67 – Novembre ‘90

novembre , 1990

Octavio Paz, premio Nobel per la letteratura 1990, è una figura di spicco della cultura ispanoamericana. Messicano, è stato ambasciatore del suo Paese in India ed Estremo Oriente, assorbendone fascinazioni e culture. In questi giorni è di grande attualità per il riconoscimento appena ottenuto e le diverse case editrici hanno rimesso in libreria tutto quello che lo concerne, anche se sepolto da alcuni anni in magazzino. A noi è capitata sotto mano l’antologia intitolata Vento cardinale e altre poesie (Mondadori, 1984, pagg. 355, Lit. 34000) che raccoglie scritti dal 1958 al 1974; con la traduzione curata da Franco Mogni per la celeberrima collana I poeti dello Specchio.
Dobbiamo quindi dichiarare che non conosciamo l’opera narrativa di questo autore, la cui poesia non ci è sembrata di grande valore, per cui non entriamo in merito al giudizio eccellente che di lui hanno dato i giurati di Stoccolma.
Quella di Paz è una poesia monotona e ripetitiva: di un surrealismo molto convenzionale, fiorito qua e là di buoni versi, ma soprattutto fatta di suggestioni derivanti dall’opera dello spagnolo Garcia Lorca: «il toro della paura» (pag. 105), «le pietre sono più pietre che mai» (pag. 175), «giardino di rasoi» (pag. 183), «onda/farfalla di sale» (pag. 219). Si ripete un estenuato decadentismo quasi patologico: «un rubino/istante incandescente/goccia di fuoco» (pag. 71) oppure: «nuda/come il vino nell’anfora di vetro» (pag. 161). Il poeta qualche volta viene addirittura tradito da una concezione della sensualità piuttosto volgare e per nulla erotica: «ardo e annego. Hai/ solo un corpo?» e anche: «Giù/la calda strettoia/l’onda che si dilata e si rompe/le tue gambe aperte» (pag. 165). Alla fine della raccolta si può leggere uno scritto teorico che incomincia così: «Il testo poetico è inspiegabile, non inintelligibile». Segue una serie di banalità sul ritmo della poesia e la funzione del poeta; si precipita poi in una vera e propria insalata di parole di stampo psicotico.