61 – Marzo ‘90

marzo , 1990

La stagione concertistica nell’Oratorio del Gonfalone, organizzata ogni anno dal Coro Polifonico Romano con un’iniziativa musicale che si è a buon diritto inserita nella migliore tradizione romana. La piccola sala in cui si svolge la quasi totalità dei concerti è un gioiello artistico che racchiude coi suoi affreschi un momento ampio e significativo dell’arte a cavallo tra il cinque e Seicento.
Giovedì 15 marzo l’Orchestra da Camera del Gonfalone, diretta da Silvano Corsi e la partecipazione della clavicembalista Mariolina De Robertis, ha offerto un concerto gradevole ed impegnativo. La compagine orchestrale di meno di venti elementi è composta tutta di ragazzi e ragazze molto giovani; l’acerbità del suono che non possibile non avvertire è però largamente compensata da una buona sensibilità e un impegno evidente. Il direttore Silvano Corsi si è prodigato con buon risultato complessivo nella direzione e concertazione nonostante alcune incertezze di gesto, le grandi musiche barocche in programma sono giunte al pubblico correttamente e piacevolmente esposte. Per inciso a parte la bruttissima e facilissima Sinfonia in re maggiore (Veneziana) di Antonio Salieri, rigida, acida e con melodiare triviale, e l’unico pregio dell’assoluta perfezione armonica, che ci ha infastiditi non più di tanto, il resto della serata è stato un susseguirsi di autentiche perle musicali. Il Concerto in la Maggiore per clavicembalo e orchestra, di J. S. Bach, nel suo impareggiabile equilibrio tra profondità meditativa e scintillante virtuosismo, si è aperto con un bell’attacco del clavicembalo, morbido, sciolto, con le note ben sgranate; tutto il resto dell’ allegro si è poi sviluppato con un buon equilibrio formale, malgrado alcune note troppo pesanti e brevi del contrabbasso; nel larghetto successivo il contrabbasso è stato morbido ed efficace, e compunto e sereno il clavicembalo; avremmo invece voluto sentire più intensi i violini e le viole; nel terzo movimento allegro ma non troppo il cembalo è risuonato ricco, sontuoso ed accattivante; buono è stato il rapporto tra forte e piano degli archi, nonostante qualche entrata «sporca»; in questo brano come anche negli altri abbiamo apprezzato la prestazione mirabile dei due violoncelli.
Nel Concerto in re minore di G. F. Haendel l’adagio iniziale ha avuto come momento culminante il terzetto dei due violoncelli e contrabbasso; nell’ allegro il cembalo ha sfoggiato una bella eleganza, pur lasciandosi sfuggire negli accordi qualche nota di troppo, gli altri hanno risposto con efficacia; bellissimi nel terzo movimento adagio ad libitum il gioco contrappuntistico e i momenti quasi da «ricercare» sognante del cembalo; l’allegro finale, molto ben eseguito, ha registrato, proprio nel bel mezzo, un generale pasticcetto che ha coinvolto anche la clavicembalista.
Il Concerto in do maggiore di G. Paisiello, che ha concluso la serata, è un brano bellissimo che alterna episodi briosi e momenti di languore, ed è stato reso con grande perizia e partecipazione.

Il Fonclea è un locale di via Crescenzio che noi frequentiamo ogni tanto. Lo scantinato è diviso in due vasti ambienti, non sgradevoli, malgrado il molto fumo; i frequentatori abituali sono persone tutto sommato abbastanza tranquille, senza nessun eccesso di «trucido» folclorismo.
È un luogo dove si può ascoltare spesso qualche brandello di jazz sopportabile, come per esempio quello suonato qualche sera fa dalla First Gate Syncopators jazz-band, simpatico gruppo, stilisticamente un po’ all’antica, composto da Alberico di Meo, al pianoforte; Piero Ricci, banjo; Caclo Sili, basso-tuba; Fabiano Pollini, saxofono; Lino Caserta, clarinetto e Pucci Scarpato, tromba. Le melodie si dipanavano gradevolmente facili: il maggiore e il minore si alternavano nei punti canonici; le armonie: settime, none, undicesime, usate con discrezione, non stridevano mai; risolvevano dove si deve, prevedibilissimamente, ma piacevolmente. Anche le seste cadenzali erano usate con discrezione ed amabilità. Il tutto dava l’impressione di un’improvvisazione assennata, senza stranezze. A noi il Jazz piace abbastanza quando è confezionato in questo modo: per rallegrare e per accompagnare il tempo di un drink.
Gli ascoltatori, un po’ indisciplinati, facevano soprattutto l’errore di battere con i pugni sul tavolo e con le natiche sulle sedie in modo addirittura indecorosamente fuori tempo, accentuando ancor più lo scompenso degli attacchi degli strumenti.
Un buon batterista improvvisato si è invece dimostrato un avventore, magro, sorridente, dai pochi capelli, accompagnato purtroppo da una dama assolutamente aritmica. Abbiamo anche approfittato della sosta per mangiare e bere qualcosa: i cibi sono risultati di uno strazio insopportabile, come sempre qui, e non riusciamo a capire perché anziché una miriade di piattini orrendi non si offra una lista limitata a qualche buon panino, magari di pane e salame. Gradevolissima sorpresa però è stata la prova della bar-woman Valentina di Bari, la quale sa preparare una grande varietà di cocktail con sapiente mano: il Negroni correttamente equilibrato, l’Old Fashion giustamente preparato con il bourbon, mentre l’onesto Manhattan è fatto con il canadian, solo il Bronx è risultato un po’ dolciastro, forse perché anziché la spremuta d’arancia si è preferito il succo già pronto; buoni anche lo Stinger e il Rusty Nail, sebbene questo lo preferiamo senza ghiaccio nel bicchiere. Anche le birre sono buone e c’è inoltre una discreta scelta di vini, non proprio straordinari.