68 – Dicembre ‘90

dicembre , 1990

Raymond Queneau (1903 – 1976) è un autore francese che ha imperversato dagli anni venti alla morte. Zazie nel metrò e I fiori blu sono romanzi di una certa funambolica efficacia, con spunti di graffiante umorismo e non privi di alcuni momenti di tenerezza. Tutto sommato però la sua arte può piacere agli intellettuali piccolo borghesi: soddisfatti di una cultura raffazzonata che si sposa malamente a virtuosismi linguistici. Noi lo consideriamo tutto sommato uno scrittore discreto, senza nulla di più.
Una ragazzina incontra sull’autobus della linea S un giovanotto atticciato il quale porta un cappello con una cordicella in luogo del nastro e si accorge che costui, dopo aver pestato accidentalmente un piede al vicino, cerca di rubare ad un altro passeggero un sedile appena liberatosi. Poco tempo dopo, nella stessa mattinata rivede lo stesso individuo davanti alla stazione parigina di St. Lazare, mentre discute con un amico a proposito di un bottone del suo cappotto attaccato troppo in alto.
Questa è la cellula di partenza da cui Queneau ha tratto ben novantanove versioni che ha raccolto in un volume. La stessa storia viene raccontata in più lingue, compreso il giapponese e il latino, in più stili: dal forense al filosofico, dal politico allo scientifico, e così via, in versi e in prosa.
Tutti i musicisti, noi compresi, da quando sono ragazzetti, si divertono a fare un giochetto con gli amici, bevendo vino, la domenica in campagna, accanto al caminetto d’inverno e al fresco d’estate. Si mettono alla tastiera, prendono un tema di canzonetta o del repertorio classico e lo ripropongono, più o meno argutamente, alla Schubert, alla Strawinsky, come un valzer Musette, alla marcia militare, ecc. C’è però un dogma che va sempre rispettato nel gioco: bisogna assolutamente improvvisare; altrimenti l’effetto è di impettita, stucchevole monotonia. Questo vale per le note, ma vale anche per le parole. Ecco perché noi troviamo stupidissimo e noioso il testo di Queneau: la sensazione di vuota insulsaggine viene poi raddoppiata se si passa alla rappresentazione di tutto ciò sulla scena. O gli attori sanno inventare senza regia, improvvisando agli strumenti e cambiando il testo ad ogni rappresentazione, oppure è proprio come vedere un cadavere col maquillage; cosa che estasia gli americani ma speriamo disturbi il buon gusto europeo.
Questa non gradevole impressione ci ha fatto assistere alla messa in scena di Esercizi di stile, nella traduzione e adattamento di Mario Moretti, da parte della Società Teatrale L’Albero, e con la regia di Jacques Seiler e l’interpretazione di Gigi Angelillo, Ludovica Modugno e Francesco Pannofino.
La versione e l’adattamento in italiano sono sufficientemente astuti, ma, ovviamente, non possono avere gli stessi effetti dell’originale. I tre attori si prodigano con risultati penosi: innanzi tutto per animare quel cadaverico virtuosismo letterario ci vorrebbero doti di istrionismo eccezionale, che mancano ai tre, pur diligenti, professionisti. Gesti e gestacci, parole, paro lette e parolacce; calembours e contorcimenti linguistici si sprecano. Su tutto domina una volgarità parrocchiale-televisiva. Giochi fecali e rutti infiocchettano disgustosamente lo spettacolo. Con molta tristezza dobbiamo riferire che la cosa suscita grande ilarità negli spettatori paghi di una viscida complicità. Noi non vedevamo l’ora di porre fine alla tortura. Le musiche di Michel Deroin sono costruite onestamente, nella parodia dei vari stili, non escluse alcune cantatine polifonico-cabarettistiche. Riconosciamo che hanno costituito l’aspetto migliore della serata ma non sufficiente a riscattare il fallimento dell’insieme.

Il Teatro del Viaggio propone, al Teatro in Trastevere, tre lavori del suo passato percorso sotto la forma di una trilogia che vorrebbe anche suggerire l’idea di un viaggio. Siddharta ne è la prima tappa, alla quale faranno seguito Gilgamesh e Il profeta. Stelio Fiorenza cura la versione teatrale del testo di Hermann Hesse e ne affida la regia alla sua compagna Shahroo Kheradmand, nativa di Teheran , ma da anni operante a Roma.
Il romanzo ha avuto una fortuna strepitosa, anche per ragioni un po’ squallide. Tutti i maniaci del misticismo orientaleggiante, orgogliosi dei loro capelli sudici, dei sacchi a pelo, delle abboffate di droga ed altre similari sciocchezze, lo hanno eletto uno dei testi sacri della loro pseudo-cultura.
Malgrado ciò non dobbiamo lasciarci influenzare dall’antipatia che quei loschi figuri ci ingenerano. Quelle di Resse sono pagine di profonda intensità poetica, luminose e sensualissime. I moduli filosofici dell’oriente, pur se trattati con qualche ingenuità, sono affrontati con onesta e bella serietà.
«Nell’ombra della casa, sulle rive soleggiate del fiume presso le barche, nell’ombra del bosco di Sal, all’ombra del fico crebbe Siddharta, il bel figlio del Brahmino, il giovane falco, insieme all’amico suo, Govinda, anch’egli figlio di Brahmino. Sulla riva del fiume, nei bagni, nelle sacre abluzioni, nei sacrifici votivi il sole bruniva le sue spalle lucenti» (tr. Massimo Mila, ed. Frassinelli, 1957).
Non sono queste che poche righe tratte dall’inizio del romanzo, però secondo noi bastano a dimostrare le qualità cui abbiamo appena fatto cenno della scrittura poetica di Resse. Questa atmosfera magica e dorata è completamente scomparsa nel testo teatrale: tutto vi è asciutto, secco, frigido. I dialoghi sono poco interessanti e i frequenti monologhi risultano stantii, per quanto sembrino presi dall’originale. La messa in scena poi è quanto mai squallida, a tratti funebre. Pochi gesti che non sono per altro tanto ieratici quanto castrati. Gli elementi sonori di Luigi Cinque sono sommessi, fantasmeschi ed inessenziali.
Non parliamo poi dei contorcimenti vocali delle pseudo-canzonette in tedesco. Abbiamo ritrovato qualcosa della suggestione perduta soltanto nel gradevole chiocciare dell’acqua di una ciotola in cui cadono sassolini. Poco suggestive anche le scene e i costumi di Tiziano Fario, in particolare abbiamo trovato puerile e fastidiosa l’abbondanza di garze trasparenti che troppo spesso sono una pessima traduzione scenica dell’atmosfera mistica od lirica. Molto buona invece ci è parsa la prestazione di tutti gli attori, sui quali senz’altro primeggia Luigi Mezzanotte nei panni del protagonista; ci è piaciuta la sua voce bella e vibrante, abbiamo apprezzato lo sforzo di dare un senso teatrale al personaggio anche con alcuni azzeccati, se pur elementari, gesti. Brava Patrizia Bettini, ironica e malinconica. Fabio D’Avino ha fatto di Govinda una figura sognante e drammatica. Reza Keradman è stato efficace nella sua presenza astratta e un po’ inquietante.
Il numeroso pubblico ci è sembrato coinvolto.