Archivio di novembre 1990

67 – Novembre ‘90

giovedì, 1 novembre 1990

Certamente riduttivo sarebbe sospettare di opportunismo stagionale il ciclico ritorno in piazza del movimento studentesco. Come gli stormi di pennuti migranti di carducciana memoria, però, ogni anno centinaia di migliaia di studenti anneriscono l’orizzonte dei boulevards parigini e le più meridionali piazze di casa nostra, scandendo il garrire della protesta. La protesta è giusta e conseguentemente è sacrosanto il diritto di gridarla ad alta voce. Non è neppure un grave delitto che dietro a pochi capopattuglia si snodino chilometriche file di passerotti oziosi che nel gioco della dimostrazione in piazza sfogano la noia e il rifiuto causati da una scuola che qui ed ovunque è, non certo per caso, allo sfascio. Anche i modi dello sfogo non sono casuali: la violenza indiscriminata dei casseurs parigini fa paura a tutti e serve a rafforzare tanto il razzismo più o meno classista quanto l’integralismo più radicale.

Questa violenza è nelle cose:

rappresenta la restituzione di una oppressione discriminante altrettanto violenta; razziale senz’altro, ma anche culturale. E la cultura è vero che viene negata ai poveri e agli immigrati ma è anche vero che viene ugualmente negata ai figli di quella che fino a ieri si illudeva di essere una borghesia dalla ben precisa identità culturale e di classe.

Questi elementi minimi di riconoscimento oggi mancano ai padri e a maggior ragione anche ai figli.

Per questo non c e neppure più bisogno che ci sia !’illusione di un ‘ideologia per scendere in campo.

Oggi i ragazzi non hanno bisogno di bandiere e non sentono il bisogno di chiamare «esproprio» il saccheggio. Del resto non è proprio l’esercito dei «gladiatori» il più adatto a contenere, controllare, correggere ed educare.

Oltre che per motivi stagionali, gli studenti anche per ragioni generazionali non possono purtroppo sottrarsi al dovere della ribellione che benché non nasca più oggi da quelli che . fino a ieri consideravamo motivi nobili, non è per questo più becera.

Quello che fa paura è però la considerazione che siamo stati noi a produrre questa realtà istituzionale e siamo stati ugualmente noi a generare questi figli senza «ideali» (?).

Quanta capacità autocritica ci vuole I per riconoscere che ieri abbiamo creduto di lottare per un mondo di cui riuscivamo a vedere solo uno scorcio troppo angusto?

Speriamo solo che questi ragazzi «nel pallone» oggi non volino così alto da non riuscire più a vedere quel che c’è davvero da vedere su questa terra.

67 – Novembre ‘90

giovedì, 1 novembre 1990

Il film di Bertrand Tavernier, Daddy nostalgie, se viene messo a confronto con gran parte della produzione più recente di cui abbiamo anche avuto occasione di parlare, rivela doti di grande correttezza e capacità professionale di regista e interpreti.
Non è però il caso di pensare al capolavoro, come qualcuno, anche a Cannes, ha fatto. È un lavoro di routine, di andamento banale e scontato, che affonda e fa affondare gli spettatori in una soporifera nebbiolina di noia. Realistiche sembrerebbero essere le intenzioni degli autori nel proporre come evento quotidiano la morte, il cui approssimarsi vorrebbe essere evocato con dimessa sincerità. Inoltre il tutto, sempre nelle intenzioni, viene soffuso di malinconica poesia.
Secondo noi questi fabbricanti di storie di tutti i giorni, attenti osservatori dei piccoli gesti e dei particolari apparentemente più insignificanti, dovrebbero leggere con più attenzione Giovanni Pascoli o Pierre Reverdy, per imparare da loro che cosa voglia dire scoprire cosa si può nascondere di grande e misterioso dietro il suono di una campana o nel brivido di una foglia. Se non si ha la grandezza spirituale di cogliere il palpito espresso dai gesti più semplici della vita, non si raccontano che storie qualunque, in un andirivieni di personaggi che risultano soltanto insulsi. Qui l’ottanta per cento della pellicola è occupato dalla descrizione delle colazioni del mattino, con una ripetitività esasperante. L’iterazione è un mezzo poetico molto importante, non dimentichiamo l’importanza dei «da capo» delle grandi arie operistiche. Però la ripetizione non deve mai diventare ripetitività, se non vuol correre il rischio di risvegliare la noia.
Una giovane donna, scrittrice di soggetti IX il cinema, viene richiamata da una telefonata al capezzale del padre, sottoposto a un gravissimo intervento (si supporrebbe « cuore aperto»). All’uscita dall’ospedale dopo l’operazione apparentemente riuscita, decide di passare coi due vecchi genitori qualche tempo, nella loro casetta alla periferia ormai devastata di una cittadina sul mare nel sud della Francia. Ben presto consapevole che quelli saranno gli ultimi giorni di vita del padre, la figlia si adopra perché trascorrano il più serenamente possibile, in contrasto bisbetico-affettuoso con la vecchia madre intransigente fino all’ultimo, anch’essa per amore. Come è giusto che sia, per quanto scontato, gran parte del rapporto è costituito dalla rievocazione con maggiore o minore rimpianto del passato. La nostalgia permette all’affetto di diventare esplicito. Quando pensa che la missione sia compiuta, la scrittrice ritorna al suo studio, giusto in tempo perché una nuova telefonata le annunci l’ormai sopraggiunta morte del padre.
Ciò che a nostro parere è nefasto di questa realizzazione è senz’altro l’effetto devastante del doppiaggio: una recitazione monotona sgradevole, inverosimile, che viene appiccicata senza criterio ai personaggi. La cosa è resa ancora più evidente dall’inserimento di molti dialoghi recitati in inglese dai due interpreti con la loro voce originale. Se vero che Jane Birkin continua ad avere una dizione insopportabile da «anatra»; è altrettanto vero che Dirk Bogarde sfodera un bella recitazione, con voce calda e sensuale, che, pur contrastando col vecchio personaggio decrepito, affascina e non ha nulla a che vedere con la voce chioccia ed inespressiva del suo doppiatore italiano. La fotografia di Denis Lenoir si ubriaca del paesaggio marino e dei particolari urbani e intimi. La musica di M. Denamel, priva di mordente, oscilla tra un ovvio jazz melodico ed alcune suggestioni baroccheggianti.

67 – Novembre ‘90

giovedì, 1 novembre 1990

Ci ha fatto piacere che l’Accademia di S. Cecilia abbia scelto per l’inaugurazione della sua stagione sinfonica, finalmente, un’opera contemporanea: La vera storia di Luciano Berio, su libretto di Italo Calvino, diretta dallo stesso compositore.
La decisione è significativa anche dell’attuale mutato atteggiamento generale nei confronti della musica dei nostri giorni, non più vista come un coacervo di moduli incomprensibili e noiosi. Indubbiamente una sinfonia di Beethoven o di Brahms avrebbero attirato più pubblico, però non mancavano molti spettatori davvero interessati.
Si tratta di un’opera monumentale in cui c’è di tutto e ce n’è per tutti i gusti.
Il testo di Calvino risulta un po’ confuso: occhieggia al melodramma ottocentesco, dispiegando uno stuolo di prigionieri, condannati a morte, esecuzioni, rivoluzioni, fratelli rivali e madri dolenti, il tutto inserito nell’andirivieni di troppi personaggi tra cui un invadente e pleonastico cantastorie. L’opera è divisa in due parti: nella prima la vicenda si svolge in modo lineare, anche cronologicamente; nella seconda il musicista ha shakerato lo stesso materiale rendendolo un pastiche totalmente incomprensibile, dal punto di vista teatral-letterario, più convincente però in un senso strettamente musicale.
Oltre ai soli, coro e due attori, l’orchestra si avvale anche di una banda, due chitarre, fisarmonica, pianola e fischietti e di un complesso vocale.
Il discorso procede per chiazze sonore che talvolta si stagliano nette e talaltra invece si confondono. Ci sono momenti di assoluto divertimento ed altri di angoscia disperata. Limpidi giochi contrappuntistici sfumano in un bailamme di suoni acidi e dissonanti. Non mancano alcune arie quasi tradizionali: quella bella e ampia, ad esempio, melodia del basso, all’inizio; i tenori, invece, gorgheggiano sempre in una smaccata imitazione del Pinkerton di Madame Butterfly; stupefatte, drammatiche e un po’ fisse le melopee della madre che pur talvolta riescono a raggiungere effetti di grande intensità nel registro del mezzosoprano. Un po’ ovvie e speculari, rispettivamente nel primo e nel secondo atto, le parti riservate alle due voci di soprano.
Il baritono, di per sé efficace, scivola però su di una orchestrazione spesso insignificante. La voce del cantastorie oscilla tra valzerini alla Weill e torniture jazzistiche.
La banda che in alcuni punti sembra soltanto intonare gli strumenti, in altri ha un piglio popolaresco e divertente. Il coro usato con sapienza, urla, recita, strilla e qualche volta canta anche. L’intervento degli attori (Dario Cassini e Vincenzo Zingaro) risulta totalmente estraneo al contesto. La parti tura fa ricorso ad un espediente che ci è risultato assolutamente incomprensibile: a partire dalla metà del primo tempo e proseguendo per tutta la seconda parte, fino alla conclusione, è presente un ossessivo suono di sirena, talvolta in primo piano, altre volte quasi ingoiato dagli altri suoni, ma sempre percepibile e, bisogna dire, fastidioso.
La direzione di Luciano Berio è stata ottima: solisti, orchestra e coro risultavano amalgamati alla perfezione: ne scaturivano bellissimi suoni puri ed accurati impasti sonori. Il coro diretto da Norbert Balatsch interveniva preciso e duttile e ugualmente precisi erano gli interventi degli Electric Phoenix diretti da Terry Edwards.
Tutti i cantanti (ad eccezione del cantastorie) hanno fornito interpretazioni di grande qualità nei rispettivi ruoli: pastosa la voce del basso Francesco Ruta; bella e squillante quella del tenore Peter Hall; e ben dosato, nello stesso registro, Neil Wilson; curato il fraseggio del baritono Lajos Miller; Sue Patchell esibiva una voce di soprano sciolta e brillante; Luisa Castellani, nella seconda parte, faceva altrettanto bene; superlativa l’interpretazione del mezzosoprano Dunja Vejzovic, dotata di una voce estesa e profonda, usata in modo efficacissimo. Non ci è piaciuta per niente la chiacchieratissima Milva: inespressiva, emetteva note calanti e quando scendeva o saliva, in qualche passaggio più impegnativo, dalla sua gola non uscivano vere e proprie note; inoltre non andava mai a tempo. La situazione poi non era tale da dare risalto alcuno alla sua recitazione para-brechtiana, oltretutto poco pertinente; del resto ci sembra che la regia di Caroline De Beus non sia stata in grado di fare chiarezza in un marasma generale a metà fra l’opera e il concerto.

67 – Novembre ‘90

giovedì, 1 novembre 1990

Con quale criterio sono stati scelti gli espositori ammessi alla mostra dei Giovani artisti a Roma, allestita al Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale?
«La commissione non ha avuto alcun preconcetto; ha solo valutato le domande pervenute, cercando di fare una scelta omogenea per qualità e contemporaneamente esplorare le tendenze più diverse in modo da allargare il ventaglio delle proposte e fare avere al pubblico uno spaccato abbastanza fedele di quanto avviene oggi a Roma «nel segreto dei laboratori degli artisti.» Così recita lo scritto di presentazione di Enzo Bilardello a pagina otto del catalogo edito da Carte Segrete. Queste affermazioni ci hanno lasciati, a dir poco, sbalorditi. Noi non vogliamo mettere in discussione la buona fede e l’assoluta onestà di intenti di chi ha operato le scelte; ma scambiare la quasi assoluta monotona identità delle opere per «omogeneità» ci sembra una bizzarria avventata. Tutto quel cumulo di ciarpame nel quale si leggono chiaramente la povertà di idee e l’abbondanza di volgarità sembra l’opera di un solo autore: sbarre di ferro, pezzi di stoffa, specchi, pietre e legni grezzi, si presentano ossessivamente appena differenziati da un assemblaggio leggermente diversificato. Due soli sono gli elementi che sembrano discostarsi dal modulo generale; ma a ben osservare non ne sono che una variante invariabile e sono: il busto di imitazione classica esibito da Manlio Caropreso all’interno di una sua installazione dal titolo Incendio consumptum restituit e le striscie di carta igienica Senza titolo di Stefania Casagrande.
Vorremmo anche far notare una palese contraddizione nelle poche righe succitate: se la commissione «ha solo valutato le domande pervenute» come è possibile che contemporaneamente si sia fatta «una scelta omogenea»? Noi non crediamo assolutamente che il pubblico possa trarre da questa mostra «uno spaccato abbastanza fedele» del panorama artistico giovanile romano.

67 – Novembre ‘90

giovedì, 1 novembre 1990

Octavio Paz, premio Nobel per la letteratura 1990, è una figura di spicco della cultura ispanoamericana. Messicano, è stato ambasciatore del suo Paese in India ed Estremo Oriente, assorbendone fascinazioni e culture. In questi giorni è di grande attualità per il riconoscimento appena ottenuto e le diverse case editrici hanno rimesso in libreria tutto quello che lo concerne, anche se sepolto da alcuni anni in magazzino. A noi è capitata sotto mano l’antologia intitolata Vento cardinale e altre poesie (Mondadori, 1984, pagg. 355, Lit. 34000) che raccoglie scritti dal 1958 al 1974; con la traduzione curata da Franco Mogni per la celeberrima collana I poeti dello Specchio.
Dobbiamo quindi dichiarare che non conosciamo l’opera narrativa di questo autore, la cui poesia non ci è sembrata di grande valore, per cui non entriamo in merito al giudizio eccellente che di lui hanno dato i giurati di Stoccolma.
Quella di Paz è una poesia monotona e ripetitiva: di un surrealismo molto convenzionale, fiorito qua e là di buoni versi, ma soprattutto fatta di suggestioni derivanti dall’opera dello spagnolo Garcia Lorca: «il toro della paura» (pag. 105), «le pietre sono più pietre che mai» (pag. 175), «giardino di rasoi» (pag. 183), «onda/farfalla di sale» (pag. 219). Si ripete un estenuato decadentismo quasi patologico: «un rubino/istante incandescente/goccia di fuoco» (pag. 71) oppure: «nuda/come il vino nell’anfora di vetro» (pag. 161). Il poeta qualche volta viene addirittura tradito da una concezione della sensualità piuttosto volgare e per nulla erotica: «ardo e annego. Hai/ solo un corpo?» e anche: «Giù/la calda strettoia/l’onda che si dilata e si rompe/le tue gambe aperte» (pag. 165). Alla fine della raccolta si può leggere uno scritto teorico che incomincia così: «Il testo poetico è inspiegabile, non inintelligibile». Segue una serie di banalità sul ritmo della poesia e la funzione del poeta; si precipita poi in una vera e propria insalata di parole di stampo psicotico.

67 – Novembre ‘90

giovedì, 1 novembre 1990

Sembra strano che a pochi passi dal traffico che infernale fluisce e si ingorga, tra il Circo Massimo e Porta S. Paolo, appena lasciata piazza Albania si possa già godere della pace dell’Aventino, con le sue strade alberate e le vie dal nome arcadico, come la via dell’Arco di Diana, al cui inizio si trova quel curioso e lì per lì paradossale ristorante Apuleius. Appena varcata la soglia lo spreco di . veri e falsi ruderi, il finto stile pompeiano e il premurosissimo affaccendarsi dei camerieri fanno temere fortemente. Invece il nostro giudizio su di un’esperienza così singolare è quanto mai positivo. Se infatti si ha l’accortezza di stare lontano da quelle proposte del menù che, esplicitamente, si raccomandano al turista becero in vena di esotismi, si può gustare una cucina sapida, basata su materie prime eccellenti, manipolata da un vero professionista che sa tenere anche conto della voracità dei suoi clienti, preparando piatti abbondanti e talvolta giganteschi.
Si può, come abbiamo fatto noi, iniziare con quattro saporiti antipasti marinari: mazzancolle con rughetta, insalata di mare, polipetti affogati e sauté misto, accompagnati da una fetta di pane caldo, condito con olio, ma senza aglio «per delicatezza» verso i commensali e anche verso il palato; sebbene molti dei prodotti siano congelati, riescono nell’insieme a conservare fragranza e sono solo peccati veniali l’insalata troppo fredda e i polipetti dalla salsa piccante serviti prima del più delicato sauté. Il punto di forza dello chef risultano però i primi piatti di pasta: tutti abbondantissimi, ma sempre cotti al punto giusto con sughi perfettamente tirati; noi abbiamo assaggiato spaghetti alla sorrentina, tonnarelli mare e monti, bavette all’aragosta con piena soddisfazione. Per gioco, e a ragion veduta, ci siamo anche fatti portare la delizia di Madame Léonard: una doppietta di tortellini al salmone e spaghetti al caviale, raccapriccianti! Onestà e professionalità rivelano anche i secondi piatti di carne, a parte qualche indecisione sul sale; abbiamo apprezzato i tournedos alla Rossini generosi di buon paté; un filetto Strogonoff in cui la dose dovuta di panna era contenutissima, come è giusto che sia; uno spesso e morbido filetto al cognac e una ineccepibile lombata alla Sassi con croccanti patate sautées.
Generosissimi anche i dessert: la coppa Anastasi è una montagna di gelato sommersa di ottima cioccolata fusa e panna fresca; il tiramisù è dignitoso; purtroppo nell’Irish coffee sfigurava una obbrobriosa aggiunta di panna montata.
I vini della lista non sono molti e neppure dimostrano eccesiva fantasia; però vi si trovano alcune buone classiche proposte; ci sono stati serviti in modo ineccepibile e nei bicchieri giusti un Pinot grigio di Livio Felluga dell’89, profumato e armonico, e un Taurasi di Mastroberardino dell’85 ottimo, dal sentore di mandorla e vaniglia e nobilitato da un percepibile goudron.
Tutto questo evidentemente non può essere offerto a basso costo; però pensiamo che il conto dovrebbe essere un po’ più tenuto sotto controllo.

67 – Novembre ‘90

giovedì, 1 novembre 1990

Al Teatro San Genesio di via Podgora, La Compagnia del Teatro Moderno di Claudio Padovani presenta La Compagnia delle Attrattive in Follia del Tabarin, commedia con musiche, di Nicola Fiore e David Corsoni, regia di Romolo Siena musiche di e curate da Riccardo Belpassi con le coreografie di Demetrio Anderson. È questo uno spettacolo che, nella sua semplicità, è tutto godibile.
Ciò che vogliamo mettere prima di tutte in evidenza è la grande bravura di tutti gli interpreti: Antonella Fabbrani, Maurizio Merolla, Filippo Brazza, Demetrio Anderson, Pina Irace, Micaela Schibuola e Eliana Ericina.
Tutti infatti sanno – oltre che recitare – cantare e ballare in modo molto efficace, e sono anche capaci di porgere canzoni e battute, con molta simpatia ed una bella sensualità.
Il copione nel suo insieme è piuttosto ingenuo, però, in una continua girandola di trovate e situazioni spiritose, offre agli attori ballerini e cantanti la possibilità di sfoderare le migliori qualità.
Una miscellanea di canzoni percorre il periodo compreso negli anni venti: da Come pioveva a Le cocottine del Pireo; da Tictì Tictà al Tango delle capinere.
Il grande pregio di questa messa in scena è che il «bel tempo andato» è fatto rivivere da ragazzi e ragazze per i quali quelle canzoni e quelle battute non hanno un particolare effetto nostalgico, per cui la loro comunicazione è pura, schietta ed immediata, senza languori intellettualistici.
Se qualcosa del genere c’è, è negli spettatori anziani come noi o anche di più, che vi aggiungono il loro carico sentimentale, che non sempre è della migliore specie. Il valore artistico di quelle parole e quelle musiche, sebbene non sia quasi mai eccelso, rivela le tracce di una generazione che ha saputo fare della musica, che oggi si direbbe leggera, un veicolo di autoironia, di riflessione e anche di giocoso divertimento.

L’altra sera avevamo l’impressione, quando siamo usciti dal Teatro Ateneo, di essere marziani.
Avevamo appena assistito alla rappresentazione di: Claus Peymann compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me, di Thomas Bernhard, allestita dal Granteatro con la regia di Carlo Cecchi, interpretata dal medesimo e da Gianfelice Imparato.
Ci sentivamo stralunati e straniti, con l’impressione di essere gli unici a stupirsi del fatto che si mettesse in scena «sul serio» una cosa tanto stupida e insensata.
Avevamo visto un incredibile accoppiamento di qualunquismo ottuso e di becero goliardismo, e nessuno si era ribellato. Le tre parti in cui si articola il testo raccontano la storia, più o meno autobiografica, dello stesso Bernhard, alle prese con il suo trasferimento dal teatro della cittadina tedesca di Bochum alla direzione del famoso e impegnativo Burgtheater di Vienna e si dilungano sui suoi sfoghi artistico-esistenziali di autore, regista e drammaturgo. Siamo d’accordo che in teatro mandare messaggi è ormai fuori moda e l’impegno politico è addirittura archeologico; però la vacuità della chiacchiera e la più assoluta mancanza di umorismo non servono certo a costruire da sole uno spettacolo.
Non si possono ritenere umoristiche le squallide e bambinesche battute sui critici, gli attori e i drammaturghi; non si può chiamare impegno politico il monotono elenco di cariche statali, abbinate sempre all’aggettivo criminali (o nazisti); è poi di una desolante tristezza dover constatare che la situazione più esilarante è data dal progetto del Direttore Bernhard di allestire contemporaneamente tutti i testi di Shakespeare, compresi i sonetti, in tutte le lingue del mondo, nello spazio di cinque ore. Anche la realizzazione lasciava molto a desiderare: Carlo Cecchi, con una voce monotona e una dizione sporchissima (e non ci importa che sia volutamente) ha bofonchiato dall’inizio alla fine; per di più, nell’ultima parte si è anche infilato in bocca enormi bocconi da un tramezzino, col risultato di sputare sul pubblico senza far capire più niente: pane, saliva e parole; anche il suo disarticolato gestire, nel parodiare chissà quali nevrotici sintomi, non dava al personaggio maggior efficacia. Il lavoro di spalla svolto da Imparato, in un corretto anonimato disegnava un personaggio del tutto pleonastico; rivelando in tutta la sua gravità l’assenza di una qualunque intenzione registica. Le scene di Titina Maselli si barcamenavano tra gli effetti ormai scontati del fumetto pop e il frivolo sentimentalismo delle lucine del presepio. Chi volesse saperne di più su Thomas Bernhard può leggersi, anche nella traduzione italiana, i suoi «dramoletti» e rendersi conto della loro poca teatralità.

Psicoanalisi contro n.67 – Il peccato originale

giovedì, 1 novembre 1990

Come ho già detto molte volte, nessuno compie un gesto o dice una frase, senza avere una costellazione di motivazioni, alcune consce, altre inconsce. Coloro i quali credono nel «libero arbitrio» e ritengono quindi l’essere umano responsabile delle proprie azioni, considereranno alcuni gesti giustificati dal peso ineluttabile delle cause, mentre altre volte non riterranno che le motivazioni servano da giustificazioni. Gli altri invece, che credono in un principio rigorosamente meccanicistico giudicheranno inevitabile il realizzarsi di ciò che è, come conseguenza di una serie di azioni e reazioni per cui le motivazioni saranno determinanti di un comportamento, se avranno energia sufficiente; in ogni caso costoro considerano l’essere umano oggetto passivo di energie che gli sono esterne. Per questi meccanicisti ad oltranza, l’uomo sembrerebbe sottratto al problema morale del rimorso o del cosiddetto «senso di colpa». Eppure non è così: se pure una mente raziocinante tende a giustificare qualunque comportamento perché in ogni caso frutto di meccanismi sottratti alla volontà umana, nessuno però riesce a sottrarsi davvero al rimorso. Epicuro, Freud e i loro seguaci, pur professando un credo deterministico, tuttavia non riescono ad eliminare dalla loro coscienza quella strana sensazione che ogni tanto rimorde. Il peccato originale è al principio della storia dell’uomo.
Raccontano i testi sacri della grande religione occidentale: Adamo poteva scegliere di mangiare o non mangiare il frutto dell’albero proibito; fu per sua colpa che cadde vittima della tentazione. Già sul primo uomo si getta l’ombra della responsabilità piena e della sostanziale libertà di scelta. In quale spazio «infra-coscenziale» si situi il libero arbitrio non è dato a nessuno di sapere e a nessuno di insegnarlo; neppure sono state formulate ipotesi plausibili in merito. Chi crede nel libero arbitrio lo afferma come dato di fatto inspiegabile, ma che è capace però di dare un senso alla vita dell’uomo, il cui agire sarebbe altrimenti un puro delirio sconnesso. Si potrebbe domandare per quale ragione la vita dovrebbe avere un senso invece di essere un magma più o meno caotico. Appare chiaro che non si trovano risposte che diano piena soddisfazione razionale, per cui resta valido solo il fatto che comunque si è costretti a scegliere una posizione o l’altra.
Che si creda o non si creda alle sacre scritture della religione giudaico-cristiana, non si può però negare che l’uomo porti con sé, fin dal principio, il senso di una colpa originaria da cui si sente macchiato. È una verità oscura: chissà come e chissà quando è avvenuto quel delitto il cui rimorso viene trasmesso filogeneticamente attraverso le generazioni. Tutti nasciamo con la possibilità della colpa: ogni essere umano si è trovato più di una volta nella vita a dire: «Se non avessi fatto quello, se non avessi detto quelle parole!» Dentro, il rimorso scava e accompagna la vita dell’uomo.
L’assoluta inconsapevolezza è impossibile: con la coscienza si desta anche il rimorso, insieme, naturalmente, con una grande quantità di altri sentimenti. Per ora però voglio occuparmi in particolare di quest’ombra che ognuno porta con sé: una colpa antica che si attualizza ogni volta che le conseguenze del nostro agire ci disturbano e provocano in noi il rammarico per qualcosa che abbiamo fatto.

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Ecco in noi una colpa misteriosa e lontana, e ancora tante altre colpe. Potremmo tranquillamente chiamarli peccati. Colpa e peccato sono due termini diversi, ma non distinguibili. Il peccato sta alle origini ed ha alle sue spalle il libero arbitrio; il sentimento della colpa è la conseguenza del peccato ed è da esso indivisibile. Siamo liberi e perciò scegliamo. Scegliamo perché siamo liberi. Possiamo credere o non credere in questa libertà originaria; in ogni caso ci comportiamo come se ci fosse stata data. Se così non fosse, la coscienza talvolta non ci rimorderebbe tanto. È un grave errore far coincidere il rimorso con il dispiacere per qualcosa che è accaduto: la grandine che cade dal cielo, le grandi onde del mare che tutto travolgono causando disastri non ci fanno sentire in colpa, se non pensiamo che avremmo potuto far qualcosa per evitare o diminuire i danni.
Quando invece ci sentiamo in colpa allora la mente ripercorre tutta la lunga catena di cause e concause in cui vediamo la possibilità che avremmo avuto di agire diversamente da come abbiamo agito. La colpa opprime e pesa, il rimorso incomincia a tormentare; qualcuno riesce ad attenuarne la forza, nessuno è mai riuscito a farlo tacere del tutto. Lady Macbeth si aggira insonne, si guarda le mani e vorrebbe pulirle di quel sangue di cui le vede ancora macchiate; ma nessuna acqua riuscirà a cancellare quelle tracce; alla fine la terribile Lady soccombe sotto il peso della sua colpa gigantesca, schiacciata dal rimorso che la distrugge.

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Il rimorso è un’esperienza di tutti gli esseri umani. Vi sono persone moralmente più rigorose che si sentono addirittura perseguitate dai rimorsi. Il rimorso non dipende dalla volontà; spesso infatti si tenta di scacciarlo; ma il ricordo di ciò che è stato e che la coscienza disapprova continua a martellare nel pensiero. Talvolta, non riuscendo a scacciare questi ricordi carichi di colpa, si tenta di affrontarli, di vincerli, trovando giustificazioni, che, dimostrando l’inevitabilità dei nostri comportamenti, ci liberino; ma raramente ci si riesce e per lo più vince l’impressione opprimente del peccato commesso. A conti fatti, rigoristi e lassisti sono ugualmente perseguitati dai rimorsi. A questa condizione generale si aggiungono poi situazioni particolari che sconfinano nella patologia. In questi casi il peccato diviene una presenza costante ed ossessiva. La coscienza rimorde per un nonnulla e accade addirittura che si provi l’impressione di avere commesso una colpa senza sapere neppure quale; costante ed ineludibile si sente su di sé pesare l’ombra del delitto. Sono vittime di questa sindrome del peccato senza contenuto concreto persone eccessivamente scrupolose che continuamente riesaminano i loro gesti ricavandone sempre grande disagio. Avviene anche che si stabiliscano comportamenti di «prevenzione» quasi ridicoli, tesi ad evitare ogni disattenzione che possa comportare danno o pregiudizio a se stessi e agli altri. Sono rituali scomodi, che raramente sono imposti da un sincero altruismo; non tanto infatti mirano a difendere il prossimo dalle conseguenze di un gesto sbagliato; ma sono completamente indirizzati ad allontanare da sé le conseguenze del rimorso. Ricordo una persona in analisi con me: oppressa dal rimuginio dei rimorsi. In particolare mi viene alla mente un episodio che mi narrò. Un giorno era andato con amici alla ricerca di funghi. Non essendo molto esperto sottopose il frutto della ricerca ad un amico botanico, che, dopo attenta osservazione gli fece gettare via alcuni esemplari raccolti. In particolare egli ricordava che uno dei funghi, schiacciato con un dito aveva schizzato una specie di sostanza blu diventando anche di quel colore. Nel paese in cui aveva passato l’infanzia qualcuno gli aveva detto che quel tipo di funghi era certamente velenoso. Nonostante sapesse di avere fatto esaminare il contenuto dei panieri a qualcuno in grado di discernere quelli velenosi dagli altri, si era messo, appena tornato a casa, a fare un giro di telefonate, raccomandando a tutti i partecipanti alla raccolta di stare attenti, di far la prova del blu. Non era però riuscito a trovare un amico ed aveva perciò passato tutta la notte in preda ad un’ansia affannosa. Ovviamente e fortunatamente non era poi successo nulla. Spesso queste persone così ossessivamente scrupolose si ostinano su particolari minimi e giungono a gesti gravidi di conseguenze per gli altri pur di calmare il loro affanno. Diventano completamente assorbiti dai rituali e incuranti totalmente del bene altrui, con una perdita dello stesso senso di realtà.
Sono molti quelli che vengono da me oppressi da un disagio costante ed acuto, sotto il peso di una colpa che ignorano, dalla quale però non riescono a distogliere l’attenzione.

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Il rimorso è il ricordo di una colpa, la colpa si riferisce al peccato, il quale evoca il timore della punizione, per scongiurarla gli uomini si sottomettono ai rituali di purificazione. Per questo chi sente di essersi macchiato di una colpa mette in atto una serie di gesti di espiazione. Perché la sofferenza dovrebbe purificare? Perché il peccatore ha bisogno di lavarsi l’anima nel dolore? Nell’inconscio sociale di questa nostra cultura occidentale il bene è associato al piacere e il male al dolore. Perciò il male non solo procura dolore; ma anche deve essere lavato dalla sofferenza. Il piacere si sovrappone al bene, anche se non sempre coincide con esso totalmente. Chi agisce secondo giustizia ha diritto ad un premio che lo gratifichi. La bontà deve avere come suo effetto la felicità; se ciò non accade su questa terra è opinione di alcuni che inevitabilmente accadrà in un al di là dove finalmente ed immancabilmente i conti saranno saldati. Comunque sia, rimane il fatto che per gli uomini di questa terra il bene e il male vanno premiati o puniti; quando ciò non si realizza si patisce per il sopravvento di un’ingiustizia che distrugge, corrode e fa soffrire gli individui e i gruppi sociali. L’idea della giustizia realizzata rasserena e rende felici gli uomini che vivono in comunità; per ottenere questo si punisce il peccato infliggendo al peccatore pene che gli procurano una sofferenza che ristabilisce l’equilibrio. Questo principio è profondamente radicato nell’inconscio sociale e non mi pare il caso di discutere qui ed ora quanto possa essere un principio valido oppure no. Il peso di una colpa originaria spinge molti alla ricerca di una sofferenza che permetta l’espiazione; in molti casi una condizione psichica particolarmente malata spinge il bisogno di punizione e di sofferenza a livelli parossistici e sempre meno legati al principio di realtà. Non è facile determinare il punto in cui è avvenuto il passaggio da una condizione di rimorso che ha una «normale» giustificazione e il rimorso «patologico». È ovvio che chi ha realmente e concretamente commesso azioni che hanno causato ad altri dolore ha la coscienza che gli rimorde, per cui il suo pensiero torna continuamente a riflettere su quei gesti, provocando rammarico e stimolando la voglia di ricevere una punizione, che, pur dolorosa, lo liberi da un’oppressione costante. C’è però chi prova in modo eccessivo questi sentimenti di rimorso per gesti minimi o senza che neppure riesca a dare loro un oggetto definito in qualche modo: anche in questi casi si fa sentire il bisogno di punizione, anzi diventa anch’esso parossistico e violento. Cosa si nasconde dietro questa assurda percezione?
Qualcosa ci deve essere senz’altro.

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Sono molto spesso fantasie e desideri inconfessabili alla coscienza: aver desiderato la morte o augurato il dolore a persone affettivamente molto significanti; aver fantasticato rapporti sessuali perversi o innominabili o con persone con le quali la sessualità non è lecita. C’è anche la possibilità – che io non credo sia da considerare fantascientifica – di rimorsi trasmessi geneticamente e collegati in qualche modo all’inconscio sociale. Quasi sempre ci troviamo però in presenza di un concorso di entrambe le cause, che, sommandosi, provocano nevrosi o psicosi. Sebbene, come abbiamo visto, non sia possibile tracciare una linea netta di demarcazione tra comportamento normale e patologico, pur tuttavia, alcuni atteggiamenti esasperati possono essere classificati come «malati». In questi casi, i meccanismi punitivi raggiungono esasperate intensità: il desiderio della sofferenza fisica spinge a ricercarla praticamente. Una persona in analisi con me, leggendo i risultati di una serie di esami di laboratorio, ai quali si era sottoposta, dietro mio suggerimento, mi diceva con molto rammarico: «Non ho proprio nulla. Come è possibile che non abbia qualche malattia?» Aggiungeva di essere contenta, ma di non poter davvero credere di non avere malattie; mi diceva convinta: «Eppure io debbo essere malata.» (Faccio notare l’importanza di questo uso del verbo dovere). Qualche tempo dopo la stessa persona riuscì a procurarsi una malattia «organica». Questi individui perseguono con costanza la ricerca del dolore e nei casi estremi giungono a commettere tentativi di suicidio che non sono, come si crederebbe, solo dimostrativi; ma che provano quanto forte e reale sia il desiderio di soffrire fino all’autodistruzione, dalla quale soltanto ritengono possa partire una possibilità di rigenerazione. Distruzione e rigenerazione sono le molle di questi tentativi di suicidio; pericolosi perché, sebbene non sia nelle possibilità umane il desiderio della morte in quanto annullamento, pure essa può sopravvenire nella furiosa ricerca di un cambiamento veramente radicale, di un’autopunizione che sola può purificare dalla colpa, liberare dal male di una vita che ha assunto forme intollerabili. Prima di questi gesti estremi è possibile osservare come ci siano stati mille altri modi di esprimere il disagio: si sono iniziate con entusiasmo e abbandonate subito dopo con delusione mille attività diversissime fra loro, compiacendosi del disastroso risultato. È anche possibile che queste persone vincendo se stesse, riescano ad innamorarsi; ma subito col loro comportamento contraddicono questo amore, travolgendolo con valanghe di accuse, recriminazioni. Molto spesso sono invece in preda al rammarico di non essere amati; si inebriano della propria disperata solitudine che si guardano bene dal superare, crogiolandosi invece in una visione del mondo in cui hanno posto solo l’odio e l’indifferenza degli altri. Il triste è che accade che realmente intorno a loro e a causa dei loro modi si crei un atteggiamento di rifiuto e repulsione. «Mi odiano; non so cosa fare perché mi amino!» Il più delle volte c’è una considerevole consapevolezza di essere causa col proprio detestabile atteggiamento del disamore altrui e ciò solo rafforza i comportamenti più perversi. È un modo per permettersi poi di odiare ed insultare. Il loro «Non mi amano» è in verità un «Non voglio che mi amino.» La mancanza di amore è la punizione più profonda che riescano ad immaginare e di questa punizione non cessano di saziarsi, sperando di appagare il rimorso patologico che li divora. Sono infiniti gli esempi che potrei portare, spero comunque di essere riuscito a dare un quadro sintomatico sufficiente.

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Si verifica poi quasi sempre che una patologia come quella descritta sopra si manifesti attraverso un capovolgimento totale: in questo caso si punisce invece di autopunirsi; vengono messi in atto infiniti ricatti. La persona che soffre si trasforma in una persona che è soprattutto cattiva. La cattiveria non è una categoria di giudizio che appartenga alla nosografia psicoanalitica; ma esprime significativamente la realtà delle cose. Noi siamo abituati all’uso da parte della scienza psicologica di un linguaggio asettico e neutrale; dire che qualcuno è «cattivo» sembra esprimere una condanna solo morale e non corrispondere sufficientemente a una diagnosi precisa.
Invece io voglio servirmi di questo termine proprio per non lasciare alibi, non dare adito ad interpretazioni ambigue. L’asetticità del linguaggio scientifico spesso infatti impoverisce l’efficacia dell’espressione. Diremo quindi che questi «malati» sono semplicemente «cattivi».
Nel loro caso le motivazioni non sono giustificazioni, anche se la loro malvagità è unita a una grande sofferenza, che non basta però a «purificare» la perfidia. Sono madri che picchiano i figli più piccoli per poi disperarsi davanti al loro pianto; figli che scacciano di casa la madre, per dolersene poi; è gente che riesce a contrarre malattie gravi o avere incidenti paurosi, paga di osservare la sofferenza dei famigliari al capezzale; espressione massima di questi casi è il tentato suicidio che butta gli altri nella disperazione e ridesta il sentimento della colpa che li fa sentire corresponsabili. Ci sono piccoli gesti premonitori e rivelatori di questi eccessi: sono lo strapparsi ciocche di capelli, rosicchiarsi compulsivamente le unghie e staccarsi le pellicine delle mani e dei piedi fino a sanguinare. Tutti gesti che si concludono con uno sguardo di soddisfatta sofferenza davanti alla costernazione degli astanti. Ci sono studenti che ricercano il disastro agli esami; uomini d’affari che si buttano in speculazioni avventate e chiaramente fallimentari. È sempre una volontà di punire gli altri attraverso il proprio scacco. Inoltre la consapevolezza di tutto questo induce disprezzo e volontà di aggressione verso se stessi: «Sono una madre snaturata!» «Sono un figlio ingrato!» «Sono un padre scellerato!» Sono grida di chi è consapevole di aggredire il mondo attraverso il proprio fallimento, ma è incapace di sottrarsi al meccanismo perverso della sofferenza. Di fronte a costoro si è spesso impotenti: cercare di alleggerire i loro rimorsi, tentando di consolare o rassicurare è inutile, anzi peggiora la situazione, perché provoca la furiosa reazione di chi non vuole sentirsi amato o aiutato, rischiando quindi di far precipitare la situazione. D’altra parte fare richiamo alle responsabilità e accusare chi è già fin troppo consapevole significa solo incentivare il comportamento delirante. Si finisce così per essere spettatori impotenti di una spirale malvagia che non si riesce a spezzare.

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Forse non siamo abbastanza abituati ad osservare con attenzione gli altri, partendo da presupposti come quelli che ho abbozzato fin qui, per cui le mie possono parere costruzioni astratte e improbabili. Eppure sono sicuro che l’osservazione attenta ed anche l’auto osservazione di come ci muoviamo noi stessi finisca per rivelare come quei presupposti di cattiveria ci siano anche nelle situazioni quotidiane, seppure non arrivino ad eccessi incontrollati. Scoprire in noi e in chi ci sta vicino l’effetto di questi meccanismi può essere utile opera di prevenzione. Un rischio che si corre quando ci si rende conto di simili cose è quello della pigrizia morale; spesso infatti comprendere le motivazioni dei comportamenti meno accettabili induce a credere di averli in parte corretti, ma non è così. La cattiveria rimane intera anche quando le motivazioni profonde hanno reso comprensibile il peggiore dei gesti; bisogna avere il coraggio di non giustificarla quando la si è riconosciuta. La mia condanna è drastica; ma nondimeno resta la mia volontà di lottare con tutta la mia energia contro queste forme di perversione. Sebbene cattive, le persone in cui mi imbatto portano con sé una grande sofferenza e chiedono, anche con sincerità, aiuto. Per quanto difficile possa essere, il terapeuta ha il dovere di prendersene cura.
Ogni essere umano ha molte resistenze di fronte alla cura. Tutti siamo attaccati alle nostre malattie, organiche o psichiche che siano. Però i «cattivi» di cui ci stiamo occupando in queste righe sono particolarmente .affezionati alla loro malattia e la cosa traspare chiara quando buttano in faccia al terapeuta frasi come:
«Tu non mi vuoi curare, sei indifferente e distratto; io t’ho chiesto aiuto e tu non me lo vuoi dare.» Queste affermazioni indisponenti rivolte contro chi dovrebbe curare il loro male sono espresse con determinata malizia.
Entrambe le difese, sadomasochismo e narcisismo, sono particolarmente pronunciate in questi casi; per fortuna solo di rado le due modalità si fondono nella corazza impenetrabile della follia, che pure viene sfiorata nei momenti più acuti. Con sadomasochistica voluttà assaporano la sofferenza che procurano a sé e agli altri; oppure sono per lunghi periodi immersi in una narcisistica situazione di ottusità. Narcisisticamente esaltano le loro disgrazie incuranti del mondo e degli altri, che divengono scena e spettatori di una rappresentazione che fa ricorso a tutti gli effetti del teatro e che si sovrappone a tutto ciò che è esterno, nascondendolo e coprendolo con una bava di parole. È anche possibile che si scelga una stupefatta inerzia, un silenzio rancoroso; gli occhi guardano senza vedere, costoro sono persi nell’osservazione di se stessi, come tanti Narciso. Quando si verificano i momenti di follia provocati dalla sovrapposizione dei due tipi di difesa, i gesti distruttivi si moltiplicano, e può accadere che per un errore di valutazione, per un dosaggio involontariamente efficace si ponga fine al tutto con un suicidio non veramente ricercato. Quello che costoro vorrebbero è non morire mai, per poter infinitamente inscenare la ricerca della morte, ripetere continuamente comportamenti deliranti che distruggono e fanno soffrire loro stessi e gli altri. Una percezione distorta della realtà finisce col togliere ai loro gesti ogni efficacia: la preoccupazione della rappresentazione li allontana dal mondo. È vero che tutti recitiamo sempre, però in questi casi la recita diventa un solitario delirio; le parole dette si trasformano in formule automatiche, i pensieri ruotano meccanicamente; si cerca, anche coi gesti meno adeguati, di soffocare l’angoscia che sale e senza vera consapevolezza inizia il gioco con la morte. Quando il masochismo interviene a spezzare il delirio narcisistico è solo per decretare e confermare il piacere dell’autodistruzione.

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I comportamenti patologici del tipo fin qui descritto si radicano in un retroterra culturale ben preciso. Nell’inconscio sociale esiste una forma di fascinazione per la malattia e per la sofferenza, che talvolta viene addirittura ricercata e perseguita come mezzo di ascesi. A mio avviso, per quanto nobile e virile sia saper sopportare le avversità della sorte, quando non se ne può fare a meno, è tuttavia patologico augurarsele e procurarsele. Offrire al buon Dio le proprie pene senza farnee ricadere le conseguenze sugli altri, sopportandole con abnegazione, è quanto mai ammirevole e santo. Ciò non toglie che il dolore e la sofferenza, in se stessi, non possano veramente essere un mezzo che ci avvicini alla divinità. Il comportamento sano è quello che combatte il dolore proprio e altrui e lo tiene lontano. La ricerca del dolore equivale alla ricerca del male, poiché la sofferenza in ogni suo aspetto è sempre male, per cui, nel perseguirla, non ci può essere alcuna santità. Bisogna essere capaci, francescanamente, di assaporare la letizia; è giusto ricercare la gioia, si ha il dovere di essere e rendere gli altri felici. Pena e dolore sono dalla parte del Maligno. Si può essere o non essere credenti, ma bisogna sempre sapere che nel dolore c’è la malvagità. Eppure, con o senza l’alibi della religione, si è formata nel nostro inconscio sociale la concezione dell’ineluttabilità e talvolta del valore catartico del dolore, da cui deriva anche il piacere che esso giunge a procurare in particolari situazioni patologiche, siano esse caratterizzate dal misticismo o dal sadomasochismo per così dire «laico». Si è soprattutto dato alla sofferenza il significativo ruolo di strumento di espiazione; e si è finito per ridurre l’espiazione a se stessa, trasformandola così a sua volta in una colpa, in un interminabile gioco di rimandi. Insieme con i messaggi che ci vengono dall’inconscio sociale, ci sono quelli che vengono dalla storia personale di ciascuno: l’inconscio individuale è frutto di una serie di esperienze e di condizionamenti; corrisponde ad un cammino che ognuno percorre in continua inter-relazione con l’inconscio del gruppo sociale. Ne deriva che non ci possono essere due comportamenti uguali, per quanto possano sembrare simili. C’è tuttavia una affinità che accomuna gli esseri umani sulla quale si può radicare il principio della cura;
da essa si possono indurre e dedurre considerazioni scientifiche. Se non ci fosse una costante nell’evoluzione della vicenda umana e una certa uniformità nei principi di causa ed effetto, non sarebbe possibile intervenire, né costruire basi teoriche su cui fondare l’azione. Nonostante ciò, soprattutto in campo psicologico, bisogna considerare ogni comportamento come caso unico; ogni generalizzazione equivale a semplificazione, che può indurre in errore. Per questo c’è da diffidare di un uso generalizzato dei modi della psicologia sperimentale, che non può che essere frutto d’una scarsa conoscenza della realtà umana e tradursi in una ingenuità scientifica. Ogni persona ha una sua fisionomia, unica e irripetibile, che si è costituita come risultante di un rapporto dialettico tra individuo e società. Il metodo scientifico deve usare gli strumenti che ha ricavato dallo studio delle costanti per applicarli all’assoluta specificità di ogni caso, evitando ogni tentazione di generalizzare.

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Una ragazza carica di sofferenza, sommersa dall’angoscia e dalla disperazione, mi parlava e parlava a tutti gli altri sputando continuamente veleno, vomitando cattiverie su tutto e su ogni cosa. Il bersaglio principale della sua perfidia era però lei stessa: si tormentava in continuazione; alle spalle aveva una storia lunga di veri e finti tentativi di suicidio, che ogni tanto continuava ad inscenare. Tentava di far fallire tutto ciò che intraprendeva, immersa in una pigrizia malata. Si rotolava su se stessa, sommergendosi di autoaccuse, alternate a commiserazione di sé: «Il mondo è malvagio; ma la peggiore sono io.» Era molto consapevole infatti della propria cattiveria, di cui per altro non riusciva a fare meno. Seminava la sofferenza intorno a sé. Era oppressa da rimorsi continui; intensamente convinta di avere commesso chissà quali colpe e chissà quando, con una fede in ciò quasi metafisica. L’odio dentro di lei era intenso e devastante e la consapevolezza di odiare le faceva odiare anche se stessa, per cui si puniva punendo gli altri. Ogni loro gesto d’amore o anche solo di gentilezza le provocava rigetto: «Perché mi amano, visto che io sono così cattiva?» L’amore si trasformava, nelle sue mani, in odio, che lei riconosceva e in cui si avvolgeva.
Un serio e onesto padre di famiglia quarantenne incominciò a sentire dentro di sé un peso strano. Una notte, verso le tre, si svegliò: l’ora del lupo. Sul comodino la sveglia continuava ad emettere quel ticchettio rassicurante di sempre, capace di conciliargli il sonno; quella volta invece andò diversamente: quei tic-tac gli sembravano colpi di martello che gli si imprimevano con violenza nella testa. Sentì salire un disagio profondo; gli si andava formando un senso di catastrofe che lo faceva sudare e gli raggelava le mani.
Ebbe la percezione di aver commesso una colpa, gravissima, che non riusciva a riconoscere. Da quella notte era partito un meccanismo perverso di autopunizione che lo aveva reso sempre più sofferente e più cattivo. Si puniva, punendo la moglie e i figli, gli anziani genitori, i colleghi e gli amici. Colpa e punizione e di nuovo punizione e colpa. Si era incattivito sempre più, i rimorsi erano dilagati facendolo soffrire nell’illusione di espiare. Era venuto da me in uno stato di devastazione che mi aveva impressionato e fatto esitare; sapevo quanto duro sarebbe stato per entrambi uscire dal gorgo. Sono due storie vere, appena accennate, che sintetizzano e incarnano, nella umanità dolente di due persone e del mondo affettivo circostante, l’enunciazione teorica che ho fatto fin qui.

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È faticoso mantenere fino in fondo l’impegno terapeutico con persone così ostili; ma è indispensabile. Chi vive con costoro non sa come comportarsi: ogni gesto, ogni frase possono essere capovolti. Rispondere con aggressività aumenta e non riduce la violenza e altrettanto avviene coi gesti d’amore e di comprensione. Si vive così immersi in un circolo vizioso. La terapia può contribuire a spezzarlo, per quanto sia vero che gli stessi problemi si pongono allo psicoterapeuta. Per fortuna, la sua particolare posizione gli dà un punto di forza in più. Partendo di qui deve saper trovare quelle espressioni di aggressività o di tenerezza che riescano ad incunearsi tra le fantasie perverse che occupano la mente del paziente. Il fatto di avere accettato o addirittura richiesto la cura è un segno positivo, ma che viene continuamente contraddetto: la cattiveria ottenebra il pensiero, malgrado ogni sforzo. È difficile anche per il terapeuta amare queste persone, talvolta sembra proprio impossibile. Se però si riesce a provare un po’ di affetto di fronte a tanta malvagia sofferenza, la cura può incominciare ad avere qualche effetto.