68 – Dicembre ‘90

dicembre , 1990

Alla Galleria di Carlo Virgilio a via della Lupa 10 sono esposte trentasei tempere di Enrico D’Assia, che abbracciano l’arco l tempo che va dal 1961 al 1990.
Queste immagini suggestionano, affascinano e qualche volta cullano chi le osserva; non sono mai aggressive; non disturbano, ma accompagnano. Dove? In un mondo vicino e lontano allo stesso tempo. Vicino per la immediatezza delle forme: chiare e talvolta quotidiane. Lontano per l’atmosfera nostalgica e di sogno che tutto avvolge, ed anche per alcune ingenuità infantili. Gli esseri umani vivi sono praticamente assenti da queste opere: il loro posto è preso da simulacri antichi, sorpresi da uno sguardo indiscreto nella loro malinconica riflessione, in mezzo ad una natura amica, che accoglie e nasconde.
Qualche gioco surrealmente ironico, come il proliferare di radici inconsuete o l’apparizione di forme geometriche dinamicamente irrompenti o fissate in una immobilità impensabile. Il mare si insinua, riempiendo spazi vuoti con la sua presenza solennemente calma, ma inquietante nel suo costante assorbire. La pietra lavorata nelle forme di un passato classico e definitivamente morto resta comunque la caratteristica dominante: sia quando è lo scenografico punto di partenza di grandi paesaggi infiniti, sotto forma di nuvola o di collina, sia quando è mimetizzata presenza, nell’oleandro o nella cascata; improbabile parafrasi di un’assunzione nel gioco dell’altalena sopra un affollamento di piccole vele bianche; desolato abbandono di un nido al sole di mezzogiorno.
I colori vengono sparsi da Enrico D’Assia attraverso crescendo o diminuendo di densità che vanno dagli amplissimi cieli variamente tersi o nuvolosi fino allo spessore della terra e alla durezza della pietra e all’impenetrabile lucentezza dell’acqua; così che il risultato è di una vastità quasi sconfinata anche quando l’opera, «il quadro», è di piccole dimensioni.
Si è parlato, a proposito di questo pittore, di Magritte; qui però ogni influsso dell’artista belga è scomparso: non c’è la sorpresa spaventata, ma, piuttosto, uno stupore che non è del tutto improvviso o imprevedibile; le forme si dipanano con tranquillità e calma. Ci sembra invece presente qualcosa dell’inquieta sospensione romantica di Friedrich o anche l’euritmica arcaicità un po’ fissa di Fabrizio Clerici. Di suggestioni se ne potrebbero trovare molte, tutte però appena accennate, ben armonizzate in un mondo poetico, limpido e personale.

Ogni artista, nella sua ricerca, segue un percorso. Non necessariamente il divenire tende al progresso, spesso le fasi si susseguono giustapponendosi e anche sovrapponendosi. Frange di ieri si sovrappongono ad elementi di oggi. Vi sono artisti che sembrano nascere maturi e altri che, invece, conquistano il loro linguaggio lentamente ed a fatica; alcuni quando credono di aver raggiunto una visione del mondo coerente non la abbandonano più, altri la infrangono per ricominciare nuovamente da capo. Ha senso osservare diacronicamente il lavoro di un artista? Non sarebbe meglio studiarlo sincronicamente; o forse ancor di più: non sarebbe meglio guardare ogni singola opera, ritenendola irripetibile? Con un significato autonomo? Però, non appena si è scelto quest’ultimo punto di vista, le opere cominciano a sovrapporsi le une sulle altre, con un’esplosione da caleidoscopio. Sarebbe forse meglio allora considerare tutto il percorso e ritenerlo un unico gesto artistico; ma qual è l’artista isolato? Tutti sono «anche» imitatori, ritorna il problema: visione sincronica o diacronica?
Questa volta però l’argomento riguarda tutta la storia dell’arte; dalla storia dell’arte si potrebbe passare a quella delle arti e così via, quasi all’infinito. Comunque si va di certo oltre le possibilità umane.
Tutte queste considerazioni ci sono venute alla mostra di Guido Turchiaro nelle sale di Palazzo Braschi, dal titolo L’arca di Turchiaro. Noi lo consideriamo un pittore che si è andato evolvendo, ma il cui senso dell’evolversi non si capisce quanto sia un progredire o non addirittura un regredire; magari verso moduli ossessivi, ostinati, monotonamente reiteranti. Eppure tutta la sua pittura è coinvolgente; poeticamente indifesa prima, poi impietosamente metallica, poi ancora ritualizzata in immagini quasi sempre uguali: i delfini. Girasoli, lamiere, grilli, mammiferi acquatici avanzano con la confusione di una processione medievale, promiscuamente ambigua. La natura è amata, ma è raccontata attraverso colori di caramella e di cartone animato. I delfini sono indiscutibilmente troppi:
alla fine diventano mostri antipatici ed irritanti. Per lo spettatore il coinvolgimento si trasforma in aggressività: viene voglia di dire: «basta non sei ancora così vecchio da dover diventare prolisso e ostinatamente ripetitivo». I vecchi sono queruli, lamentosi, ostinati, perché hanno paura del domani in cui c’è soltanto la morte. Quella di Turchiaro oggi rischia di essere una pittura vecchia e un po’ qualunquista, come sono i discorsi di troppe persone anziane.
Riesce bensì a stimolare qualche pensiero, ma non accompagna da nessuna parte; rimane inerte ed immobile. Forse inutile?