quali diamo anima arriviamo ad inscenare vere e proprie rappresentazioni, moltiplicando anche le identificazioni, come accade nei sogni, veri e propri spettacoli di cui siamo autori, registi ed attori allo stesso tempo.
Anche gli oggetti, dal canto loro, ci rimandano addosso le nostre proiezioni. È un’esperienza comune di restare affascinati a guardare le fiamme del camino, ascoltando il crepitio del fuoco che arde e identificandosi con le scintille che, come monachelle, spariscono nella gola buia verso il comignolo, piccole e rosse suore avviate verso chissà dove. Anche il camino ha una bocca con la quale parla. Tutto parla, a tutto diamo voce. Il meccanismo di proiezione-identificazione è continuo.

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Si verifica nell’articolato gioco delle identificazioni un fatto singolare: che ci si trovi addosso modelli che si rifanno a persone che risultano particolarmente odiose, che, incomprensibilmente, hanno finito con l’imporsi. Un esempio frequente è quello per il quale ci si trova a riproporre gli stessi moduli di comportamento di uno dei genitori o di entrambi, benché contro di essi si sia impegnata una lotta ed espresso un rifiuto deciso. Non si sa come, questi figli si ritrovano, senza averlo voluto, ad avere lo stesso comportamento del padre o della madre rifiutati, ad assomigliare loro anche nella positura, oltre che nella fisionomia; così accade spesso che si veda e si senta il più giovane accusare e condannare il più vecchio, proprio mentre esplicitamente ne è la parodia vivente, la copia conforme, in una moltiplicazione, attraverso generazioni e parentele, che sembra inspiegabile. I protagonisti non sembrano generalmente rendersene conto. Sono possibili ovviamente infinite variazioni di questi processi: i modelli vengono abbandonati e ripresi, spaziano nella cerchia extra-famigliare.
Una donna in analisi con me mi parlava molto male del proprio padre, che io non avevo mai conosciuto. Me lo descriveva come una persona brutta, dalla voce roca e chioccia; autoritario e narcisista. Uno dei tanti che parlano senza ascoltare, con la pretesa di avere sempre ragione. Mi diceva come fosse stato violento con lei e i due fratelli ai quali aveva inflitto, in passato, anche violente punizioni corporali. Una cosa tra le altre sembrava infastidire la mia paziente in modo particolare: suo padre era solito intercalare nei suoi discorsi l’espressione: «Tanto per fare un esempio»; alla quale succedeva generalmente un verboso sproloquio che non conduceva a nulla di sensato, nel quale addirittura finiva per impantanarsi perdendo lo stesso filo del discorso. Mentre mi parlava, io osservavo quella donna la cui voce a tratti si arrochiva, diventando chioccia; la sentivo mentre mi diceva che non riusciva a frenare le mani e batteva spesso il suo bambino di sei anni; sbalordito la udivo dire: «Tanto per fare un esempio» e poi trasformare la foga dell’eloquio in un vero e proprio sproloquio. Di tutto questo era assolutamente inconsapevole, eppure il modello del padre si ripeteva in lei quasi identico. Quando una volta la bloccai obbligandola a rendersi conto che mi aveva appena detto la famigerata frase che trovava così detestabile nel padre, rimase rigida e interdetta, balbettò ancora appena qualche parola e poi tacque costernata e passò in silenzio il resto della seduta. Il giorno dopo mi telefonò per dirmi che aveva intenzione di sospendere l’analisi; perché era troppo faticosa e costosa. Non le avevo obiettato nulla; certo che ci avrebbe ripensato. Cosa che fece: dopo poco più di un mese tornò.
La vidi entrare nello studio austera e solenne. Si sedette sul divano e con aria arcigna mi disse: «Allora secondo lei io sono come mio padre!» Le risposi: «Me lo dice lei, io non l’ho detto.» Poi cercò di dirmi che non era giusto che la giudicassi così solo per una frase che le era sfuggita e che senz’altro aveva in testa avendola sentita così spesso, una frase che ovviamente le si era appiccicata addosso. Con un po’ di cattiveria sibilai: «Le si è appiccicato addosso anche molto altro!» Lei fece il gesto di uscire; le feci notare che sarebbe tornata comunque. Lei si accasciò sul divano. Nel lavoro successivo, per molto tempo, non accennammo più al padre e a quella imbarazzante somiglianza; finché, per piccoli gradi, la questione ritornò ad essere affrontata. Dapprima la cosa le provocò una grossa depressione che fu però superata, permettendo infine un utile lavoro che servì a liberarla e alla fine del quale riuscì persino a sorridere di sé e della somiglianza.

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Un mio conoscente, tanti anni fa, detestava la propria madre: la giudicava troppo debole, remissiva, querula; sempre pronta a lamentarsi di una quantità inverosimile di malanni; convinta di essere la vittima in un mondo di perfidi ingannatori, sempre pronti a vilipenderla e a sopraffarla. Quell’uomo non si rendeva conto di descrivere se stesso.
Ovviamente aveva anche caratteristiche sue proprie: era un buon musicista e un palato raffinato, però si portava addosso tutti i difetti che rimproverava alla madre, addirittura ingigantiti. Una sera incontrai entrambi ad un concerto e mi fece impressione vederli così simili.
Una mia ex paziente, signorina politicamente impegnata: femminista e di sinistra, dal piglio mascolino e dal considerevole cattivo gusto, un giorno mi aveva parlato di un suo nipote, aitante ragazzone ventenne, sempre attento a essere «alla moda», elegante e sicuro, ben finanziato dai genitori, con scandalo della zia; la donna mi aveva voluto far notare quanto lei lo considerasse il proprio opposto. Nel lavoro successivo era poi venuta alla luce l’identificazione segreta con quel giovanotto; insieme ci fu possibile capire quanto di positivo e di negativo ci fosse in ciò, anche se la cosa costò qualche fatica. È bene stare all’erta quando si percepisce con particolare fastidio questa o quella caratteristica di qualcuno con cui abbiamo rapporti più o meno stretti: può darsi benissimo che ci stiamo difendendo e che non vogliamo diventare consapevoli di quanto noi stessi abbiamo trasferito su di noi quelle caratteristiche.
Non voglio dire che sempre desideriamo ciò che rifuggiamo o che ci identifichiamo in chi detestiamo. Questo è il partito degli psicoanalisti d’accatto che pretendono di considerare valido solo quello che risulta essere l’esatto rovescio del comportamento intenzionale. Ma quando i sentimenti di ripulsa sono particolarmente violenti, allora è bene non darsi tregua finché non si è messo in luce il motivo recondito di ciò.

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Inoltre è utile cercare di scoprire sempre chi stiamo, più o meno inconsapevolmente, parodiando. La parodia è sempre frutto di un atteggiamento psichico malato.
Imitare è sano, parodiare è morboso.
L’imitazione sana è quella che ci fa desiderare realmente essere come il nostro modello, che ammiriamo ed amiamo senza timore.
In questo caso non abbiamo ragione di risentirci del fatto che qualcuno scopra questa identificazione; anzi possiamo esserne contenti. È difficile distinguere l’imitazione dalla parodia, soprattutto perché gli altri sono sempre pronti ad assimilarle, per svalutare, invidiandola, l’identificazione positiva.
È un vezzo stantio che osservo persino tra i miei amici, allievi e collaboratori e che non smetterò mai di condannare abbastanza. È l’acidità malevola di chi si sente escluso da una vita fatta di comuni interessi affettivi, sessuali, culturali ed artistici; magari bizzarri.
Non credo di plagiare necessariamente coloro che consapevolmente, condividono con me i gusti e gli interessi e che magari solo per amore mi prendono a modello.
È un comportamento sano questo, che ci fa godere insieme le medesime gioie.
Certo c’è anche chi, non essendone consapevole, fa la parodia di questo stile di vita; ed anche per me allora è difficile non rimanere invischiato in questi illusionismi deteriori. L’importante è che in me e negli altri rimanga sempre la volontà di lavorare per essere in grado di separare la farina dalla crusca; lasciando gli invidiosi e gli arcigni soddisfatti della loro riduttiva libertà che è solitudine.

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Perché chi osserva negli altri un rapporto d’amore reagisce in modo così rabbioso, tentando di distruggerlo o svilirlo? Spesso questa eccessiva intolleranza, questa facilità ad accusare di plagio sono frutto dell’invidia suscitata da un desiderio troppo forte, di essere uno dei due termini della relazione amorosa che si pretenderebbe di stigmatizzare.
Gli uomini sanno essere con facilità malvagi; ma per fortuna la loro anima conosce sfumature più sfaccettate e poliedriche di quanto non si creda; bisogna imparare ad abbandonarsi a questa ricchezza emotiva. Senza lasciarsi sbattere come banderuole al vento, non dobbiamo arroccarci però nella difesa di un malinteso orgoglio. Dobbiamo saperci trasformare, imparare a conoscerci, ad andare alle fonti dell’invidia.

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Per andare alla radice del sentimento. A scoprire la sua sorgente nascosta, è indispensabile indagare su due aspetti dell’esistere umano: bisogna scandagliare sia l’inconscio individuale, sia quello sociale. Nell’inconscio individuale sono reperibili tutti quei giochi di identificazione che lentamente hanno costruito in noi le maschere: io sono come quello, quello e quell’altro ancora… Non si può sapere quando questo meccanismo abbia avuto inizio; può darsi persino che abbia recepito messaggi genetici. Poi ancora bisogna analizzare le proiezioni che ogni individuo mette in atto. Discernere ciò che è proprio da quello che deriva dall’esterno è molto difficile, ma non impossibile. Indubbiamente le due componenti rimarranno sempre un po’ sovrapposte, per cui ciascuno sarà in parte ciò che è ed in parte un frutto delle proiezioni ed identificazioni operate su di lui. Poiché la vita non è solo illusione io però ritengo possibile orientarsi; ho già detto anche come ai semplici meccanismi di proiezione ed identificazione si aggiunga un meccanismo misto che ho chiamato di proiezione-identificazione. L’inconscio sociale, in particolare, è costituito dalla somma di messaggi e di valori che l’individuo reperisce come «dati» nell’ambiente circostante e in cui tutti siamo immersi fin dal momento del concepimento. Confrontando continuamente l’inconscio individuale e l’inconscio sociale si può andare all’origine dei sentimenti umani. Non si riesce certo ad isolarne l’essenza assolutamente pura, tutto sarà mescolato con altre suggestioni, sensazioni e percezioni. Ma ripercorrendo a ritroso la corrente del fiume delle emozioni si può in qualche modo riuscire ad identificarle. Noi siamo le nostre emozioni e poco altro al di fuori di queste. Provare emozioni significa percepire; la percezione senza emozioni è impossibile per l’uomo.
Gli automi, le macchine, i meccanismi artificiali è probabile che reagiscano senza emozionarsi; un automa risponde sulla scorta del pacchetto di informazioni che gli è stato messo a disposizione e non ha bisogno d’altro né sa andare oltre. L’uomo invece è più imprevedibile, può darsi che lo si affermi perché lo si conosce meno di quanto si conosca un meccanismo artificiale; ma sta di fatto che di un essere umano non è possibile prevedere in modo assolutamente determinato le reazioni. Indubbiamente è possibile affermare che esiste un certo numero di costanti, perché senza di esse non si potrebbe fondare neppure un embrione di procedimento o sapere scientifico. La scienza deve potersi basare sulla previsione, per la quale è indispensabile disporre di una conoscenza anche minima del meccanismo del comportamento umano. Noi abbiamo potuto comunque avere la prova certa che la vita per l’uomo è essenzialmente percezione del mondo emotivamente connotata. La fredda ragione è un’ipotesi assurda, forse un desiderio impossibile.

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Vi è certo qualche differenza tra un gruppo di emozioni controllate ed il marasma di un parossismo emozionale; però sempre la percezione del mondo è emozionale ed emozionante. Sulle emozioni si agisce con altre emozioni; le parole si vestono di emotività e così i gesti. Nella psicoterapia si incontrano, si scontrano, si accorpano e si disgregano le situazioni emozionali di due protagonisti: il terapeuta e il paziente. Non è vero che l’uno sia solo il freddo osservatore e l’altro un povero individuo inconsapevole, squassato dall’emotività incontrollata. Lo psicoanalista agisce usando le proprie emozioni per intervenire sulla situazione emotiva del paziente; questi a sua volta sfodera tutte le sue possibilità emotive; capace come un novello Proteo di contorcersi e divincolarsi, cambiando forme e comportamenti. Eppure, finché resiste la situazione analitica, i due processi emotivi possono insieme costruire qualcosa di valido e di assennato che porta verso la guarigione. La guarigione non consiste in una chiara e asettica acquisizione di consapevolezza; ma è la capacità di controllare le emozioni, scegliendo di volta in volta la misura dell’accettazione dei sentimenti, acquisendo la capacità di non perdere in ogni momento il fine ultimo del congiungimento con Eros.
Ritrovare Eros è ritrovare la capacità di vivere in armonia coi propri sentimenti, recuperando il gusto della vita. È la salute.