Psicoanalisi contro n.61 – Teoria e ironia

marzo , 1990

Ho già detto come Il tentativo di scoprire cause organiche, genetiche, psichiche o anche sociali del disagio mentale sia finora completamente fallito. La confusione si aggiunge alla confusione; forse così deve essere necessariamente, quando ci si impegna nella ricerca scientifica; ma non è quello che io penso debba essere. Come il marasma emozionale nel singolo individuo gli limita la possibilità di orientarsi nel mondo e di avere comportamenti adeguati e gesti significativi, così la confusione eccessiva delle teorizzazioni, descrizioni ed asserzioni nuoce al lavoro scientifico. La psichiatria, pur figurando a buon diritto tra le scienze, ha finito per smarrirsi più di altre.
Malgrado Spencer sottolineasse quanto mistero fosse sempre di fronte alla ricerca, il peso delle teorie formulate nell’Ottocento, condizionate dalla convinzione di un progresso lineare della scienza che procederebbe per affermazioni successive e sempre incontrovertibili, ha contribuito fin troppo a radicare la convinzione che la scienza avanzi lentamente ma costantemente procedendo dall’indistinto al distinto e chiarendo progressivamente i propri elementi. A quel periodo di presunzione positivistica è succeduta purtroppo una situazione come quella odierna di confusione totale di cui sarebbe bene gli scienziati prendessero alfine consapevolezza. È bene che essi affrontino il loro disagio scientifico, piuttosto di continuare ad affastellare teorie tutte apodittiche e tutte in contraddizione le une con le altre. La scienza psichiatrica in particolare si trova ad operare a contatto con le situazioni più destrutturate e deliranti; per cui è particolarmente importante che chi opera in questo campo sia consapevole dei propri limiti e delle possibilità di errore, impliciti in ogni sistematizzazione che sia troppo rigida ed elaborata.

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Se la follia abbia o no basi organiche è una questione che ha visto gli scienziati schierarsi in due campi netti ed opposti. Coloro che hanno un orientamento più metafisico, viscerale, sono dell’opinione che la follia sia sostanzialmente un problema di rapporti con la società e di condizionamenti ideologici: i rapporti di una realtà malata ammalano uomini e ideologie. Quando i comportamenti sono in contrasto troppo marcato con il contesto dominante vengono bollati come anomalie patologiche; secondo costoro i folli non sono quindi altro che «diversi» i quali per comodità vengono considerati malati e relegati nei gulag psichiatrici.
Io ritengo che le diversità non debbano essere accettate indiscriminatamente, come si può invece accettare la varietà delle espressioni floreali in botanica; se sempre un fiore nuovo arricchisce il panorama vegetale, non accade lo stesso con le vicende della psiche umana. Vi sono purtroppo attitudini mentali che sono indice di malattia e di sofferenza; per questo vanno curate e per quanto possibile prevenute ed eliminate, e non hanno nulla o quasi a che vedere con l’eterna lotta delle ideologie e con la relatività del giudizio su ciò che è sano e ciò che è malato.
Nell’immenso schieramento degli organicisti, le concezioni sulla patogenesi della malattia mentale sono moltissime: c’è chi parla di ereditarietà genetica, chi di alterazioni cellulari che provocano la pazzia. Moltissime sono le ipotesi sulle alterazioni fisiche, chimiche o funzionali dell’apparato neuro-cerebrale; si parla anche di squilibri ormonali, di intossicazione da sostanze psicotrope o allucinogene, come gli psicofarmaci o le droghe, e via dicendo.
Per quel che riguarda l’opinione che la malattia mentale sia una conseguenza dello stato di relazione e dell’ambiente sociale bisogna rilevare che i criteri che vengono applicati per definire le condizioni di tale disagio sono così disparati che la nosologia che ne consegue e i metodi con cui ad essa si perviene mi disorientano. Per l’altro verso io penso che il discorso genetico non abbia davvero fondamento alcuno; tanto che allo stato delle conoscenze attuale le teorizzazioni genetiche hanno un valore concreto quanto le speculazioni metafisiche. Troppo poco sanno scienziati e clinici dei geni e dei loro comportamenti; la stessa esistenza dei geni che oggi pare così certa potrebbe non essere più confermata da studi successivi e la genetica si troverebbe relegata a studiare i maiali nella grotta di Circe, prospiciente oggi un triste mare inquinato in luogo dell’azzurro Mediterraneo dell’epos omerico. I sostenitori di altre ipotesi organiciste sull’origine della follia parlano poi a mio avviso quasi sempre a vanvera e, a dispetto di quanto vogliono far credere, i loro metodi e le loro analisi sono quanto mai poco fondate scientificamente. Uno dei limiti più evidenti è l’applicazione dissennata del metodo statistico sul quale tutti gli scienziati sperimentali fondano le loro conclusioni. La statistica ha un senso solo se i suoi risultati sono basati su quantità di dati molto grandi; invece questi cosiddetti scienziati sperimentali ritengono di determinare statistiche di incidenza e frequenza dei fenomeni ipotizzati come cause o segnali di precise sindromi psichiatriche, osservando poche decine di casi di gemelli mono od eterozigoti o di situazioni famigliari presunte schizofrenogeniche, o alcuni comportamenti sociali. Forse la statistica diventa così l’ultimo inganno del mondo computerizzato in cui viviamo, assunto che è purtroppo vero in genenerale. ma che diventa in questo caso grottescamente deprimente. Altre volte la ricerca si attua in condizioni come quelle in cui si è svolta (tanto per citare un caso concreto) la ricerca di Lehmann e Facius, i quali centrifugavano estratto di cervello con il liquido cerebrospinale del paziente per quindici minuti. Se si manifestava una grossolana flocculazione il test era positivo, e solo una flocculazione fine era indice di negatività. Il test fu abbandonato però quando si scoprì che la grossolanità della flocculazione dipendeva dall’energia con cui si agitava la provetta!

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Nel Protrettico, Aristotele aveva già detto che filosofare è anche chiedersi che cosa sia la filosofia; malgrado ciò nessuno seppe nemmeno in seguito dare risposte convincenti alla sua domanda. La filosofia è ricerca della verità, dicevano gli antichi; ma quale indagine umana non si propone di andare alla ricerca di una verità? Chi va, consapevolmente, alla ricerca del falso? Altri risposero che la filosofia era la ricerca in sé per sé; ma chi procederebbe in una ricerca essendo convinto in partenza di non poter trovare nulla? Gli antichi Elleni avevano gli dèi a portata di mano: Zeus, avvolto in un mantello di nuvole (che solo talvolta si diradavano mostrando la splendente nudità del dio), padre degli dèi da pregare con devozione; ed entravano in questo modo in contatto diretto con la verità. Ci fu anche chi disse che la filosofia è politica, religione o scienza. Ci si domanda però che cosa sia una cosa che è anche tante altre cose: sembra allora che la filosofia sia un sogno inutile. L’Ottocento per superare i dubbi tentò di costruire sistemi filosofici giganteschi, di stupefacente ed arditissima organicità: il sistema metafisico di Hegel, quello politico-economico di Marx, quello esaltante e poetico di Nietzsche, che solo apparentemente è frammentario, ma che si stringe coerentemente intorno all’unica idea formidabile del superuomo. Neppure questi sistemi bastarono però a fugare i dubbi di coloro che videro in essi solo il riproporsi dei vari aspetti della riflessione del passato e che ancora una volta tornarono a porsi l’incessante domanda sul senso vero ed ultimo della filosofia.

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Qualcuno (su cui solo parzialmente si è in diritto di ironizzare) decise a quel punto che la filosofia non potesse essere altro che la metodologia della scienza; il metodo che avrebbe dato alla ricerca brancolante e cieca, la visione complessiva delle proprie origini e del proprio destino. Fu il trionfo della filosofia come guida del progresso scientifico e della scienza che dava ad essa la concretezza dei propri obiettivi. Fu l’esaltazione, da parte di alcuni, della matematica, che fu fatta coincidere con l’essenza stessa della filosofia; ma presto ci fu il problema della scelta di quale tra i vari sistemi matematici fosse quello giusto e si ripropose il problema di che cosa fosse la filosofia, che cosa la scienza e che cosa la matematica, dove stesse il fondamento di ciascuna e quale eventualmente fondasse l’altra. In tanta confusione la medicina credette di uscire dall’astratto decidendo di basare il proprio metodo su quella che era definita «l’esperienza». I nuovi scienziati si buttarono sulle ricerche sperimentali di laboratorio le quali permettevano di scavalcare le difficoltà delle indagini di clinica e semeiotica, come le aveva praticate la medicina fino ad allora.
Il laboratorio è divenuto così il luogo per eccellenza dove si elabora tutta la parte più significativa della ricerca medica; i protocolli si incaricano poi di fornire ai terapeuti le linee guida della cura, cosicché il ruolo del medico è sempre meno significativo, sostituito da asettici strumenti di analisi e metodi statistici, detentori indiscussi di un nuovo potere. Come i poeti di una vecchia canzone francese anche i medici sono oggi scomparsi e di loro si perderà persino la memoria poiché non avranno lasciato dietro di sé neanche l’eco di vecchie canzoni.

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Rimane però la realtà delle persone che soffrono; nessuno è riuscito infatti ad eliminare la malattia dalla faccia del pianeta; e finché ci saranno i malati questi andranno eternamente alla ricerca dei medici. E forse solo l’illusione di un’ombra che si avvicini al letto a raccogliere una parte della sofferenza; ma è un’illusione irrinunciabile. È fondamentale che qualcuno tasti un polso alterato, corrughi la fronte in un sussulto di preoccupazione, dia il conforto di una prescrizione, vergata su di un rassicurante foglietto di carta bianca. Non importa se il farmaco sarà stato tolto di fresco da un prontuario dove è appena stato inserito in seguito alle «ultime ricerche di laboratorio». Un fantasma che prescrive un farmaco «tre volte al dì lontano dai pasti» e poi si allontana. Il malato si accontenta anche di estenuanti pellegrinaggi negli studi dei terapeuti specialisti, che ricevono i pazienti senza ascoltarli, con aria distratta ed annoiata. C’è oggi, da una parte, una realtà umana, quella di chi soffre, che ha più che mai bisogno della figura del medico a cui appoggiarsi e al quale affidare pene e speranze; dall’altra parte c’è una categoria professionale, quella dei medici di base e specialistici, che si sente superata dall’efficienza dei laboratori, dalla precisione dei dati e dei rilievi ottenuti da strumenti di precisione e che ha perso di vista il senso del proprio operare. Costoro cercano forza e sicurezza riunendosi sempre più spesso e sempre più numerosi in congressi e simposi, ben pagati e riccamente allestiti dalla case farmaceutiche e dalle industrie chimiche; è lì che si consolano di un potere che si illudono di avere ancora, senza voler capire che proprio quelli sono i momenti dell’asservimento, che ha il suo culmine nei pantagruelici buffet in cui ogni scienziato perde anche l’ultimo residuo di umana dignità.

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La figura del terapeuta resta comunque ineliminabile, come, purtroppo, non è eliminabile il ruolo del malato; inoltre è improbabile che la macchina potrà anche in futuro rimediare ad ogni male, malgrado le illusioni della fantascienza; benché resti vero che il mondo può prendere domani strade che oggi non sospettiamo. Oggi quanto più intenso è il disagio del malato tanto più importante è che possa trovare la risposta di un rapporto terapeutico rassicurante e solido. Il terapeuta deve costituire il sostegno di una relazione interpersonale assolutamente fidata. Ho detto come i malati troppo spesso strumentalizzino anche la figura del medico, facendone un passivo ascoltatore di querule e sconclusionate lamentele, bersagliandolo con una serie di piccoli dispetti per coglierlo in fallo, non rispettandone le prescrizioni e così di seguito. Io non sono certo che medico e paziente siano due linee parallele che si incontreranno solo all’infinito, ovvero mai; perché so che c’è la concreta possibilità di incontrarsi qui ed ora. Quando questo accade si realizza il miracolo di due forze unite che lottano per lo stesso scopo: per eliminare un dolore. Ogni guarigione fa stare infatti meglio anche il terapeuta. Essere un terapeuta sano è praticamente impossibile: la malattia ammala e anche il contatto del medico col malato risente di questo rischio. È importante che il terapeuta sia consapevole del contagio inevitabile che lo insidia e intacca giorno dopo giorno. Per questo chi cura ha l’ineliminabile bisogno di essere curato a sua volta; nel campo psicologico ciò significa in pratica che nessuno può fare correttamente il lavoro psicoterapeutico senza l’assistenza di un supervisore. Io svolgo da anni, con timore e tremore, questo compito, per i terapeuti che si sono formati alla mia scuola. La supervisione è un momento istituzionalizzato del lavoro comune. Lo so che io stesso non sono immunizzato: sono malato anch’io; ma il mio ruolo aiuta me e gli altri. Il supervisore è leggermente meno coinvolto col caso che tratta di quanto lo sia il terapeuta, per questo riesce ad essere d’aiuto all’analista e al paziente che sono gli effettivi protagonisti, contribuendo, con uno strumento in più, a dissipare i fumi di cui la malattia circonda medico e malato. Se questo è fondamentale che avvenga in psicoterapia sarebbe altrettanto utile e necessario che avvenisse in tutti i settori della medicina clinica e anche della chirurgia.

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Chi supervisiona però il supervisore? Poiché non si può risalire all’infinito, giungendo magari fino a Dio, supervisore ultimo di tutti i supervisori; il solo esente da falsa coscienza e non ingannatore; accettiamo che ogni lavoro terapeutico sia sotto il controllo di un supervisore, per quanto anch’egli malato e titubante. Già nelle epoche passate la medicina aveva sentito questa esigenza e i consulti tra medici sono sempre stati una consuetudine nella pratica clinica; ma in genere i colleghi più o meno illustri chiamati ad esprimersi sul caso si limitano ad emettere un giudizio frettoloso ed autorevole, senza veramente impegnarsi con il medico curante nel tentativo di risolvere il problema clinico nel suo complesso; ma i colleghi meno prestigiosi in questi casi tacciono di fronte al collega più illustre e solo raramente c’è una franca e approfondita discussione in cui il più autorevole svolge un ruolo di supervisore. Al mondo di umiltà ce n’è molto poca; c’è soprattutto autosvalutazione e presunzione, atteggiamenti entrambi malsani di cui bisognerebbe liberare i terapeuti e forse anche i pazienti.

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L’Ottocento si è concluso osservando lo spettacolo deprimente di uno dei suoi intelletti più brillanti prigioniero di un manicomio in Svizzera: Federico Nietzsche perdette il senno per aver osato troppo. C’è chi parla di conseguenze di una sifilide; ma questo è un male che spesso infetta chi vuole esserne vittima. Nietzsche forse fu vittima di un male incurabile in quel tempo, ma più probabilmente fu vittima dell’incurabilità della vita.
Nelle sue parole si erano sbriciolati i sogni metafisici di Hegel, i deliri positivistici di Comte, le analisi materialiste ed oggettive di Marx e forse anche l’apparentemente intaccabile dogmaticità di pensatori come Boutroux.
Rivista con l’occhio critico del poi, anche la psicologia tra i due secoli aveva prodotto risultati solo apparenti: i grandi psichiatri, da Wundt a Fechner non avevano risolto quasi nulla, le ricerche sperimentali del primo erano farse in cui sperimentatori inetti giocavano con la disperazione e la follia. Lombroso aveva messo in scena una bella tragicommedia: ispirandosi a Gall e Lavater, disse che la conformazione fisica era anche rivelatrice del pensiero che in essa era contenuto; arrivò a dire che la delinquenza era originata da un innalzamento della soglia di sensibilità e che perciò i delinquenti erano tali per la loro insensibilità alla sofferenza altrui oltre che propria.

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Rimane il fatto che neppure io, che pur ho potuto avvalermi del giudizio critico sul passato e delle conoscenze del presente, sono riuscito a teorizzare con chiarezza un metodo scientifico che mi dia la sicurezza sulla diagnosi e sull’etiologia delle malattie della psiche. Mi trovo oggi costretto ad operare seguendo una metodologia che forse ha valore solo per me e che acquista un senso solo dalla coerenza con la quale riesco ad applicarla nella situazione clinica che mi trovo ad affrontare e dallo sforzo di umiltà con cui mi pongo di fronte a problemi così gravi come quelli derivanti dalla sofferenza degli uomini. Forse è giusto che avvenga quello che finora ho denunciato come nefasto: che ogni ricercatore costruisca la propria metodologia, abbia il coraggio di esporla, accettando che venga contraddetta e anche derisa. L’importante è che ciascuno tenga fede con onestà al principio metodo logico e metapsicologico a cui si ispira; metodi e principi che magari possono parere od essere la copia o la parodia di altri, consapevolmente o inconsapevolmente. C’è una sola consolazione per chi opera, come io faccio, secondo questi principi: i buoni risultati sul campo; la indiscutibile realtà di un male e di una sofferenza quotidianamente sconfitti; la rinascita di persone che arrivano da baratri di annientamento, e diventano capaci, grazie ad un lavoro comune, di ritrovare il gusto della vita, del piacere e della bellezza.
Non credo che vorrei avere altre conferme sulla legittimità del mio operare al di fuori di queste. Non saprei cosa rispondere a chi mi domandasse se quelle che io credo siano manifestazioni di salute e di equilibrio lo sono davvero: avrei bisogno dell’aiuto dei filosofi, ma anch’essi, come gli scienziati, sono scomparsi, ed io mi ritrovo disperatamente solo.

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Mi resta un’ultima cosa da aggiungere: ho costruito il mio metodo studiando, ricercando, sperimentando a lungo da solo, entusiasmandomi nella mia solitudine; ma poi ho incontrato altri che hanno diviso tutto questo con me: la nostra fatica oggi è quella di non smarrirci e allo stesso tempo di non restare isolati; di mantenere una nostra chiarezza senza rinchiuderci nella torre d’avorio del dogmatismo; di essere capaci di confrontarci con la realtà più vasta del mondo che è intorno a noi. Voglio ancora dire che, per me, quando ci si propone un obiettivo scientifico, è importante partire dall’ironia: questa è mancata a molti e soprattutto è mancata l’autoironia; sono rarissimi gli esempi di autodissacrazione in una letteratura scientifica per altro così ricca di sferzante sarcasmo di ciascuno contro tutti. Pensare che siamo tutti tanto ridicoli nella nostra foga di teorizzatori di verità assolute!