61 – Marzo ‘90

marzo , 1990

Il Merlo sardo è, ovviamente, un ristorante di cucina regionale, che si trova in via Tirso 42, non lontano da Piazza Buenos Aires, e lì siamo capitati su invito di alcuni amici. Andare a cena con i Farfalloni è davvero una tortura: innanzitutto bisogna sempre trovare ristoranti nuovi e poi i due parlottano continuamente fra di loro, infilando le posate nei piatti di tutti coloro che stanno al loro tavolo. L’occasione era una festa di compleanno e noi avremmo voluto essere buoni, ma quella sera non ci è proprio stato possibile e chiediamo scusa al nostro ospite, ragazzo quanto mai simpatico, il quale, speriamo, non ce ne vorrà.
Già l’ambiente si annunciava di nessuna allegria: dozzinale, nell’arredo e nelle stoviglie, con personale eccessivamente sbrigativo, precipitoso addirittura nel porre la fatidica domanda:«Bianco o rosso?», quasi prima che fossimo seduti. Decidemmo per il bianco vermentino in caraffa anche perché eravamo determinati ad iniziare con gli antipasti di pesce e verdure che occhieggiavano sul bancone di servizio. Un vino non sgradevole, ma difficilmente riconoscibile. Gli antipasti, tutti di routine, erano intrisi d’olio in misura eccessiva; l’insalata di mare risultò decisamente cattiva e (stranamente) scondita; le verdure gratinate erano mollicce e solo le cipolline in agrodolce si rivelarono appetibili.
Come primi piatti ci vennero serviti insieme malloreddus e culingiones: i primi, gnocchetti di provenienza squallidamente industriale e i secondi, ravioloni dalla dura pasta e dallo scarno ripieno; entrambi immersi in un sugo rosso al pomodoro molto sgradevole con assurdi champignon in bella mostra. Per secondi ci furono portati gli arrosti: quello di porceddu era avvolto in una così dura corazza di cuoio che doveva venire direttamente dai carri di salmeria al seguito della prima crociata; l’agnello più che arrostito era stato messo al rogo e carbonizzato; la scamorza faceva addirittura paura tanto trasudava grasso fritto.
Come contorno ci è stato portato un piatto di verdure crude (sedano, ravanello e finocchio) belle a vedersi, ma ipertrofiche e gonfie d’acqua, assolutamente senza sapore. Per una strana pudicizia l’oste aveva scelto per tale piatto un nome a metà tra pinzimonio e cazzimperio chiamandolo col verecondo nome di pizzimperio. Sugli arrosti avemmo la buona ventura di bere un Cannonau di Jerzu gradevolmente profumato di cannella, giovane e dalla morbida stoffa. Oltre a vergognose sebadas, di formaggio e miele, stecchite ed appiccicose, avemmo una buffa inserzione interregionale grazie ad una pastiera napoletana definita: torta di ricotta.
Una sorpresa furono, e molto piacevole, tra i liquori, due bottiglie di rosolio, alla fragola l’una e l’altra alla pesca, che con la loro dolce bontà fecero ritornare il sorriso a noi e ai nostri commensali. Da indiscrezioni possiamo riferire che il prezzo non fu né alto, né basso.