67 – Novembre ‘90

novembre , 1990

Certamente riduttivo sarebbe sospettare di opportunismo stagionale il ciclico ritorno in piazza del movimento studentesco. Come gli stormi di pennuti migranti di carducciana memoria, però, ogni anno centinaia di migliaia di studenti anneriscono l’orizzonte dei boulevards parigini e le più meridionali piazze di casa nostra, scandendo il garrire della protesta. La protesta è giusta e conseguentemente è sacrosanto il diritto di gridarla ad alta voce. Non è neppure un grave delitto che dietro a pochi capopattuglia si snodino chilometriche file di passerotti oziosi che nel gioco della dimostrazione in piazza sfogano la noia e il rifiuto causati da una scuola che qui ed ovunque è, non certo per caso, allo sfascio. Anche i modi dello sfogo non sono casuali: la violenza indiscriminata dei casseurs parigini fa paura a tutti e serve a rafforzare tanto il razzismo più o meno classista quanto l’integralismo più radicale.

Questa violenza è nelle cose:

rappresenta la restituzione di una oppressione discriminante altrettanto violenta; razziale senz’altro, ma anche culturale. E la cultura è vero che viene negata ai poveri e agli immigrati ma è anche vero che viene ugualmente negata ai figli di quella che fino a ieri si illudeva di essere una borghesia dalla ben precisa identità culturale e di classe.

Questi elementi minimi di riconoscimento oggi mancano ai padri e a maggior ragione anche ai figli.

Per questo non c e neppure più bisogno che ci sia !’illusione di un ‘ideologia per scendere in campo.

Oggi i ragazzi non hanno bisogno di bandiere e non sentono il bisogno di chiamare «esproprio» il saccheggio. Del resto non è proprio l’esercito dei «gladiatori» il più adatto a contenere, controllare, correggere ed educare.

Oltre che per motivi stagionali, gli studenti anche per ragioni generazionali non possono purtroppo sottrarsi al dovere della ribellione che benché non nasca più oggi da quelli che . fino a ieri consideravamo motivi nobili, non è per questo più becera.

Quello che fa paura è però la considerazione che siamo stati noi a produrre questa realtà istituzionale e siamo stati ugualmente noi a generare questi figli senza «ideali» (?).

Quanta capacità autocritica ci vuole I per riconoscere che ieri abbiamo creduto di lottare per un mondo di cui riuscivamo a vedere solo uno scorcio troppo angusto?

Speriamo solo che questi ragazzi «nel pallone» oggi non volino così alto da non riuscire più a vedere quel che c’è davvero da vedere su questa terra.