67 – Novembre ‘90

novembre , 1990

Ci ha fatto piacere che l’Accademia di S. Cecilia abbia scelto per l’inaugurazione della sua stagione sinfonica, finalmente, un’opera contemporanea: La vera storia di Luciano Berio, su libretto di Italo Calvino, diretta dallo stesso compositore.
La decisione è significativa anche dell’attuale mutato atteggiamento generale nei confronti della musica dei nostri giorni, non più vista come un coacervo di moduli incomprensibili e noiosi. Indubbiamente una sinfonia di Beethoven o di Brahms avrebbero attirato più pubblico, però non mancavano molti spettatori davvero interessati.
Si tratta di un’opera monumentale in cui c’è di tutto e ce n’è per tutti i gusti.
Il testo di Calvino risulta un po’ confuso: occhieggia al melodramma ottocentesco, dispiegando uno stuolo di prigionieri, condannati a morte, esecuzioni, rivoluzioni, fratelli rivali e madri dolenti, il tutto inserito nell’andirivieni di troppi personaggi tra cui un invadente e pleonastico cantastorie. L’opera è divisa in due parti: nella prima la vicenda si svolge in modo lineare, anche cronologicamente; nella seconda il musicista ha shakerato lo stesso materiale rendendolo un pastiche totalmente incomprensibile, dal punto di vista teatral-letterario, più convincente però in un senso strettamente musicale.
Oltre ai soli, coro e due attori, l’orchestra si avvale anche di una banda, due chitarre, fisarmonica, pianola e fischietti e di un complesso vocale.
Il discorso procede per chiazze sonore che talvolta si stagliano nette e talaltra invece si confondono. Ci sono momenti di assoluto divertimento ed altri di angoscia disperata. Limpidi giochi contrappuntistici sfumano in un bailamme di suoni acidi e dissonanti. Non mancano alcune arie quasi tradizionali: quella bella e ampia, ad esempio, melodia del basso, all’inizio; i tenori, invece, gorgheggiano sempre in una smaccata imitazione del Pinkerton di Madame Butterfly; stupefatte, drammatiche e un po’ fisse le melopee della madre che pur talvolta riescono a raggiungere effetti di grande intensità nel registro del mezzosoprano. Un po’ ovvie e speculari, rispettivamente nel primo e nel secondo atto, le parti riservate alle due voci di soprano.
Il baritono, di per sé efficace, scivola però su di una orchestrazione spesso insignificante. La voce del cantastorie oscilla tra valzerini alla Weill e torniture jazzistiche.
La banda che in alcuni punti sembra soltanto intonare gli strumenti, in altri ha un piglio popolaresco e divertente. Il coro usato con sapienza, urla, recita, strilla e qualche volta canta anche. L’intervento degli attori (Dario Cassini e Vincenzo Zingaro) risulta totalmente estraneo al contesto. La parti tura fa ricorso ad un espediente che ci è risultato assolutamente incomprensibile: a partire dalla metà del primo tempo e proseguendo per tutta la seconda parte, fino alla conclusione, è presente un ossessivo suono di sirena, talvolta in primo piano, altre volte quasi ingoiato dagli altri suoni, ma sempre percepibile e, bisogna dire, fastidioso.
La direzione di Luciano Berio è stata ottima: solisti, orchestra e coro risultavano amalgamati alla perfezione: ne scaturivano bellissimi suoni puri ed accurati impasti sonori. Il coro diretto da Norbert Balatsch interveniva preciso e duttile e ugualmente precisi erano gli interventi degli Electric Phoenix diretti da Terry Edwards.
Tutti i cantanti (ad eccezione del cantastorie) hanno fornito interpretazioni di grande qualità nei rispettivi ruoli: pastosa la voce del basso Francesco Ruta; bella e squillante quella del tenore Peter Hall; e ben dosato, nello stesso registro, Neil Wilson; curato il fraseggio del baritono Lajos Miller; Sue Patchell esibiva una voce di soprano sciolta e brillante; Luisa Castellani, nella seconda parte, faceva altrettanto bene; superlativa l’interpretazione del mezzosoprano Dunja Vejzovic, dotata di una voce estesa e profonda, usata in modo efficacissimo. Non ci è piaciuta per niente la chiacchieratissima Milva: inespressiva, emetteva note calanti e quando scendeva o saliva, in qualche passaggio più impegnativo, dalla sua gola non uscivano vere e proprie note; inoltre non andava mai a tempo. La situazione poi non era tale da dare risalto alcuno alla sua recitazione para-brechtiana, oltretutto poco pertinente; del resto ci sembra che la regia di Caroline De Beus non sia stata in grado di fare chiarezza in un marasma generale a metà fra l’opera e il concerto.