67 – Novembre ‘90

novembre , 1990

Il film di Bertrand Tavernier, Daddy nostalgie, se viene messo a confronto con gran parte della produzione più recente di cui abbiamo anche avuto occasione di parlare, rivela doti di grande correttezza e capacità professionale di regista e interpreti.
Non è però il caso di pensare al capolavoro, come qualcuno, anche a Cannes, ha fatto. È un lavoro di routine, di andamento banale e scontato, che affonda e fa affondare gli spettatori in una soporifera nebbiolina di noia. Realistiche sembrerebbero essere le intenzioni degli autori nel proporre come evento quotidiano la morte, il cui approssimarsi vorrebbe essere evocato con dimessa sincerità. Inoltre il tutto, sempre nelle intenzioni, viene soffuso di malinconica poesia.
Secondo noi questi fabbricanti di storie di tutti i giorni, attenti osservatori dei piccoli gesti e dei particolari apparentemente più insignificanti, dovrebbero leggere con più attenzione Giovanni Pascoli o Pierre Reverdy, per imparare da loro che cosa voglia dire scoprire cosa si può nascondere di grande e misterioso dietro il suono di una campana o nel brivido di una foglia. Se non si ha la grandezza spirituale di cogliere il palpito espresso dai gesti più semplici della vita, non si raccontano che storie qualunque, in un andirivieni di personaggi che risultano soltanto insulsi. Qui l’ottanta per cento della pellicola è occupato dalla descrizione delle colazioni del mattino, con una ripetitività esasperante. L’iterazione è un mezzo poetico molto importante, non dimentichiamo l’importanza dei «da capo» delle grandi arie operistiche. Però la ripetizione non deve mai diventare ripetitività, se non vuol correre il rischio di risvegliare la noia.
Una giovane donna, scrittrice di soggetti IX il cinema, viene richiamata da una telefonata al capezzale del padre, sottoposto a un gravissimo intervento (si supporrebbe « cuore aperto»). All’uscita dall’ospedale dopo l’operazione apparentemente riuscita, decide di passare coi due vecchi genitori qualche tempo, nella loro casetta alla periferia ormai devastata di una cittadina sul mare nel sud della Francia. Ben presto consapevole che quelli saranno gli ultimi giorni di vita del padre, la figlia si adopra perché trascorrano il più serenamente possibile, in contrasto bisbetico-affettuoso con la vecchia madre intransigente fino all’ultimo, anch’essa per amore. Come è giusto che sia, per quanto scontato, gran parte del rapporto è costituito dalla rievocazione con maggiore o minore rimpianto del passato. La nostalgia permette all’affetto di diventare esplicito. Quando pensa che la missione sia compiuta, la scrittrice ritorna al suo studio, giusto in tempo perché una nuova telefonata le annunci l’ormai sopraggiunta morte del padre.
Ciò che a nostro parere è nefasto di questa realizzazione è senz’altro l’effetto devastante del doppiaggio: una recitazione monotona sgradevole, inverosimile, che viene appiccicata senza criterio ai personaggi. La cosa è resa ancora più evidente dall’inserimento di molti dialoghi recitati in inglese dai due interpreti con la loro voce originale. Se vero che Jane Birkin continua ad avere una dizione insopportabile da «anatra»; è altrettanto vero che Dirk Bogarde sfodera un bella recitazione, con voce calda e sensuale, che, pur contrastando col vecchio personaggio decrepito, affascina e non ha nulla a che vedere con la voce chioccia ed inespressiva del suo doppiatore italiano. La fotografia di Denis Lenoir si ubriaca del paesaggio marino e dei particolari urbani e intimi. La musica di M. Denamel, priva di mordente, oscilla tra un ovvio jazz melodico ed alcune suggestioni baroccheggianti.