67 – Novembre ‘90

novembre , 1990

Al Teatro San Genesio di via Podgora, La Compagnia del Teatro Moderno di Claudio Padovani presenta La Compagnia delle Attrattive in Follia del Tabarin, commedia con musiche, di Nicola Fiore e David Corsoni, regia di Romolo Siena musiche di e curate da Riccardo Belpassi con le coreografie di Demetrio Anderson. È questo uno spettacolo che, nella sua semplicità, è tutto godibile.
Ciò che vogliamo mettere prima di tutte in evidenza è la grande bravura di tutti gli interpreti: Antonella Fabbrani, Maurizio Merolla, Filippo Brazza, Demetrio Anderson, Pina Irace, Micaela Schibuola e Eliana Ericina.
Tutti infatti sanno – oltre che recitare – cantare e ballare in modo molto efficace, e sono anche capaci di porgere canzoni e battute, con molta simpatia ed una bella sensualità.
Il copione nel suo insieme è piuttosto ingenuo, però, in una continua girandola di trovate e situazioni spiritose, offre agli attori ballerini e cantanti la possibilità di sfoderare le migliori qualità.
Una miscellanea di canzoni percorre il periodo compreso negli anni venti: da Come pioveva a Le cocottine del Pireo; da Tictì Tictà al Tango delle capinere.
Il grande pregio di questa messa in scena è che il «bel tempo andato» è fatto rivivere da ragazzi e ragazze per i quali quelle canzoni e quelle battute non hanno un particolare effetto nostalgico, per cui la loro comunicazione è pura, schietta ed immediata, senza languori intellettualistici.
Se qualcosa del genere c’è, è negli spettatori anziani come noi o anche di più, che vi aggiungono il loro carico sentimentale, che non sempre è della migliore specie. Il valore artistico di quelle parole e quelle musiche, sebbene non sia quasi mai eccelso, rivela le tracce di una generazione che ha saputo fare della musica, che oggi si direbbe leggera, un veicolo di autoironia, di riflessione e anche di giocoso divertimento.

L’altra sera avevamo l’impressione, quando siamo usciti dal Teatro Ateneo, di essere marziani.
Avevamo appena assistito alla rappresentazione di: Claus Peymann compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me, di Thomas Bernhard, allestita dal Granteatro con la regia di Carlo Cecchi, interpretata dal medesimo e da Gianfelice Imparato.
Ci sentivamo stralunati e straniti, con l’impressione di essere gli unici a stupirsi del fatto che si mettesse in scena «sul serio» una cosa tanto stupida e insensata.
Avevamo visto un incredibile accoppiamento di qualunquismo ottuso e di becero goliardismo, e nessuno si era ribellato. Le tre parti in cui si articola il testo raccontano la storia, più o meno autobiografica, dello stesso Bernhard, alle prese con il suo trasferimento dal teatro della cittadina tedesca di Bochum alla direzione del famoso e impegnativo Burgtheater di Vienna e si dilungano sui suoi sfoghi artistico-esistenziali di autore, regista e drammaturgo. Siamo d’accordo che in teatro mandare messaggi è ormai fuori moda e l’impegno politico è addirittura archeologico; però la vacuità della chiacchiera e la più assoluta mancanza di umorismo non servono certo a costruire da sole uno spettacolo.
Non si possono ritenere umoristiche le squallide e bambinesche battute sui critici, gli attori e i drammaturghi; non si può chiamare impegno politico il monotono elenco di cariche statali, abbinate sempre all’aggettivo criminali (o nazisti); è poi di una desolante tristezza dover constatare che la situazione più esilarante è data dal progetto del Direttore Bernhard di allestire contemporaneamente tutti i testi di Shakespeare, compresi i sonetti, in tutte le lingue del mondo, nello spazio di cinque ore. Anche la realizzazione lasciava molto a desiderare: Carlo Cecchi, con una voce monotona e una dizione sporchissima (e non ci importa che sia volutamente) ha bofonchiato dall’inizio alla fine; per di più, nell’ultima parte si è anche infilato in bocca enormi bocconi da un tramezzino, col risultato di sputare sul pubblico senza far capire più niente: pane, saliva e parole; anche il suo disarticolato gestire, nel parodiare chissà quali nevrotici sintomi, non dava al personaggio maggior efficacia. Il lavoro di spalla svolto da Imparato, in un corretto anonimato disegnava un personaggio del tutto pleonastico; rivelando in tutta la sua gravità l’assenza di una qualunque intenzione registica. Le scene di Titina Maselli si barcamenavano tra gli effetti ormai scontati del fumetto pop e il frivolo sentimentalismo delle lucine del presepio. Chi volesse saperne di più su Thomas Bernhard può leggersi, anche nella traduzione italiana, i suoi «dramoletti» e rendersi conto della loro poca teatralità.