Archivio di marzo 1990

61 – Marzo ‘90

giovedì, 1 marzo 1990

Frasi come «la mafia ha vinto» o «la sconfitta delle istituzioni» o anche «il colpo inferto al cuore dello Stato» vorrebbero richiamare l’attenzione sulla lotta in corso tra lo Stato e forze che gli si oppongono con propositi delittuosi. Cosicché si sentono risonare appelli perché la coscienza civica si desti dal letargo e accorra a difendere le istituzioni che teoricamente dovrebbero rappresentare il Paese dei cittadini. Ma quest’appello cade generalmente nel vuoto. Le ragioni di questa mancata risposta sono molte, ma, sopra le altre, due sembrano dominanti: il cittadino non si riconosce nello Stato e inoltre sempre più i fatti gli dimostrano che lo Stato coincide con lo schieramento dei propri ne’mici, se non nei principi, negli uomini preposti a reggere concretamente gli uffici istituzionali che esprimono lo Stato medesimo.

Per troppo tempo si è tirato in ballo l’argomento del qualunquismo per squalificare l’atteggiamento risentito dei cittadini che vedono nello Stato soprattutto l’Esattore e il Poliziotto che esige e controlla rapinando del benessere possibile e invadendo minacciosamente gli spazi della libertà personale.

Non solo queste preoccupazioni sono state confermate dalla trasformazione dello Stato in Palazzo dagli arroganti poteri; ma anche le ha tragicamente accresciute il progressivo venire meno di ogni «garantismo» che ha trasformato lo Stato di diritto in Stato di polizia.

Ne è prova ultima la lotta interna ai più alti livelli della Magistratura; ma ne sono prove innumerevoli e costanti le vicende processuali di ogni genere degli ultimi quarant’anni, che – guarda caso – sono più o meno gli anni della Costituzione italiana, fondamento primo di questo Stato. Ancora di qualunquismo è stato bollato chi ha espresso il proprio sgomento nel rilevare che di Mafia, narcotraffico, «stragismo», sono puntualmente sospettati gli uomini che dello Stato sono i garanti ufficiali. In questo caso a impegnarsi nell’opera di convincimento sono unanimi gli uomini della politica e quelli dell’informazione; i quali si ritrovano puntualmente impegnati nel tacciarsi l’un l’altro di manipolazione e lottizzazione. A questo punto lo scontro è necessariamente globale tra Stato e cittadini. Purtroppo a questi ultimi è negata però ogni possibilità di conoscenza dei reali termini della questione, dal momento che il tramite di tale conoscenza è un Informazione dichiaratamente manipolata, comprata e venduta. Forse anche per questo gli italiani hanno abboccato all’amo della questione razziale proposto ad arte dai «media» e con l’alibi delle perturbazioni economico-sociali angariano col loro razzismo intimamente sentito quelli che riconoscono per certo avere tratti somatici diversi dai loro. In tanta confusione di valori, dà una certa bieca soddisfazione sentirsi ancora in grado di distinguere il bianco dal nero!

61 – Marzo ‘90

giovedì, 1 marzo 1990

La stagione concertistica nell’Oratorio del Gonfalone, organizzata ogni anno dal Coro Polifonico Romano con un’iniziativa musicale che si è a buon diritto inserita nella migliore tradizione romana. La piccola sala in cui si svolge la quasi totalità dei concerti è un gioiello artistico che racchiude coi suoi affreschi un momento ampio e significativo dell’arte a cavallo tra il cinque e Seicento.
Giovedì 15 marzo l’Orchestra da Camera del Gonfalone, diretta da Silvano Corsi e la partecipazione della clavicembalista Mariolina De Robertis, ha offerto un concerto gradevole ed impegnativo. La compagine orchestrale di meno di venti elementi è composta tutta di ragazzi e ragazze molto giovani; l’acerbità del suono che non possibile non avvertire è però largamente compensata da una buona sensibilità e un impegno evidente. Il direttore Silvano Corsi si è prodigato con buon risultato complessivo nella direzione e concertazione nonostante alcune incertezze di gesto, le grandi musiche barocche in programma sono giunte al pubblico correttamente e piacevolmente esposte. Per inciso a parte la bruttissima e facilissima Sinfonia in re maggiore (Veneziana) di Antonio Salieri, rigida, acida e con melodiare triviale, e l’unico pregio dell’assoluta perfezione armonica, che ci ha infastiditi non più di tanto, il resto della serata è stato un susseguirsi di autentiche perle musicali. Il Concerto in la Maggiore per clavicembalo e orchestra, di J. S. Bach, nel suo impareggiabile equilibrio tra profondità meditativa e scintillante virtuosismo, si è aperto con un bell’attacco del clavicembalo, morbido, sciolto, con le note ben sgranate; tutto il resto dell’ allegro si è poi sviluppato con un buon equilibrio formale, malgrado alcune note troppo pesanti e brevi del contrabbasso; nel larghetto successivo il contrabbasso è stato morbido ed efficace, e compunto e sereno il clavicembalo; avremmo invece voluto sentire più intensi i violini e le viole; nel terzo movimento allegro ma non troppo il cembalo è risuonato ricco, sontuoso ed accattivante; buono è stato il rapporto tra forte e piano degli archi, nonostante qualche entrata «sporca»; in questo brano come anche negli altri abbiamo apprezzato la prestazione mirabile dei due violoncelli.
Nel Concerto in re minore di G. F. Haendel l’adagio iniziale ha avuto come momento culminante il terzetto dei due violoncelli e contrabbasso; nell’ allegro il cembalo ha sfoggiato una bella eleganza, pur lasciandosi sfuggire negli accordi qualche nota di troppo, gli altri hanno risposto con efficacia; bellissimi nel terzo movimento adagio ad libitum il gioco contrappuntistico e i momenti quasi da «ricercare» sognante del cembalo; l’allegro finale, molto ben eseguito, ha registrato, proprio nel bel mezzo, un generale pasticcetto che ha coinvolto anche la clavicembalista.
Il Concerto in do maggiore di G. Paisiello, che ha concluso la serata, è un brano bellissimo che alterna episodi briosi e momenti di languore, ed è stato reso con grande perizia e partecipazione.

Il Fonclea è un locale di via Crescenzio che noi frequentiamo ogni tanto. Lo scantinato è diviso in due vasti ambienti, non sgradevoli, malgrado il molto fumo; i frequentatori abituali sono persone tutto sommato abbastanza tranquille, senza nessun eccesso di «trucido» folclorismo.
È un luogo dove si può ascoltare spesso qualche brandello di jazz sopportabile, come per esempio quello suonato qualche sera fa dalla First Gate Syncopators jazz-band, simpatico gruppo, stilisticamente un po’ all’antica, composto da Alberico di Meo, al pianoforte; Piero Ricci, banjo; Caclo Sili, basso-tuba; Fabiano Pollini, saxofono; Lino Caserta, clarinetto e Pucci Scarpato, tromba. Le melodie si dipanavano gradevolmente facili: il maggiore e il minore si alternavano nei punti canonici; le armonie: settime, none, undicesime, usate con discrezione, non stridevano mai; risolvevano dove si deve, prevedibilissimamente, ma piacevolmente. Anche le seste cadenzali erano usate con discrezione ed amabilità. Il tutto dava l’impressione di un’improvvisazione assennata, senza stranezze. A noi il Jazz piace abbastanza quando è confezionato in questo modo: per rallegrare e per accompagnare il tempo di un drink.
Gli ascoltatori, un po’ indisciplinati, facevano soprattutto l’errore di battere con i pugni sul tavolo e con le natiche sulle sedie in modo addirittura indecorosamente fuori tempo, accentuando ancor più lo scompenso degli attacchi degli strumenti.
Un buon batterista improvvisato si è invece dimostrato un avventore, magro, sorridente, dai pochi capelli, accompagnato purtroppo da una dama assolutamente aritmica. Abbiamo anche approfittato della sosta per mangiare e bere qualcosa: i cibi sono risultati di uno strazio insopportabile, come sempre qui, e non riusciamo a capire perché anziché una miriade di piattini orrendi non si offra una lista limitata a qualche buon panino, magari di pane e salame. Gradevolissima sorpresa però è stata la prova della bar-woman Valentina di Bari, la quale sa preparare una grande varietà di cocktail con sapiente mano: il Negroni correttamente equilibrato, l’Old Fashion giustamente preparato con il bourbon, mentre l’onesto Manhattan è fatto con il canadian, solo il Bronx è risultato un po’ dolciastro, forse perché anziché la spremuta d’arancia si è preferito il succo già pronto; buoni anche lo Stinger e il Rusty Nail, sebbene questo lo preferiamo senza ghiaccio nel bicchiere. Anche le birre sono buone e c’è inoltre una discreta scelta di vini, non proprio straordinari.

61 – Marzo ‘90

giovedì, 1 marzo 1990

Se non fossimo in un mondo di imbelli, cretini e ignoranti la mostra di Palazzo Venezia, L’arte per i papi e per i principi nella campagna romana, grande pittura del ‘600 e del ‘700 sarebbe totalmente inutile e velleitaria. Un gruppo di fanciulle totalmente inesperte si sono pettegolescamente radunate per raccogliere in poche sale alcune opere splendide reperite in uno stretto ambito della campagna laziale che va da Ariccia a Frascati ad Albano e Genzano con lo stupidissimo pretesto di esporre un campione significativo di un genere e di un’epoca della storia dell’arte. Le opere esposte – e ce ne sono di pregevolissime – sono significative di un bel niente: si tratta soltanto di un mucchietto di quadri né più né meno significativi di altrettanti mucchietti possibili secondo i più peregrini criteri. È ovvio che i committenti di queste opere fossero Papi e Principi preoccupati di adornare nel migliore modo possibile anche le loro case e chiese di campagna; ma presentare questa realtà come la scoperta di un peculiare modo di riferirsi all’arte è ridicolo. Inoltre quello che viene esibito è pessimamente restaurato o malissimo conservato ed offerto all’esame dei visitatori in condizioni di illuminazione così indecenti che da tantissimi punti o il riflesso abbagliante dei riflettori sulle tele acceca totalmente. Noi consigliamo a quelle fanciulle di dedicarsi a più domestiche attività evitando ogni intromissione nei delicati campi dell’arte figurativa e della ricerca storica. Per inciso aggiungiamo che sono presenti alcuni nomi di richiamo come Pietro da Cortona o Mario de’ Fiori, accanto a qualche gradevole bambocciante fiammingo. Consigliamo inoltre di non perdere tempo a leggere gli sproloquianti cartigli appesi alle pareti che sono totalmente inattendibili.

Il titolo della mostra L’arte per l’ecologia, allestita alla Galleria Ca’ d’Oro di via Condotti ci ha lasciati molto perplessi ed anche scettici; pensavamo di vedere due foglie, una mela e una farfalla; invece con piacevole stupore abbiamo trovato immagini che ci aiutavano effettivamente a fantasticare sulla natura. Certo, i cretini sono sempre tali, e quindi le loro raffigurazioni su qualunque soggetto restano assolutamente idiote: così capita che qualcuno abbia aggiunto un albero al suo solito quadro per caratterizzarlo ecologicamente; ma a parte costoro che non riusciranno ad amare la natura più di quanto non riescano ad amare alcunché al di fuori di loro stessi, resta il fatto che in questa occasione ci è dato di parlare con piacere persino di alcuni pittori impegnati con l’informale, che qui non ha più nulla di astratto o astrattistico, poiché certe campiture di colore possono legittimamente evocare diafane superfici, metafisiche e quasi divine come lo sono le distese di un mare azzurro o il verde dei prati. Il cielo è un’esplosione di azzurro, la trasparenza dell’acqua si sfalda in segni traslucidi di pennello; il mondo vorrebbe essere ciò che forse non è più: una fantasmagoria di colori. Certo il rifiuto della forma è sempre a nostro parere un gesto di viltà, perché pigramente ci si nasconde dietro l’effetto di poche pennellate, senza esplicitare la posizione assunta nei confronti di un deterioramento che coinvolge l’uomo, la natura e il mondo. Noi che siamo provocatoriamente impegnati, preferiamo il coraggio di artisti come Giuliano Pini che indicano nella figura umana la disfatta temporanea e la speranza di approdare ad altri lidi, lasciando il disastro alle spalle, con dolore, ma anche con forza. Sentimenti questi espliciti nella scelta dei colori decisi, senza sfumature, nel segno robusto che ritaglia nervi e muscoli, tirati dallo sforzo e dalla determinazione a sopravvivere.
Su questa linea di impegno ci sono piaciute le opere di Bruno Caruso col suo naturalismo lontanamente caravaggesco; di Giuseppe Modica metafisicamente proteso su mari e cieli infiniti; il coraggioso atto di denuncia di Renzo Vespignani con la violacea macchia di una carcassa meccanica a minacciare una spiaggia già desolata; l’intimo raccoglimento della natura morta di Claudio Bonichi; il romanticismo esoterico di Ernesto Lombardo e quello mediterraneo di Mario Russo.
Mimmo Nobile con il suo Mare, gorgo blu di acqua e di cielo scandito da ripetute sagome antropomorfe e Massimo Luccioli con Errante alla ricerca del suo mare sono i due esempi di rarefazione estrema della forma che più ci sono parsi significativi nella loro capacità di rendere sentimenti cosmici di smarrimento in un mondo naturale sempre meno compreso e meno comprensibile dall’uomo.
Questa bellissima mostra è comunque una dimostrazione in più che l’astrattismo è una menzogna; anche sulle macchie meno identificabili la psiche umana inventa le forme di cui ha bisogno: il mondo è sempre il mondo a vergogna di chi pensa di poterlo negare!

61 – Marzo ‘90

giovedì, 1 marzo 1990

Il romanzo di Luigi Malerba, Il fuoco greco (Mondadori, 1990, pagg. 253, Lit. 27.000), è propagandato con uno slogan pubblicitario, che a noi pare stravagantissimo, per cui sarebbe una «modernissima allego. ria politica». Che oggi ci siano nel Palazzo intrighi non vuol dire che raccontare una storia di intrighi ambientata nella corte dell’antica Bisanzio, significhi automaticamente che essa sia un’allegoria dei brogli e imbrogli tessuti dai nostri grigiastri e panciuti uomini politici e da donne in visone e collana di perle (al mattino).
Il romanzo in questione, se proprio si vuole, può far riflettere sull’antico adagio nihil sub sole novum: ma di allegorico non ha alcunché. È un feuilleton scritto con grande astuzia e che rivela buone capacità di ricerca storica nell’autore; un’opera che sarà gradevole leggere sulla spiaggia in estate, anche se per questo è uscita un po’ troppo presto.
Una perfida vedova e imperatrice, col pretesto di difendere la segretezza della formula del fuoco greco, arma di prodigiosa efficacia, ordisce trame a tutto spiano, uccide amanti e mariti, irretendoli con la sua straordinaria bellezza e poi viene relegata in un monastero dall’ultimo amante da lei portato ai fasti del trono. Il cronista riferisce che anche lì farà impazzire di rabbia, a causa del suo cattivo carattere, le sue sfortunate consorelle. Per tutta la vicenda è un affollarsi di manti purpurei, troni d’oro, diademi scintillanti, eunuchi compiacenti, colonne di porfido e fiumi di sangue.
Proprio come il cacio sui maccheroni vengono anche le descrizioni, bisogna ammettere giustamente sensuali ed eccitanti, delle lussurie della bella imperatrice. Per fortuna che il santo patriarca Polieuto impone all’ultimo imperatore sedotto da Teofane di scegliere tra la corona e gli amplessi della femmina lubrica: ovviamente costui meditando sul fatto che di streghe lussuriose è pieno il mondo, mentre di corone c’è penuria sceglie il trono.
Dobbiamo confessare che abbiamo iniziato la lettura di questo romanzo con un atteggiamento di annoiata sufficienza; ma nell’addentrarci in così tanti intrighi e lussurie siamo rimasti avvinti, anche per merito dell’indubbia capacità narrativa di Malerba, che sa continuamente risvegliare l’attenzione con buon dosaggio di suspense e inquietanti atmosfere. E questa un’opera che ci ha richiamato alla mente un altro rimarchevole scrittore di storie di tal genere: l’americano Gore Vidal, il quale tra gli eunuchi, coiti perversi e arcivescovi sguazzava a bell’agio e con indubbia efficacia letteraria.

61 – Marzo ‘90

giovedì, 1 marzo 1990

Il Merlo sardo è, ovviamente, un ristorante di cucina regionale, che si trova in via Tirso 42, non lontano da Piazza Buenos Aires, e lì siamo capitati su invito di alcuni amici. Andare a cena con i Farfalloni è davvero una tortura: innanzitutto bisogna sempre trovare ristoranti nuovi e poi i due parlottano continuamente fra di loro, infilando le posate nei piatti di tutti coloro che stanno al loro tavolo. L’occasione era una festa di compleanno e noi avremmo voluto essere buoni, ma quella sera non ci è proprio stato possibile e chiediamo scusa al nostro ospite, ragazzo quanto mai simpatico, il quale, speriamo, non ce ne vorrà.
Già l’ambiente si annunciava di nessuna allegria: dozzinale, nell’arredo e nelle stoviglie, con personale eccessivamente sbrigativo, precipitoso addirittura nel porre la fatidica domanda:«Bianco o rosso?», quasi prima che fossimo seduti. Decidemmo per il bianco vermentino in caraffa anche perché eravamo determinati ad iniziare con gli antipasti di pesce e verdure che occhieggiavano sul bancone di servizio. Un vino non sgradevole, ma difficilmente riconoscibile. Gli antipasti, tutti di routine, erano intrisi d’olio in misura eccessiva; l’insalata di mare risultò decisamente cattiva e (stranamente) scondita; le verdure gratinate erano mollicce e solo le cipolline in agrodolce si rivelarono appetibili.
Come primi piatti ci vennero serviti insieme malloreddus e culingiones: i primi, gnocchetti di provenienza squallidamente industriale e i secondi, ravioloni dalla dura pasta e dallo scarno ripieno; entrambi immersi in un sugo rosso al pomodoro molto sgradevole con assurdi champignon in bella mostra. Per secondi ci furono portati gli arrosti: quello di porceddu era avvolto in una così dura corazza di cuoio che doveva venire direttamente dai carri di salmeria al seguito della prima crociata; l’agnello più che arrostito era stato messo al rogo e carbonizzato; la scamorza faceva addirittura paura tanto trasudava grasso fritto.
Come contorno ci è stato portato un piatto di verdure crude (sedano, ravanello e finocchio) belle a vedersi, ma ipertrofiche e gonfie d’acqua, assolutamente senza sapore. Per una strana pudicizia l’oste aveva scelto per tale piatto un nome a metà tra pinzimonio e cazzimperio chiamandolo col verecondo nome di pizzimperio. Sugli arrosti avemmo la buona ventura di bere un Cannonau di Jerzu gradevolmente profumato di cannella, giovane e dalla morbida stoffa. Oltre a vergognose sebadas, di formaggio e miele, stecchite ed appiccicose, avemmo una buffa inserzione interregionale grazie ad una pastiera napoletana definita: torta di ricotta.
Una sorpresa furono, e molto piacevole, tra i liquori, due bottiglie di rosolio, alla fragola l’una e l’altra alla pesca, che con la loro dolce bontà fecero ritornare il sorriso a noi e ai nostri commensali. Da indiscrezioni possiamo riferire che il prezzo non fu né alto, né basso.

61 – Marzo ‘90

giovedì, 1 marzo 1990

Noi siamo spesso perplessi di fronte ad alcune scelte dei cosiddetti «intellettuali»; perciò ci ha lasciato ancora una volta esterrefatti l’idea di mettere in scena un testo orrendo, noioso, volgare e dissennato, oltre che verboso e sproloquiante, come Vinzenz e l’amica di uomini importanti, soltanto perché è stato scritto da Robert Musil, narratore di innegabile grandezza e poeticità. Riteniamo che sia interessante che vengano conosciute anche le opere meno riuscite dei sommi autori; ma siccome, tanto di questo testo quanto dei Fanatici esistono molte edizioni a stampa, esse basterebbero a chi veramente volesse conoscere tutti gli aspetti del grande romanziere austriaco; è penoso invece essere torturati per tre ore consecutive per conoscere quel che si potrebbe conoscere sfogliando a pizzichi un copione insulso.
L’espressionismo, in tutti i suoi aspetti, è un linguaggio artistico molto spesso tronfio e pettoruto; l’esasperazione del gesto, del segno talora trascendono in figurazioni eccessive e prive del senso dell’ironia Anche gli artisti dell’espressionismo sono stati capaci di toccare vette sublimi, beninteso; ma in casi come quelli del copione di cui ci occupiamo mancano totalmente capacità tecniche e poesia, mentre l’imbelle velleitarismo si manifesta in tutta la sua insopportabilità.
La stupidissima trama vorrebbe fustigare i costumi della corrotta società borghese primo Novecento, nella quale tutti sono cattivi e in malafede: uomini, donne e cardellini. Alfa, la protagonista, è amica d molti uomini importanti ed inoltre è invischiata in un legame torbido con una donna, molto simile ad una cagnetta petulante e sciocca; e frequenta stabilmente il giovane Vinzenz, truffatore intraprendente. Fino alla fine, la signora sembrerebbe la se la persona rispettabile, ma all’ultimo momento accetta di sposare un danaroso bieco barone, lasciando per lui il marito Vinzenz. Tanto poca è la capacità teatrale di Musil in questo testo, quanto grande teatralità hanno manifestato Giancarlo Nanni e i componenti della «Fabbrica de l’attore» nell’allestimento in scena al Teatro Vascello. Il regista disegna e costruisce figure incisive e su tutti dà modo con precisione al personaggio di Alfa di volteggiare spumeggiante, contrapponendole, anche ritmicamente, la gestualità di Vinzenz.
Manuela Kustermann permette ad Alfa di passare credibilmente e convincentemente attraverso una miriade di situazioni diversissime: miagolante, sensuale e tragica, capace di sovrapporre immagini ad immagini, come in un gioco di specchi. Bravissimo anche Stefano Santospago nei momenti di folle delirio o di desolata e ironica amarezza di Vinzenz. Attorno ai due protagonisti si muove un gruppo di attori intelligenti e versatili, sensibili all’impostazione registica, m senza rigidità di sorta: Lorenzo Alessandri, Tatiana Winteler, Giovanni Argante, Massimo Fedele, Gianluigi Pizzetti, Fabrizio Parenti, Enzo Saturni, con la partecipazione di Franco Alpestre. Le musiche sono usate da Francesco Verdinelli con discrezione e risultano efficacemente poliedriche: dalle atmosfere d’epoca a originali ed efficaci pressioni attuali. Piuttosto scontate e poco piacevoli le scenografie di Luigi Perego, con quelle geometrie di grattacieli grigi sul grigio dei fondali, e tante buffe scatole, scale buchi neri che non costruiscono mai un’atmosfera né riconducono ad alcun luogo.
Efficace e scorrevole la traduzione di Rocco Familiari contribuisce a facilitare il compito ad attori e pubblico.

Lo scrittore e drammaturgo di origine siciliana (1887-1956) Pier Maria Rosso di San Secondo, ha, nel suo teatro, assemblato con una certa abilità spunti pirandelliani, espressionisti e simbolisti. La sua scrittura è enfatica ed arroventata, ma non priva di una certa suggestività; le frasi emblematiche, le atmosfere irreali ed allucinate si dipanano con buon ritmo scenico anche se spesso fanno sorridere. Se la in scena non cade nel trabocchetto di recitare troppo sul serio le battute del copione, ma ha cura di velarle con un leggero e talvolta divertito distacco, come è felicemente avvenuto per merito di Giancarlo Sepe e degli attori della Comunità Teatrale Italiana nell’allestimento di Marionette, che passione! al Teatro Eliseo; allora allo spettatore si offre la piacevole sorpresa di godere di uno spettacolo scorrevole e non privo di momenti di patetica intensità. La storia è quella di due uomini: il Signore a lutto e il Signore in grigio, e di una donna: la Signora dalla volpe azzurra, che si incontrano in un momento, tragico per le rispettive esistenze, nell’ufficio del telegrafo. La disperazione e la passione rendono complici i tre in un pomeriggio speso tentando invano di ridare un significato plausibile alle loro vite. Malgrado l’aiuto della cantante, amica della Signora, i tre finiranno col perdersi, dopo che al ristorante è arrivato Colui che non doveva arrivare: l’amante della Signora. L’uomo in grigio svanirà, forse suicida; la Cantante non riuscirà a consolare il Signore a lutto e la Signora riprenderà il suo frustrante ménage: non persone ma marionette!
Fin dalla lettura del prologo, Aroldo Tieri fa sfoggio delle sue ottime qualità di attore, che si mettono poi in luce nelle successive fasi dello spettacolo: arguto, disperato, sempre efficace, Signore in grigio. Giuliana Lojodice è una Signora dalla volpe azzurra, abilissima nel rendere il suo personaggio con una tecnica quasi brechtiana di estraniamento; ma allo stesso tempo riuscendo in modo convincente a farlo vivere dal «di dentro»: Il Signore a lutto è reso con lugubre efficacia da Luigi Diberti.
La brava Franca Tamantini recita il personaggio della Cantante secondo una cifra tutta sua, legnosa e stralunata. Dell’efficiente ed intelligente impostazione registica abbiamo già dato atto a Sepe. Molto buono l’uso delle musiche scelte e montate dall’Harmonia Team. I costumi di Patrizia Menichelli e le scene di Almodovar (a parte ancora una volta i dannatissimi cubi) sottolineano giustamente le atmosfere suggerite dall’autore e dal regista.

Psicoanalisi contro n.61 – Teoria e ironia

giovedì, 1 marzo 1990

Ho già detto come Il tentativo di scoprire cause organiche, genetiche, psichiche o anche sociali del disagio mentale sia finora completamente fallito. La confusione si aggiunge alla confusione; forse così deve essere necessariamente, quando ci si impegna nella ricerca scientifica; ma non è quello che io penso debba essere. Come il marasma emozionale nel singolo individuo gli limita la possibilità di orientarsi nel mondo e di avere comportamenti adeguati e gesti significativi, così la confusione eccessiva delle teorizzazioni, descrizioni ed asserzioni nuoce al lavoro scientifico. La psichiatria, pur figurando a buon diritto tra le scienze, ha finito per smarrirsi più di altre.
Malgrado Spencer sottolineasse quanto mistero fosse sempre di fronte alla ricerca, il peso delle teorie formulate nell’Ottocento, condizionate dalla convinzione di un progresso lineare della scienza che procederebbe per affermazioni successive e sempre incontrovertibili, ha contribuito fin troppo a radicare la convinzione che la scienza avanzi lentamente ma costantemente procedendo dall’indistinto al distinto e chiarendo progressivamente i propri elementi. A quel periodo di presunzione positivistica è succeduta purtroppo una situazione come quella odierna di confusione totale di cui sarebbe bene gli scienziati prendessero alfine consapevolezza. È bene che essi affrontino il loro disagio scientifico, piuttosto di continuare ad affastellare teorie tutte apodittiche e tutte in contraddizione le une con le altre. La scienza psichiatrica in particolare si trova ad operare a contatto con le situazioni più destrutturate e deliranti; per cui è particolarmente importante che chi opera in questo campo sia consapevole dei propri limiti e delle possibilità di errore, impliciti in ogni sistematizzazione che sia troppo rigida ed elaborata.

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Se la follia abbia o no basi organiche è una questione che ha visto gli scienziati schierarsi in due campi netti ed opposti. Coloro che hanno un orientamento più metafisico, viscerale, sono dell’opinione che la follia sia sostanzialmente un problema di rapporti con la società e di condizionamenti ideologici: i rapporti di una realtà malata ammalano uomini e ideologie. Quando i comportamenti sono in contrasto troppo marcato con il contesto dominante vengono bollati come anomalie patologiche; secondo costoro i folli non sono quindi altro che «diversi» i quali per comodità vengono considerati malati e relegati nei gulag psichiatrici.
Io ritengo che le diversità non debbano essere accettate indiscriminatamente, come si può invece accettare la varietà delle espressioni floreali in botanica; se sempre un fiore nuovo arricchisce il panorama vegetale, non accade lo stesso con le vicende della psiche umana. Vi sono purtroppo attitudini mentali che sono indice di malattia e di sofferenza; per questo vanno curate e per quanto possibile prevenute ed eliminate, e non hanno nulla o quasi a che vedere con l’eterna lotta delle ideologie e con la relatività del giudizio su ciò che è sano e ciò che è malato.
Nell’immenso schieramento degli organicisti, le concezioni sulla patogenesi della malattia mentale sono moltissime: c’è chi parla di ereditarietà genetica, chi di alterazioni cellulari che provocano la pazzia. Moltissime sono le ipotesi sulle alterazioni fisiche, chimiche o funzionali dell’apparato neuro-cerebrale; si parla anche di squilibri ormonali, di intossicazione da sostanze psicotrope o allucinogene, come gli psicofarmaci o le droghe, e via dicendo.
Per quel che riguarda l’opinione che la malattia mentale sia una conseguenza dello stato di relazione e dell’ambiente sociale bisogna rilevare che i criteri che vengono applicati per definire le condizioni di tale disagio sono così disparati che la nosologia che ne consegue e i metodi con cui ad essa si perviene mi disorientano. Per l’altro verso io penso che il discorso genetico non abbia davvero fondamento alcuno; tanto che allo stato delle conoscenze attuale le teorizzazioni genetiche hanno un valore concreto quanto le speculazioni metafisiche. Troppo poco sanno scienziati e clinici dei geni e dei loro comportamenti; la stessa esistenza dei geni che oggi pare così certa potrebbe non essere più confermata da studi successivi e la genetica si troverebbe relegata a studiare i maiali nella grotta di Circe, prospiciente oggi un triste mare inquinato in luogo dell’azzurro Mediterraneo dell’epos omerico. I sostenitori di altre ipotesi organiciste sull’origine della follia parlano poi a mio avviso quasi sempre a vanvera e, a dispetto di quanto vogliono far credere, i loro metodi e le loro analisi sono quanto mai poco fondate scientificamente. Uno dei limiti più evidenti è l’applicazione dissennata del metodo statistico sul quale tutti gli scienziati sperimentali fondano le loro conclusioni. La statistica ha un senso solo se i suoi risultati sono basati su quantità di dati molto grandi; invece questi cosiddetti scienziati sperimentali ritengono di determinare statistiche di incidenza e frequenza dei fenomeni ipotizzati come cause o segnali di precise sindromi psichiatriche, osservando poche decine di casi di gemelli mono od eterozigoti o di situazioni famigliari presunte schizofrenogeniche, o alcuni comportamenti sociali. Forse la statistica diventa così l’ultimo inganno del mondo computerizzato in cui viviamo, assunto che è purtroppo vero in genenerale. ma che diventa in questo caso grottescamente deprimente. Altre volte la ricerca si attua in condizioni come quelle in cui si è svolta (tanto per citare un caso concreto) la ricerca di Lehmann e Facius, i quali centrifugavano estratto di cervello con il liquido cerebrospinale del paziente per quindici minuti. Se si manifestava una grossolana flocculazione il test era positivo, e solo una flocculazione fine era indice di negatività. Il test fu abbandonato però quando si scoprì che la grossolanità della flocculazione dipendeva dall’energia con cui si agitava la provetta!

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Nel Protrettico, Aristotele aveva già detto che filosofare è anche chiedersi che cosa sia la filosofia; malgrado ciò nessuno seppe nemmeno in seguito dare risposte convincenti alla sua domanda. La filosofia è ricerca della verità, dicevano gli antichi; ma quale indagine umana non si propone di andare alla ricerca di una verità? Chi va, consapevolmente, alla ricerca del falso? Altri risposero che la filosofia era la ricerca in sé per sé; ma chi procederebbe in una ricerca essendo convinto in partenza di non poter trovare nulla? Gli antichi Elleni avevano gli dèi a portata di mano: Zeus, avvolto in un mantello di nuvole (che solo talvolta si diradavano mostrando la splendente nudità del dio), padre degli dèi da pregare con devozione; ed entravano in questo modo in contatto diretto con la verità. Ci fu anche chi disse che la filosofia è politica, religione o scienza. Ci si domanda però che cosa sia una cosa che è anche tante altre cose: sembra allora che la filosofia sia un sogno inutile. L’Ottocento per superare i dubbi tentò di costruire sistemi filosofici giganteschi, di stupefacente ed arditissima organicità: il sistema metafisico di Hegel, quello politico-economico di Marx, quello esaltante e poetico di Nietzsche, che solo apparentemente è frammentario, ma che si stringe coerentemente intorno all’unica idea formidabile del superuomo. Neppure questi sistemi bastarono però a fugare i dubbi di coloro che videro in essi solo il riproporsi dei vari aspetti della riflessione del passato e che ancora una volta tornarono a porsi l’incessante domanda sul senso vero ed ultimo della filosofia.

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Qualcuno (su cui solo parzialmente si è in diritto di ironizzare) decise a quel punto che la filosofia non potesse essere altro che la metodologia della scienza; il metodo che avrebbe dato alla ricerca brancolante e cieca, la visione complessiva delle proprie origini e del proprio destino. Fu il trionfo della filosofia come guida del progresso scientifico e della scienza che dava ad essa la concretezza dei propri obiettivi. Fu l’esaltazione, da parte di alcuni, della matematica, che fu fatta coincidere con l’essenza stessa della filosofia; ma presto ci fu il problema della scelta di quale tra i vari sistemi matematici fosse quello giusto e si ripropose il problema di che cosa fosse la filosofia, che cosa la scienza e che cosa la matematica, dove stesse il fondamento di ciascuna e quale eventualmente fondasse l’altra. In tanta confusione la medicina credette di uscire dall’astratto decidendo di basare il proprio metodo su quella che era definita «l’esperienza». I nuovi scienziati si buttarono sulle ricerche sperimentali di laboratorio le quali permettevano di scavalcare le difficoltà delle indagini di clinica e semeiotica, come le aveva praticate la medicina fino ad allora.
Il laboratorio è divenuto così il luogo per eccellenza dove si elabora tutta la parte più significativa della ricerca medica; i protocolli si incaricano poi di fornire ai terapeuti le linee guida della cura, cosicché il ruolo del medico è sempre meno significativo, sostituito da asettici strumenti di analisi e metodi statistici, detentori indiscussi di un nuovo potere. Come i poeti di una vecchia canzone francese anche i medici sono oggi scomparsi e di loro si perderà persino la memoria poiché non avranno lasciato dietro di sé neanche l’eco di vecchie canzoni.

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Rimane però la realtà delle persone che soffrono; nessuno è riuscito infatti ad eliminare la malattia dalla faccia del pianeta; e finché ci saranno i malati questi andranno eternamente alla ricerca dei medici. E forse solo l’illusione di un’ombra che si avvicini al letto a raccogliere una parte della sofferenza; ma è un’illusione irrinunciabile. È fondamentale che qualcuno tasti un polso alterato, corrughi la fronte in un sussulto di preoccupazione, dia il conforto di una prescrizione, vergata su di un rassicurante foglietto di carta bianca. Non importa se il farmaco sarà stato tolto di fresco da un prontuario dove è appena stato inserito in seguito alle «ultime ricerche di laboratorio». Un fantasma che prescrive un farmaco «tre volte al dì lontano dai pasti» e poi si allontana. Il malato si accontenta anche di estenuanti pellegrinaggi negli studi dei terapeuti specialisti, che ricevono i pazienti senza ascoltarli, con aria distratta ed annoiata. C’è oggi, da una parte, una realtà umana, quella di chi soffre, che ha più che mai bisogno della figura del medico a cui appoggiarsi e al quale affidare pene e speranze; dall’altra parte c’è una categoria professionale, quella dei medici di base e specialistici, che si sente superata dall’efficienza dei laboratori, dalla precisione dei dati e dei rilievi ottenuti da strumenti di precisione e che ha perso di vista il senso del proprio operare. Costoro cercano forza e sicurezza riunendosi sempre più spesso e sempre più numerosi in congressi e simposi, ben pagati e riccamente allestiti dalla case farmaceutiche e dalle industrie chimiche; è lì che si consolano di un potere che si illudono di avere ancora, senza voler capire che proprio quelli sono i momenti dell’asservimento, che ha il suo culmine nei pantagruelici buffet in cui ogni scienziato perde anche l’ultimo residuo di umana dignità.

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La figura del terapeuta resta comunque ineliminabile, come, purtroppo, non è eliminabile il ruolo del malato; inoltre è improbabile che la macchina potrà anche in futuro rimediare ad ogni male, malgrado le illusioni della fantascienza; benché resti vero che il mondo può prendere domani strade che oggi non sospettiamo. Oggi quanto più intenso è il disagio del malato tanto più importante è che possa trovare la risposta di un rapporto terapeutico rassicurante e solido. Il terapeuta deve costituire il sostegno di una relazione interpersonale assolutamente fidata. Ho detto come i malati troppo spesso strumentalizzino anche la figura del medico, facendone un passivo ascoltatore di querule e sconclusionate lamentele, bersagliandolo con una serie di piccoli dispetti per coglierlo in fallo, non rispettandone le prescrizioni e così di seguito. Io non sono certo che medico e paziente siano due linee parallele che si incontreranno solo all’infinito, ovvero mai; perché so che c’è la concreta possibilità di incontrarsi qui ed ora. Quando questo accade si realizza il miracolo di due forze unite che lottano per lo stesso scopo: per eliminare un dolore. Ogni guarigione fa stare infatti meglio anche il terapeuta. Essere un terapeuta sano è praticamente impossibile: la malattia ammala e anche il contatto del medico col malato risente di questo rischio. È importante che il terapeuta sia consapevole del contagio inevitabile che lo insidia e intacca giorno dopo giorno. Per questo chi cura ha l’ineliminabile bisogno di essere curato a sua volta; nel campo psicologico ciò significa in pratica che nessuno può fare correttamente il lavoro psicoterapeutico senza l’assistenza di un supervisore. Io svolgo da anni, con timore e tremore, questo compito, per i terapeuti che si sono formati alla mia scuola. La supervisione è un momento istituzionalizzato del lavoro comune. Lo so che io stesso non sono immunizzato: sono malato anch’io; ma il mio ruolo aiuta me e gli altri. Il supervisore è leggermente meno coinvolto col caso che tratta di quanto lo sia il terapeuta, per questo riesce ad essere d’aiuto all’analista e al paziente che sono gli effettivi protagonisti, contribuendo, con uno strumento in più, a dissipare i fumi di cui la malattia circonda medico e malato. Se questo è fondamentale che avvenga in psicoterapia sarebbe altrettanto utile e necessario che avvenisse in tutti i settori della medicina clinica e anche della chirurgia.

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Chi supervisiona però il supervisore? Poiché non si può risalire all’infinito, giungendo magari fino a Dio, supervisore ultimo di tutti i supervisori; il solo esente da falsa coscienza e non ingannatore; accettiamo che ogni lavoro terapeutico sia sotto il controllo di un supervisore, per quanto anch’egli malato e titubante. Già nelle epoche passate la medicina aveva sentito questa esigenza e i consulti tra medici sono sempre stati una consuetudine nella pratica clinica; ma in genere i colleghi più o meno illustri chiamati ad esprimersi sul caso si limitano ad emettere un giudizio frettoloso ed autorevole, senza veramente impegnarsi con il medico curante nel tentativo di risolvere il problema clinico nel suo complesso; ma i colleghi meno prestigiosi in questi casi tacciono di fronte al collega più illustre e solo raramente c’è una franca e approfondita discussione in cui il più autorevole svolge un ruolo di supervisore. Al mondo di umiltà ce n’è molto poca; c’è soprattutto autosvalutazione e presunzione, atteggiamenti entrambi malsani di cui bisognerebbe liberare i terapeuti e forse anche i pazienti.

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L’Ottocento si è concluso osservando lo spettacolo deprimente di uno dei suoi intelletti più brillanti prigioniero di un manicomio in Svizzera: Federico Nietzsche perdette il senno per aver osato troppo. C’è chi parla di conseguenze di una sifilide; ma questo è un male che spesso infetta chi vuole esserne vittima. Nietzsche forse fu vittima di un male incurabile in quel tempo, ma più probabilmente fu vittima dell’incurabilità della vita.
Nelle sue parole si erano sbriciolati i sogni metafisici di Hegel, i deliri positivistici di Comte, le analisi materialiste ed oggettive di Marx e forse anche l’apparentemente intaccabile dogmaticità di pensatori come Boutroux.
Rivista con l’occhio critico del poi, anche la psicologia tra i due secoli aveva prodotto risultati solo apparenti: i grandi psichiatri, da Wundt a Fechner non avevano risolto quasi nulla, le ricerche sperimentali del primo erano farse in cui sperimentatori inetti giocavano con la disperazione e la follia. Lombroso aveva messo in scena una bella tragicommedia: ispirandosi a Gall e Lavater, disse che la conformazione fisica era anche rivelatrice del pensiero che in essa era contenuto; arrivò a dire che la delinquenza era originata da un innalzamento della soglia di sensibilità e che perciò i delinquenti erano tali per la loro insensibilità alla sofferenza altrui oltre che propria.

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Rimane il fatto che neppure io, che pur ho potuto avvalermi del giudizio critico sul passato e delle conoscenze del presente, sono riuscito a teorizzare con chiarezza un metodo scientifico che mi dia la sicurezza sulla diagnosi e sull’etiologia delle malattie della psiche. Mi trovo oggi costretto ad operare seguendo una metodologia che forse ha valore solo per me e che acquista un senso solo dalla coerenza con la quale riesco ad applicarla nella situazione clinica che mi trovo ad affrontare e dallo sforzo di umiltà con cui mi pongo di fronte a problemi così gravi come quelli derivanti dalla sofferenza degli uomini. Forse è giusto che avvenga quello che finora ho denunciato come nefasto: che ogni ricercatore costruisca la propria metodologia, abbia il coraggio di esporla, accettando che venga contraddetta e anche derisa. L’importante è che ciascuno tenga fede con onestà al principio metodo logico e metapsicologico a cui si ispira; metodi e principi che magari possono parere od essere la copia o la parodia di altri, consapevolmente o inconsapevolmente. C’è una sola consolazione per chi opera, come io faccio, secondo questi principi: i buoni risultati sul campo; la indiscutibile realtà di un male e di una sofferenza quotidianamente sconfitti; la rinascita di persone che arrivano da baratri di annientamento, e diventano capaci, grazie ad un lavoro comune, di ritrovare il gusto della vita, del piacere e della bellezza.
Non credo che vorrei avere altre conferme sulla legittimità del mio operare al di fuori di queste. Non saprei cosa rispondere a chi mi domandasse se quelle che io credo siano manifestazioni di salute e di equilibrio lo sono davvero: avrei bisogno dell’aiuto dei filosofi, ma anch’essi, come gli scienziati, sono scomparsi, ed io mi ritrovo disperatamente solo.

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Mi resta un’ultima cosa da aggiungere: ho costruito il mio metodo studiando, ricercando, sperimentando a lungo da solo, entusiasmandomi nella mia solitudine; ma poi ho incontrato altri che hanno diviso tutto questo con me: la nostra fatica oggi è quella di non smarrirci e allo stesso tempo di non restare isolati; di mantenere una nostra chiarezza senza rinchiuderci nella torre d’avorio del dogmatismo; di essere capaci di confrontarci con la realtà più vasta del mondo che è intorno a noi. Voglio ancora dire che, per me, quando ci si propone un obiettivo scientifico, è importante partire dall’ironia: questa è mancata a molti e soprattutto è mancata l’autoironia; sono rarissimi gli esempi di autodissacrazione in una letteratura scientifica per altro così ricca di sferzante sarcasmo di ciascuno contro tutti. Pensare che siamo tutti tanto ridicoli nella nostra foga di teorizzatori di verità assolute!