Psicoanalisi contro n.68 – Tanto per fare un esempio

dicembre , 1990

Una tra le motivazioni capaci, spesso, di determinare i comportamenti, i gesti e addirittura i modi di dire delle persone è la diretta identificazione – per lo più inconsapevole – con gli altri. Raramente, al di fuori del trattamento psicoanalitico, questo meccanismo riesce a venire in evidenza; succede invece con una certa regolarità che ad un determinato momento dell’analisi il paziente si trovi – magari con raccapriccio – a scoprire in sé caratteristiche tipiche del comportamento o del carattere di congiunti o conoscenti. Generalmente alla constatazione si accompagna il desiderio di ribellione, ma per lo più non si giunge ad inibire sul serio una dinamica così poco gradita. Ovviamente, anche all’interno dell’analisi il controllo delle identificazioni e la loro stessa presa di coscienza sono tanto più inibiti quanto più gli oggetti dell’identificazione sono detestati. L’analista deve stare molto attento a valutare l’opportunità di far notare queste identificazioni: se infatti il paziente non è pronto a riconoscere in se stesso quei modelli può irrigidirsi e ribellarsi, provocando una battuta d’arresto nel lavoro analitico o addirittura fuggendo. È bene accompagnare invece il paziente :verso una lenta presa di coscienza che gli permetta di credere di essere giunto da solo alla scoperta di ciò che gli fa tanto orrore. Le cose, quando vengono solo dette, rischiano di rimanere lettera morta e il paziente è prontissimo a dimenticarle; perciò il terapeuta deve con accortezza riprendere ogni frase, sottolineandone o a volte addirittura ingigantendone l’importanza, o conferendogli una grossa carica emotiva per mezzo magari di un silenzio volutamente carico di intenzioni.
Questi momenti di acquisizione della consapevolezza non sono indolori per il paziente; magari lo si vedrà agitarsi, disperarsi per non essere stato smentito come avrebbe desiderato; con qualche frase stizzita, anche, come: «Ma se anche lei pensa questo di me, perché non mi ha impedito di caderci? Mi dica piuttosto che sono solo paure mie, che non è vero.» Allora il terapeuta può permettere al paziente di divagare, di concentrarsi su qualcos’altro, di meno scomodo, in attesa che si presenti il momento opportuno per ritornare sul problema.

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Evidentemente però dà meno fastidio l’identificazione con qualcuno che si stima o che si accetta.
Se la suscettibilità individuale porta, fuori dell’analisi, a reagire anche in questi casi come davanti ad un offesa, tuttavia nell’analisi si fa molto meno fatica a pervenire alla consapevole accettazione, sebbene questa provochi ugualmente un certo disorientamento. Dà fastidio dover riconoscere che il proprio comportamento non è originale, che il linguaggio è quello caratteristico di qualcun altro, che appare chiara l’influenza di un «modello» per quanto ammirato ed ammirevole. Ogni essere umano vorrebbe essere assolutamente originale nel modo di comportarsi e di esprimersi; mentre invece è vero che ciascuno si costruisce attraverso i meccanismi dell’identificazione e della proiezione, che spesso si unificano in quello dell’«identificazione – proiezione» attraverso cui si cerca di fare proprio quello che si capta dell’altro, per poi ributtare all’esterno, su quello stesso altro, le caratteristiche che grazie a lui abbiamo appena acquisite, per meglio identificarci ancora una volta. È un gioco, come ho già detto, quasi infinito di rimandi che lentamente però ci costruiscono come siamo, insieme con quei caratteri fondamentali filogeneticamente trasmessi che partecipano alla formazione dell’individuo, fin dalla fase embrionale. Questo mutuo processo di inter-azione tra individuo e ambiente, non si arresta mai: vivere vuol dire identificarsi sempre con l’altro da sé e proiettare: l’io è sempre «uno, nessuno, centomila». Così è, che piaccia o no. La ribellione è impossibile. Meglio, se mai, scoprire la provenienza dei nostri comportamenti. Non sono soltanto le persone ad ispirarci e condizionarci, ma anche le cose.

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Tutti gli uomini – e non solo i «selvaggi» o i bambini – tendono a dare un’anima alle cose: le piante, i fiori, i sassi, il mare e le stelle sono per noi esseri vivi ed animati che si muovono con intenzione. Ogni cosa si dirige verso un obiettivo. Gli oggetti hanno un loro linguaggio e parlano, per chi li sa ascoltare.
Ci si può arrabbiare prendendosela con una scarpa, si può dare con stizza un calcio ad una porta, si può sbattere con violenza un libro sul tavolo per punirlo di averci tormentato. Facciamo fatica ad attualizzare davvero che gli oggetti intorno a noi non abbiano una psiche, non vogliano una cosa o l’altra: il sole si alza e va a dormire stanco. Non importa che razionalmente sappiamo che il sole non si leva mai e neppure si corica; così è per poeti, bambini, selvaggi e tutti gli altri; con il sole parliamo, anche se non con lo stesso stile di Orazio; capace lui anche di rivolgersi ad una città pigramente adagiata sulle rive di un fiume biondo come un eroe. Con le cose alle quali diamo anima arriviamo ad inscenare vere e proprie rappresentazioni, moltiplicando anche le identificazioni, come accade nei sogni, veri e propri spettacoli di cui siamo autori, registi ed attori allo stesso tempo.
Anche gli oggetti, dal canto loro, ci rimandano addosso le nostre proiezioni. È un’esperienza comune di restare affascinati a guardare le fiamme del camino, ascoltando il crepitio del fuoco che arde e identificandosi con le scintille che, come monachelle, spariscono nella gola buia verso il comignolo, piccole e rosse suore avviate verso chissà dove. Anche il camino ha una bocca con la quale parla. Tutto parla, a tutto diamo voce. Il meccanismo di proiezione-identificazione è continuo.

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Si verifica nell’articolato gioco delle identificazioni un fatto singolare: che ci si trovi addosso modelli che si rifanno a persone che risultano particolarmente odiose, che, incomprensibilmente, hanno finito con l’imporsi. Un esempio frequente è quello per il quale ci si trova a riproporre gli stessi moduli di comportamento di uno dei genitori o di entrambi, benché contro di essi si sia impegnata una lotta ed espresso un rifiuto deciso. Non si sa come, questi figli si ritrovano, senza averlo voluto, ad avere lo stesso comportamento del padre o della madre rifiutati, ad assomigliare loro anche nella positura, oltre che nella fisionomia; così accade spesso che si veda e si senta il più giovane accusare e condannare il più vecchio, proprio mentre esplicitamente ne è la parodia vivente, la copia conforme, in una moltiplicazione, attraverso generazioni e parentele, che sembra inspiegabile. I protagonisti non sembrano generalmente rendersene conto. Sono possibili ovviamente infinite variazioni di questi processi: i modelli vengono abbandonati e ripresi, spaziano nella cerchia extra-famigliare.
Una donna in analisi con me mi parlava molto male del proprio padre, che io non avevo mai conosciuto. Me lo descriveva come una persona brutta, dalla voce roca e chioccia; autoritario e narcisista. Uno dei tanti che parlano senza ascoltare, con la pretesa di avere sempre ragione. Mi diceva come fosse stato violento con lei e i due fratelli ai quali aveva inflitto, in passato, anche violente punizioni corporali. Una cosa tra le altre sembrava infastidire la mia paziente in modo particolare: suo padre era solito intercalare nei suoi discorsi l’espressione: «Tanto per fare un esempio»; alla quale succedeva generalmente un verboso sproloquio che non conduceva a nulla di sensato, nel quale addirittura finiva per impantanarsi perdendo lo stesso filo del discorso. Mentre mi parlava, io osservavo quella donna la cui voce a tratti si arrochiva, diventando chioccia; la sentivo mentre mi diceva che non riusciva a frenare le mani e batteva spesso il suo bambino di sei anni; sbalordito la udivo dire: «Tanto per fare un esempio» e poi trasformare la foga dell’eloquio in un vero e proprio sproloquio. Di tutto questo era assolutamente inconsapevole, eppure il modello del padre si ripeteva in lei quasi identico. Quando una volta la bloccai obbligandola a rendersi conto che mi aveva appena detto la famigerata frase che trovava così detestabile nel padre, rimase rigida e interdetta, balbettò ancora appena qualche parola e poi tacque costernata e passò in silenzio il resto della seduta. Il giorno dopo mi telefonò per dirmi che aveva intenzione di sospendere l’analisi; perché era troppo faticosa e costosa. Non le avevo obiettato nulla; certo che ci avrebbe ripensato. Cosa che fece: dopo poco più di un mese tornò.
La vidi entrare nello studio austera e solenne. Si sedette sul divano e con aria arcigna mi disse: «Allora secondo lei io sono come mio padre!» Le risposi: «Me lo dice lei, io non l’ho detto.» Poi cercò di dirmi che non era giusto che la giudicassi così solo per una frase che le era sfuggita e che senz’altro aveva in testa avendola sentita così spesso, una frase che ovviamente le si era appiccicata addosso. Con un po’ di cattiveria sibilai: «Le si è appiccicato addosso anche molto altro!» Lei fece il gesto di uscire; le feci notare che sarebbe tornata comunque. Lei si accasciò sul divano. Nel lavoro successivo, per molto tempo, non accennammo più al padre e a quella imbarazzante somiglianza; finché, per piccoli gradi, la questione ritornò ad essere affrontata. Dapprima la cosa le provocò una grossa depressione che fu però superata, permettendo infine un utile lavoro che servì a liberarla e alla fine del quale riuscì persino a sorridere di sé e della somiglianza.

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Un mio conoscente, tanti anni fa, detestava la propria madre: la giudicava troppo debole, remissiva, querula; sempre pronta a lamentarsi di una quantità inverosimile di malanni; convinta di essere la vittima in un mondo di perfidi ingannatori, sempre pronti a vilipenderla e a sopraffarla. Quell’uomo non si rendeva conto di descrivere se stesso.
Ovviamente aveva anche caratteristiche sue proprie: era un buon musicista e un palato raffinato, però si portava addosso tutti i difetti che rimproverava alla madre, addirittura ingigantiti. Una sera incontrai entrambi ad un concerto e mi fece impressione vederli così simili.
Una mia ex paziente, signorina politicamente impegnata: femminista e di sinistra, dal piglio mascolino e dal considerevole cattivo gusto, un giorno mi aveva parlato di un suo nipote, aitante ragazzone ventenne, sempre attento a essere «alla moda», elegante e sicuro, ben finanziato dai genitori, con scandalo della zia; la donna mi aveva voluto far notare quanto lei lo considerasse il proprio opposto. Nel lavoro successivo era poi venuta alla luce l’identificazione segreta con quel giovanotto; insieme ci fu possibile capire quanto di positivo e di negativo ci fosse in ciò, anche se la cosa costò qualche fatica. È bene stare all’erta quando si percepisce con particolare fastidio questa o quella caratteristica di qualcuno con cui abbiamo rapporti più o meno stretti: può darsi benissimo che ci stiamo difendendo e che non vogliamo diventare consapevoli di quanto noi stessi abbiamo trasferito su di noi quelle caratteristiche.
Non voglio dire che sempre desideriamo ciò che rifuggiamo o che ci identifichiamo in chi detestiamo. Questo è il partito degli psicoanalisti d’accatto che pretendono di considerare valido solo quello che risulta essere l’esatto rovescio del comportamento intenzionale. Ma quando i sentimenti di ripulsa sono particolarmente violenti, allora è bene non darsi tregua finché non si è messo in luce il motivo recondito di ciò.

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Inoltre è utile cercare di scoprire sempre chi stiamo, più o meno inconsapevolmente, parodiando. La parodia è sempre frutto di un atteggiamento psichico malato.
Imitare è sano, parodiare è morboso.
L’imitazione sana è quella che ci fa desiderare realmente essere come il nostro modello, che ammiriamo ed amiamo senza timore.
In questo caso non abbiamo ragione di risentirci del fatto che qualcuno scopra questa identificazione; anzi possiamo esserne contenti. È difficile distinguere l’imitazione dalla parodia, soprattutto perché gli altri sono sempre pronti ad assimilarle, per svalutare, invidiandola, l’identificazione positiva.
È un vezzo stantio che osservo persino tra i miei amici, allievi e collaboratori e che non smetterò mai di condannare abbastanza. È l’acidità malevola di chi si sente escluso da una vita fatta di comuni interessi affettivi, sessuali, culturali ed artistici; magari bizzarri.
Non credo di plagiare necessariamente coloro che consapevolmente, condividono con me i gusti e gli interessi e che magari solo per amore mi prendono a modello.
È un comportamento sano questo, che ci fa godere insieme le medesime gioie.
Certo c’è anche chi, non essendone consapevole, fa la parodia di questo stile di vita; ed anche per me allora è difficile non rimanere invischiato in questi illusionismi deteriori. L’importante è che in me e negli altri rimanga sempre la volontà di lavorare per essere in grado di separare la farina dalla crusca; lasciando gli invidiosi e gli arcigni soddisfatti della loro riduttiva libertà che è solitudine.

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Perché chi osserva negli altri un rapporto d’amore reagisce in modo così rabbioso, tentando di distruggerlo o svilirlo? Spesso questa eccessiva intolleranza, questa facilità ad accusare di plagio sono frutto dell’invidia suscitata da un desiderio troppo forte, di essere uno dei due termini della relazione amorosa che si pretenderebbe di stigmatizzare.
Gli uomini sanno essere con facilità malvagi; ma per fortuna la loro anima conosce sfumature più sfaccettate e poliedriche di quanto non si creda; bisogna imparare ad abbandonarsi a questa ricchezza emotiva. Senza lasciarsi sbattere come banderuole al vento, non dobbiamo arroccarci però nella difesa di un malinteso orgoglio. Dobbiamo saperci trasformare, imparare a conoscerci, ad andare alle fonti dell’invidia.

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Per andare alla radice del sentimento. A scoprire la sua sorgente nascosta, è indispensabile indagare su due aspetti dell’esistere umano: bisogna scandagliare sia l’inconscio individuale, sia quello sociale. Nell’inconscio individuale sono reperibili tutti quei giochi di identificazione che lentamente hanno costruito in noi le maschere: io sono come quello, quello e quell’altro ancora… Non si può sapere quando questo meccanismo abbia avuto inizio; può darsi persino che abbia recepito messaggi genetici. Poi ancora bisogna analizzare le proiezioni che ogni individuo mette in atto. Discernere ciò che è proprio da quello che deriva dall’esterno è molto difficile, ma non impossibile. Indubbiamente le due componenti rimarranno sempre un po’ sovrapposte, per cui ciascuno sarà in parte ciò che è ed in parte un frutto delle proiezioni ed identificazioni operate su di lui. Poiché la vita non è solo illusione io però ritengo possibile orientarsi; ho già detto anche come ai semplici meccanismi di proiezione ed identificazione si aggiunga un meccanismo misto che ho chiamato di proiezione-identificazione. L’inconscio sociale, in particolare, è costituito dalla somma di messaggi e di valori che l’individuo reperisce come «dati» nell’ambiente circostante e in cui tutti siamo immersi fin dal momento del concepimento. Confrontando continuamente l’inconscio individuale e l’inconscio sociale si può andare all’origine dei sentimenti umani. Non si riesce certo ad isolarne l’essenza assolutamente pura, tutto sarà mescolato con altre suggestioni, sensazioni e percezioni. Ma ripercorrendo a ritroso la corrente del fiume delle emozioni si può in qualche modo riuscire ad identificarle. Noi siamo le nostre emozioni e poco altro al di fuori di queste. Provare emozioni significa percepire; la percezione senza emozioni è impossibile per l’uomo.
Gli automi, le macchine, i meccanismi artificiali è probabile che reagiscano senza emozionarsi; un automa risponde sulla scorta del pacchetto di informazioni che gli è stato messo a disposizione e non ha bisogno d’altro né sa andare oltre. L’uomo invece è più imprevedibile, può darsi che lo si affermi perché lo si conosce meno di quanto si conosca un meccanismo artificiale; ma sta di fatto che di un essere umano non è possibile prevedere in modo assolutamente determinato le reazioni. Indubbiamente è possibile affermare che esiste un certo numero di costanti, perché senza di esse non si potrebbe fondare neppure un embrione di procedimento o sapere scientifico. La scienza deve potersi basare sulla previsione, per la quale è indispensabile disporre di una conoscenza anche minima del meccanismo del comportamento umano. Noi abbiamo potuto comunque avere la prova certa che la vita per l’uomo è essenzialmente percezione del mondo emotivamente connotata. La fredda ragione è un’ipotesi assurda, forse un desiderio impossibile.

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Vi è certo qualche differenza tra un gruppo di emozioni controllate ed il marasma di un parossismo emozionale; però sempre la percezione del mondo è emozionale ed emozionante. Sulle emozioni si agisce con altre emozioni; le parole si vestono di emotività e così i gesti. Nella psicoterapia si incontrano, si scontrano, si accorpano e si disgregano le situazioni emozionali di due protagonisti: il terapeuta e il paziente. Non è vero che l’uno sia solo il freddo osservatore e l’altro un povero individuo inconsapevole, squassato dall’emotività incontrollata. Lo psicoanalista agisce usando le proprie emozioni per intervenire sulla situazione emotiva del paziente; questi a sua volta sfodera tutte le sue possibilità emotive; capace come un novello Proteo di contorcersi e divincolarsi, cambiando forme e comportamenti. Eppure, finché resiste la situazione analitica, i due processi emotivi possono insieme costruire qualcosa di valido e di assennato che porta verso la guarigione. La guarigione non consiste in una chiara e asettica acquisizione di consapevolezza; ma è la capacità di controllare le emozioni, scegliendo di volta in volta la misura dell’accettazione dei sentimenti, acquisendo la capacità di non perdere in ogni momento il fine ultimo del congiungimento con Eros.
Ritrovare Eros è ritrovare la capacità di vivere in armonia coi propri sentimenti, recuperando il gusto della vita. È la salute.