Nympheo, scartafaccio per opera video e/o lettura da concerto (1937) 1984, di Sylvano Bussotti, presentato in prima esecuzione assoluta nell’Aula Magna per la stagione dell’Istituzione Universitaria dei Concerti, è un «pastiche» confezionato con grande sapienza musicale e teatrale. Noi consideriamo Bussotti uno tra i migliori compositori contemporanei, ma questa volta non ci è piaciuto. Di bello in questo lavoro non c’è proprio nulla: il testo è di un decadentismo snervato e passatista, che sgambetta tra un Baudelaire afono e un D’Annunzio che non ha più niente da dire. Cumuli di parole affastellate, assolutamente prive di buon gusto che vorrebbero parlare dell’universo, saltando da Adamo a Cathy Barberian, ma creano solo un guazzabuglio indecifrabile, farcite inoltre (e ciò è imperdonabile per un toscano) di marchiani errori d’italiano. L’alternanza e la sovrapposizione di parole e di musica sono dosate sì con evidente sapienza teatrale e ritmica e l’opera è racchiusa entro due valzerini, tonalmente sghembi, ma gradevoli e pungenti; tutto il resto risulta invece piuttosto deludente.
La capacità compositiva è innegabile: le voci. nei recitativi e nei contrappunti sono usate in modo magistrale, gli armonici e le piene note gravissime del contrabbasso si dipanano senza sforzo, il pianoforte costruisce accordi astuti, le percussioni, discrete e onnipresenti sono dosate con buoni effetti; il tutto però dà l’impressione del «già udito». Siamo d’accordo che l’opera d’arte assolutamente «originale» non è mai esistita: anche i graffiti delle caverne e le sonate di Beethoven si richiamano comunque a qualcos’altro; ma quando il prodotto artistico dà esclusivamente l’impressione di essere una ripetizione, allora perde la sua ragion d’essere. Uno sforzo di originalità non c’è stato neppure nel lunghissimo, quasi interminabile, brano eseguito al pianoforte dallo stesso Bussotti, che ha solo sovrapposto un pianismo sciatto ad idee musicali ritrite. Eccellenti sono stati tutti gli altri esecutori e lo stesso autore ha svolto egregiamente la funzione di voce recitante. Il tenore Mario Bolognesi e il baritono Gastone Sarti hanno cantato con precisione e intensità. Ottimi Roberto Fabbriciani ai flauti, Augusto Vismara alla viola, Stefano Scodanibbio al contrabbasso, e Maurizio Ben Ornar alle percussioni. Il direttore Orazio Tuccella ci è parso un po’ pleonastico: nessuno pareva curarsi di lui, ma forse si è trattato di una trovata scenica.
Gli applausi ci sono apparsi solo di cortesia.
Archivio di novembre 1989
57 – Novembre ‘89
mercoledì, 1 novembre 198957 – Novembre ‘89
mercoledì, 1 novembre 1989RU 486
Periodicamente ritorna d’attualità il problema dell’aborto e questa volta a causa dell’ipotesi di adozione anche in Italia della «pillola del giorno dopo» o R U 486.
Anti-abortisti da sempre, non siamo particolarmente turbati dall’innovazione in vista; anzi: se servirà a far soffrire di meno qualche donna, ben venga!
Del resto il problema di ridurre al minimo la sofferenza pare se lo fossero posto anche i nazisti, quando valutarono i possibili modi della «soluzione finale». Per cui concordiamo con la signora Rita Levi Montalcini quando dice che, dal momento che «l’aborto è previsto da una legge dello Stato, ben venga tutto quello che può renderlo meno traumatico». Dalla «strage degli innocenti» in poi, è noto, i peggiori crimini contro l’umanità sono stati commessi nel rispetto di qualche legge dello Stato.
Ciò che invece ci turba è quella sorta di grido di liberazione levato da qualche parte per il fatto che, finalmente, l’eliminazione del doloroso passaggio attraverso la sala chirurgica renderebbe, in prospettiva, del tutto superflua ogni mediazione e affiderebbe alla donna e a lei sola la decisione di abortire.
Cosicché la solitudine alla quale la vigliaccheria dei maschi e l’ipocrisia generale avevano fino a ieri costretto la donna che si rivolgeva alla «mammana» diventerebbe libertà , proporzionalmente alla riduzione del rischio che ì nuovi metodi di interruzione di gravidanza comportano.
Se è necessario uccidere, dal momento che il male di una nascita non voluta o di una vita resa invivibile sarebbero mali peggiori, perché allora questa decisione dovrebbe pesare interamente sulla donna? E non serve chiamare la vittima «zigote», «embrione» o «feto» per rendere il delitto meno grave.
Può essere uno solo il responsabile di un concepimento? Può la società ignorare le conseguenze di un eventuale gesto di violenza?
Uomini e donne, individui e gruppo, siamo ugualmente responsabili: e se la conseguenza di un gesto di responsabilità deve essere un omicidio, perché condannare la donna a perpetrarlo ìn solitudine?
Riconosciamo alla donna costretta ad , abortire il diritto di chiamarci correi; poiché è anche per colpa nostra, di laici infingardi e di cattolici in malafede, che quello stupro è avvenuto, quel progetto di vita è inattuabile.
Se questa è intransigenza integralista o misoginia maniacale, allora si dimostri che la donna è oggi libera in ogni momento di gestire la sua vita e la sua sessualità, o che libero è il maschio, nel reciproco rispetto di esseri umani e di cittadini, fin dal concepimento.
57 – Novembre ‘89
mercoledì, 1 novembre 1989Che Sigmund Freud fosse patologicamente impenetrabile a qualunque forma d’arte è, secondo noi, assolutamente palese; ogni qualvolta si è azzardato a dire qualcosa su di un quadro, un pittore, uno scultore o un poeta non ha detto che sciocchezze. Eppure con l’arte figurativa e quella letteraria il padre della psicoanalisi ha tentato di confrontarsi più di una volta. Se non fosse che, in genere, la maggior parte degli psicoanalisti successivi è stata ed è tuttora ancora più inetta e smarrita di fronte ad un’opera d’arte, qualche cervello ne di costoro avrebbe dovuto analizzare le ragioni per le quali il fondatore della psicoanalisi si sia rivelato così tetragono alla comprensione di un aspetto tanto importante dell’animo umano. Sarebbe anche molto interessante capire perché quasi tutti gli adepti della psicologia dinamica siano totalmente cretini quando parlano d’arte. C’è però un contraltare: in genere gli artisti, e soprattutto i rappresentanti dell’arte figurativa, non hanno mai, assolutamente mai, capito niente di psicoanalisi; vuoi per ingenuità, come nel caso dei surrealisti, con i loro sproloqui sui sogni e sulla scrittura automatica; o per tronfia pusillanimità, quale è evidente nei pittori di oggi, che troppo spesso si sforzano di infarcire le loro opere di pulsioni o desideri, più o meno presi per la coda. L’artista però ha un grande vantaggio sullo scienziato: non importa quello che dice, ma importa quello che fa; ed allora Picasso o Garcia Lorca trascendono la parola parlata; il segno o il verso poetico superano le ingenuità positivistiche; l’artista riesce infatti a rappresentare l’uomo colmo delle sue pulsioni desideranti, dei suoi deliri, delle sue speranze e dei suoi amori. Alcune opere d’arte rivelano una comprensione dell’uomo certamente maggiore di un trattato di psicoanalisi o di psicologia!
Lo psicoanalista o lo psicologo, da scienziati, si trovano invece rinchiusi nel cerchio riduttivo delle parole che sono solo parole; il loro dire, troppo spesso, non riesce a richiamarsi a nient’altro. Non è certamente, questa nostra, una condanna dell’artista né dello psicoanalista: senza dubbio nell’intimo, qualcuno è riuscito ad entrare in sintonia con queste due realtà poiché indiscutibilmente anche la scienza è ambigua, evanescente ed impalpabile come l’arte; ma mentre quest’ultima ne è fin troppo convinta, la prima mostra di ignorarlo del tutto.
L’opera di Salvador Dalì, soprattutto per il periodo surrealista, si dice che sia stata fortemente influenzata dalla psicoanalisi: affermazione che noi reputiamo falsa.
Soltanto il prurito pseudo-culturale dei critici può intravedere qualcosa di maggiormente edipico nella daliniana Crocefissione del 1954, che, per esempio, nella Madonna della seggiola di Raffaello; oppure che abbia maggiori caratteristiche oniriche La persistenza della memoria, che lo spagnolo dipinse nel 1931 piuttosto che San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Lo stesso Dalì si è compiaciuto di usare termini quali «paranoia» o «isteria» da appiccicare alle sue opere senza però che il gioco andasse oltre al pretesto provocatorio.
L’arte di Salvador Dalì ha un suo significato nella cultura del nostro tempo, anche per la commistione di ignobile e di sublime che la caratterizza. Ogni trucco adatto a favorire la promozione di un personaggio e ad incrementare un mercato è stato usato senza scrupoli, ma con la stessa tranquillità di coscienza con cui contemporaneamente nascevano alcuni dei capolavori del Novecento quali, ad esempio, oltre ai due già citati, La Madonna di Port Lligat del 1950 e il Concilio Ecumenico del 1960.
Bene ha fatto quindi l’Accademia di Spagna a presentare, a pochi mesi dalla scomparsa, le opere di Dalì messe a disposizione dalla Stratton Foundation, in una mostra intitolata Dalì scultore Dalì illustratore.
La scultura ha rappresentato probabilmente per Dalì una conquista, sia nella direzione dello spazio, sia in quella di una oggettività dell’opera, fissata anche dalla determinazione concreta della materia ed è forse la migliore controprova di quanto poco evanescente egli sentisse il proprio mondo interiore, tanto da riuscire nell’impresa di renderlo oggetto tridimensionale e consistente almeno quanto «surreale». A guardare le sculture raccolte in queste sale si vede come il surrealismo sia l’alibi per una sfida che diviene talvolta (abbastanza spesso) gioco. La sfida è quasi sempre vinta dall’artista, che riesce a dimostrare forza e creatività con opere quali il San Giorgio e il drago (1977-84) ricco di reminiscenze, ma anche splendente di una c1assicità propria, fatta di forza ed eleganza nelle due figure principali a confronto, e di accorato sentimento nel gesto della piccola figura femminile col braccio levato. Drammatici sono ogni linea ed ogni volume del Cabinet anthropomorphique (1982) dove il corpo umano contorto diventa anche un enigma per l’assenza di uno sguardo, nascosto dalla cascata dei capelli e per la presenza di quei cassetti, che qui non sembrano accessori gratuiti, ma riescono a spezzare il tentativo di ogni razionalizzazione dell’immagine e della sua comprensione. Ancora di una purezza senza ombre ci sembra Alice au pays des merveilles (1977-84) con la fanciulla che ha mani e capelli fatti di rose e che danza elegantissima nel gesto di saltare la corda. A fianco di opere come queste, che non ci sembrano sollevare dubbi sul valore dell’artista (come indubbiamente «significativi», malgrado tutto e forse malgrado Dalì stesso, sono diventati gli «orologi molli», gli «unicorni» o le «stampelle» e i cassetti e le formiche sparse un po’ dappertutto, anche nella scultura oltre che nella pittura), l’altro aspetto di Salvador Dalì è quello reperibile in lavori come il Buste de femme retrospectif (1933-70): sul busto nudo dal roseo incarnato, il volto leggiadro di una donna è decorato di nere formichine dipinte, mentre sugli omeri pendono due pannocchie di granturco; un filone di pane è posto trasversalmente sul capo e su di esso due calamai in bronzo dorato riproducono tridimensionalmente l’Angelus di Millet. Qui è già quasi tutto presente: lo scherzo, il simbolo, la figura, la riflessione sull’arte stessa e la sua storia.
Di qui parte una linea che è di gioco: talvolta colto, come in Lilith et la double Victoire de Samothrace (1966), talaltra quasi canagliesco come il Thelephon Homard o volgare, come il divano ricalcato sulla forma delle labbra di Mae West.
A fianco della scultura, c’è però in mostra anche gran parte dell’opera illustrativa di Salvador Dalì e allora qui è difficile ignorare la capacità di cultura e di comprensione che l’artista dimostra, messo al confronto con alcune opere cardine della letteratura universale: dal Don Chisciotte, al Decamerone, dai Canti di Maldoror alla Carmen, passando attraverso l’opera del marchese De Sade e di Sacher von Masoch e, udite udite, dello stesso Freud, di cui illustra Mosé e il monoteismo. Pochi illustratori hanno saputo e sanno dimostrarsi così all’altezza di un compito, senza prevaricare e senza ridursi a didascalie figurative: Dalì ci riesce.
Forse al di fuori del tema strettamente inteso della mostra c’è una serie di venticinque litografie intitolate Alyah (1968) che ci hanno sconvolto perché esprimono una capacità di immedesimazione in un’epopea che difficilmente anche noi avremmo sospettato. Il titolo significa in ebraico «Salita» e sta ad indicare l’immigrazione ebraica in terra d’Israele: dall’Olocausto all’Esodo i momenti eroici di un popolo, le cui vicende ci coinvolgono da sempre, sono rese con un’asciuttezza e una commozione che inquietano.
Per concludere, diremmo che proprio nello sbandierato aspetto di millantatore che Dalì stesso ha sempre voluto mettere in risalto, sta una grande dichiarazione di onestà e di umiltà, dalla quale dovrebbero prendere esempio certi contemporanei artisti di ascetico mutismo, presuntuosi nell’informità di opere che sono alibi d’ignoranza e di aridità.
57 – Novembre ‘89
mercoledì, 1 novembre 1989In una «cascina» tra i prati, i pioppi e le acacie, nelle vicinanze di un antico villaggio del Canavese, da cui provengono gli avi di uno dei due Farfalloni, abita una vecchina ormai ultranovantenne. Da quando la conosce, Sandro afferma di averla vista sempre così: un po’ curva ma non troppo, con indosso un lungo abito nero dalla sottana a piccole pieghe, i capelli bianchi, il naso adunco e stupendi occhi azzurri; ha il nome di un fiore e parla con voce sommessa. Da sempre gli racconta cose meravigliose, all’uscita della messa domenicale o seduti sul prato sulle rive del ruscello. Tutti nel paese dicono che sia una strega, che conosce i misteri più nascosti del mondo, dell’anima umana e del futuro. Ormai la fornaia, il parroco, il meccanico e il contadino hanno smesso di averne paura, o forse, e questo è più probabile, sono riusciti a ricacciare la paura nel profondo del loro inconscio, per cui si permettono, sorridendo, di dire che una volta si diceva che quella donna fosse una strega, mentre oggi… Ma la vecchia dagli stupendi occhi azzurri col nome di un fiore è tutt’oggi ben convinta di essere una strega! Racconta infatti di possedere un libro su cui legge. cose che non può ridire a nessuno, dice anche che talvolta un animale: uno scoiattolo, una capra o una faina, viene a convocarla e di notte lei deve andare e andare… Ritorna che è già mattino: ha visto e fatto cose meravigliose; ha assistito anche a scene terribili; ma essendo timorata di Dio, si è sempre rifiutata di accondiscendere al maligno. Sono oggi le stesse storie che raccontava tanti anni fa, in paese però, nessuno ha mai insinuato che fosse pazza.
Il libro di Carlo Ginzburg Storia notturna. Una decifrazione del sabba (Einaudi, 1989; pagg. 319, Lit. 45.000), parla delle streghe, dei maghi, degli ebrei, dei lebbrosi e dei mori, cercando di reperire usanze comuni, riti favolosi, persecuzioni tremende;
senza però lasciarsi andare alla facile indignazione per le turpitudini del potere perpetrate da clero e nobiltà, che torturavano e uccidevano, al riparo della Croce, per bieche ragioni politiche. Le bieche ragioni politiche c’erano, ed anche economiche; le nefandezze di cui erano incolpati quei derelitti erano frutto anche di calunniose invenzioni; ma se tutto si potesse liquidare nella squallida banalizzazione dei ricchi che espropriano chi non ha che pochissimo per aumentare scriteriatamente le loro ricchezze, secondo noi, si finirebbe con l’umiliare profondamente la realtà storica ed umana di streghe, maghi ed altri emarginati. È molto interessante invece fare come fa Ginzburg, il quale con un linguaggio piano, schietto e immediato, narra e analizza non solo le torture e le persecuzioni, ma anche le fantasie, le proiezioni e le autosuggestioni di accusatori e di accusati. C’è proprio bisogno di richiamare la consueta teoria dell’identificazione con l’aggressore, per immaginare che streghe, maghi ed eversivi di ogni specie potessero talvolta fantasticare di appartenere realmente ad una società di volta in volta misteriosa, oscura, malefica o benefica al di sopra della società costituita? Le atrocità dei potenti restano tali e nessuno le potrà giustificare, ma, partendo proprio da quest’opera così chiara si può analizzare anche l’inconscio sociale in cui determinati fenomeni si sono manifestati.
Nel libro non solo vi è una grande quantità di notizie, ma è esplicitato quanto arduo sia adottare una metodologia e con quanta difficoltà sia possibile seguirla. Senza fumosità, l’autore analizza l’esperienza del Sabba, sia da un punto di vista diacronico sia sincronico, riuscendo spesso a dame ragione in modo anche convincente. Per fare un esempio del modo di procedere, ricco, vario e anche affidato a grandi capacità intuitive, applicato ad un elemento al quale è possibile per tutti fare con facilità riferimento, basti vedere l’analisi e le analogie con cui l’autore tratta, in fin di libro, la notissima favola di Cenerentola.
57 – Novembre ‘89
mercoledì, 1 novembre 1989Quella sera i due Farfalloni erano soletti, senza l’abituale stuolo di amici, si sentivano un po’ tristi perché avevano ascoltato un brutto concerto; la notte ottobrina sembrava insignificante ed insulsa; i due decisero di entrare in un ristorante per tirarsi un po’ su: entrarono perciò a L’Incontro 79 di via dei Serpenti 79: due stanzette azzurre e rosa con qualche specchio ed un aspetto invitante, frequentate da pochi avventori con l’aria degli «habitués». Pieni di speranze ci immergemmo nella lettura del menù; ma appena immersici riemergemmo subito disgustati e delusi: soltanto ed esclusivamente il solito elenco di banalità pseudo-gastronomiche! Allora, presi da uno strano raptus masochistico, invece di andarcene subito come sarebbe stato giusto, decidemmo di scegliere tutti e due gli stessi piatti, per sentirci ancora più soli e derelitti. In fondo, in fondo al cuore, c’era ancora la speranza di assaggiare qualcosa di gradevole, magari proprio perché scontato e prevedibilmente facile da preparare; ma quando sulla tavola arrivarono i due risotti ai fiori di zucca anche l’ultima fiammella d’illusione si spense: in un grande piatto di panna una montagna di riso mal cotto, in cui forse, da qualche parte, ma non era facile accorgersene, era nascosto un fiore di zucca; poi, lo confessiamo, ordinammo il piatto più squallido del mondo: la «cotoletta alla milanese» e ci arrivarono due Oceanie; cioè una specie di carne pressata, forse di pollo (?), che disegnava sul fondo dei nostri piatti i contorni di quel continente, entrambe assolutamente uguali nelle coste e nei rilievi; il sapore, ovviamente non c’era. I contorni dicevano di essere zucchine e melanzane ai ferri; ma una verdura non si distingueva dall’altra e tutte erano accomunate da un dolciastro sapore di castagna. Abbiamo bevuto, dopo il Kir anodino dell’inizio, un Nebbiolo senz’arte né parte. L’unica cosa di tutto rispetto è stato il conto: altissimo, se pur accompagnato da una vodka ghiacciata in «omaggio».
Assolutamente fuori stagione, ci va comunque di parlare del ristorante Da Pierino di Anzio; dove ci capita di andare – non per diporto – ogni tanto. È un ristorante che sembrerebbe da nulla, messo tra il Municipio e il Porto, ma ad un occhio attento non può sfuggire subito, la cura con cui il servizio viene svolto e l’evidente qualità delle materie prime: prima fra tutte il pesce.
E bello abbandonarsi alla festa fin dall’antipasto: una girandola di sapori, tutti armoniosamente combinati: i cuscinetti di alici e mozzarella, le polpettine di pesce, l’insalata di mazzancolle e rucola e anche le umili alici marinate e poi: cozze, telline, seppioline, tutto profumato ancora di mare! Tra i primi piatti è un peccato rinunciare a qualcuno: pennette al nero di seppia addirittura raffinate, tagliolini all’aragosta fatti in casa, saporitissimi e principescamente generosi; anche le semplicissime linguine al coccio risultano di sapore più che alto. Tra i molti modi di preparare il pesce, noi per i secondi piatti, preferiamo la spigola coi capperi, olive e vino e i calamari in guazzetto, esempi edificanti di come si possa condire con sughi ricchi di profumi e gusto, senza umiliare, anzi esaltando la morbida e delicata personalità del pesce.
Se fosse possibile, diremmo che alla cantina si dà cura ancora maggiore: la lista è una miniera di piccole e grandi scoperte di vini italiani e francesi e la regalità del tutto è suggellata da un carrello di grappe capace di far sognare (anche perché è difficile resistere, dopo, a un sonnellino). Il costo, in rapporto al livello, è quasi irrisorio. È un’esperienza comunque che non va fatta in fretta: lasciate passare il tempo che ci vuole prima di rimettervi in viaggio!
57 – Novembre ‘89
mercoledì, 1 novembre 1989Attilio Corsini ha «liberamente» trovato ispirazione ne Il mondo alla rovescia, una commedia del 1798 di Ludwig Tieck, il grande traduttore di Shakespeare e Cervantes, per il suo Vita e morte di Cappuccetto. Rosso. Già in quel vecchio testo l’autore tedesco cerca di sovvertire gli schemi del teatro: personaggi e personaggi si affollano, filosoficamente simbolici, parlando al di qua e al di là della scena. Nella versione offerta al Teatro Vittoria dalla compagnia Attori e Tecnici, non è soltanto una piccola folla che sgambetta, ma è un’orda di assatanati che fischia, balla, canta (malissimo), parla della vita e della morte e di problematiche che vanno dai Sei personaggi in cerca d’autore alla drammaturgia neoclassica.
Un vero Apollo, finto sulla scena, si trova detronizzato da un vero comico che quindi diviene un finto Apollo; un impiegato del catasto e un Pierrot stanno con un piede di qua e un altro di là; c’è un prefetto con la moglie, le nove muse (che non sono nove). Costoro parlano talvolta tutti insieme, talaltra esprimendosi in lunghi monologhi di romantico qualunquismo. Pierrot, infernale e dilagante, sproloquia in continuazione in un eccesso di eloquenza iettatoria. Nella testa dello spettatore si ingenera una grande confusione ed anche in quella dei due Farfalloni che hanno faticato a non addormentarsi nel generale baccano stranamente soporifero. Non abbiamo capito perché lo spettacolo si intitoli Vita e morte di Cappuccetto Rosso, ma immaginiamo che la cosa si dovrebbe spiegare con l’intento di una qualche metafora filosofica. Non possiamo citare tutti i numerosi interpreti, altrimenti dovremmo dedicare un numero intero della rivista alla bisogna, diremo soltanto che alla compagnia stabile erano aggiunti elementi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e che ci è parso brillare di luce propria Gigi Bonos. Le musiche eseguite dal vivo dagli Extradivarius erano di un Fiorenzo Carpi un po’ di maniera, ma gradevoli; le tenere scene di Lele Luzzati andavano quasi perdute nella bagarre. La regia era dello stesso Corsini che peggio forse non potrebbe fare.
Al teatro Borgo, risorto nell’antica sede di via dei Penitenzieri, dietro l’Ospedale di S.Spirito, è andato in scena il René di Riccardo Reim, tratto dall’omonimo romanzo di F.R. de Chateaubriand, con la regia dello stesso Reim e interpretato da Elisabetta De Palo.
Il testo, molto farraginoso ed estremamente discontinuo ha due grandissimi difetti ed alcuni pregi innegabili. Il primo e più grave difetto è che Reim non ci è parso capace di realizzare una vera scrittura teatrale: l’inizio e la fine si svolgono sullo stesso piano senza che si intraveda uno sviluppo drammatico che porti dall’uno all’altra; il secondo difetto sta in «scollature» troppo evidenti tra i diversi momenti scenici: i chiaroscuri in teatro sono importantissimi, però non dovrebbero mai dare l’impressione del frammentario, e, peggio ancora, l’impressione del «frammentato», soprattutto se la frammentazione non è l’evidente scelta estetica (se poi nell’intenzione dell’autore questa è la scelta, allora bisogna dire che al pubblico non risulta percepibile). l pregi sono più del regista che dell’autore, però alcune situazioni ed alcune fantasie riescono a coinvolgere e a far sorridere. René, scritto da Chateaubriand nel 1802 è un romanzo breve che si propone una vera e propria esaltazione dei valori del cristianesimo, ma influì anche moltissimo sul costume dell’epoca in cui apparve: molti giovani si identificarono nel diafano ed estenuante protagonista, fuggito lontano dalla sua natia Francia dopo aver inopinatamente scoperto i sentimenti incestuosi della sorella Amélie. Religione e sesso, turbamenti metafisici e sentimenti panici si affollano nell’opera e non è ben chiaro quanto questa sia frutto di un costume o l’abbia invece influenzato: l’inconscio sociale non meno di quello individuale è una realtà ambigua e questa ambiguità si svela con grande evidenza in quelle che possono essere considerate con qualche legittimità opere secondarie di autori pure grandissimi come certamente fu Chateaubriand. Nell’adattamento scenico Reim non si pone troppi problemi di tal natura, ma si propone di farci conoscere la vicenda attraverso il punto di vista della sorella Amélie, definendone un carattere fin troppo facilmente prevedibile di vittima-carnefice, di angelo diabolico. Riesce a rendere però tutt’altro che ovvio il suo personaggio la bravissima Elisabetta De Palo: il suo uso della voce è eccezionale, sa passare dal tono grottesco a quello surreale, modula dal vocalismo simbolico fino a trovare accenti di puro estraniamento brechtiano ed è capace anche di raggiungere una musicalità quasi operistica. La sua gestualità non è inferiore ed accompagna ogni parola con grande efficacia. Al di là della bravura dell’interprete è ben evidente la guida solida di Reim regista, che non abbandona mai il personaggio a se stesso. Veramente in carattere con le atmosfere emotive il commento musicale di Adriano Maria Vitali, che rivela però anche sempre la capacità dell’autore di costruire una propria musicalità ben definita. Le scene e i costumi di Paola Cialfi assolvono dignitosamente ed ironicamente la loro funzione.
Psicoanalisi contro n. 57 – Il cane bianco
mercoledì, 1 novembre 1989Quando si ascolta qualcuno che parla si possono assumere molti e diversi atteggiamenti. Ci può essere l’ascolto distratto che tende soltanto a capire quanto è sufficiente per dare una risposta, per interloquire in discorsi ritenuti poco impegnativi; oppure si può prestare orecchio con molta attenzione, pronti a cogliere il significato di ciò che viene detto, per farlo in qualche modo proprio, o per avere argomenti utili a dare risposte efficaci; c’è anche la possibilità di lasciarsi andare completamente ai discorsi altrui, trascinati e conquistati, in una sorta di ipnosi ora piacevole ora angosciosa; oltre a questi ci sono 3 altri infiniti atteggiamenti che è possibile assumere: quello rabbioso di chi cerca il litigio, quello sognante dell’innamorato, abbandonato al piacere epidermico della voce che accarezza. Inoltre non esistono precise linee di separazione tra un atteggiamento e l’altro, tanto sono sfumati ed intrecciati i sentimenti umani.
C’è però, sia pure frammisto ad uno o più degli atteggiamenti sopra elencati, un modo particolare di porsi, che ha una sua peculiarità: quello di chi si propone di capire ciò che sta oltre a quello che viene detto; di capire cioè quello che le parole più che svelare tentano di nascondere. Si racconta che i diplomatici dell’impero di Bisanzio, coi loro occhi a pesce, come li ha tramandati la tradizione fissandoli sui mosaici dorati, parlassero sempre e solo in modo trasversale, per cui era importante capire soprattutto ciò che le parole celavano. Oggi, meno grandiosamente, i diplomatici sono grigi burocrati dalle brutte cravatte che mentono sapendo di mentire; eppure anche loro sono recepiti più per quello che non dicono e quello che dicono è sempre ritenuto soltanto menzogna. In sostanza il gioco è rimasto però quello di cercare di ingannare per non cadere nell’inganno altrui.
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Ci sono quindi situazioni nelle quali bisogna saper capire le cose che le parole non dicono e che le parole negano e mistificano.
Un modo particolare di leggere ciò che sta dietro le parole è quello che mira a comprendere le motivazioni inconsce che inducono gli uomini a fare e a dire cose diverse da quelle che desiderano e pensano. In questa situazione non si trova soltanto lo psicoanalista; ma può trovarsi chiunque nelle più diverse occasioni. Spesso è chiaro ed evidente a chi ascolta quali sono le reali motivazioni e i desideri di chi parla; ma le une e gli altri sono assai spesso ignoti a colui che sta parlando, il quale, proprio con la passione dialettica attraverso la quale si esprime, rende più esplicita la propria inconsapevolezza.
Altre volte, anche per chi ascolta è difficile capire cosa spinge l’interlocutore ad esprimersi in quel determinato modo. D’altro canto ci sono situazioni in cui la consapevolezza sembra a tratti affiorare anche in chi parla, che per esempio resta colpito dalla frase appena pronunciata che ha il tono così evidente di «negazione» da non poter più permettergli nessuna falsa coscienza, oppure mastica quasi frasi che si contraddicono reciprocamente. Bisogna tenere presente, nel valutare tutte queste situazioni, che il nostro giudizio sulle parole altrui è anche condizionato dalle nostre motivazioni, quelle consce e quelle inconsce, dalle nostre fantasie e dai nostri desideri e che quindi ci si trova in una condizione di reciprocità difficilmente dipanabile, ma difficilmente eludibile.
Da che mondo è mondo, tutti gli esseri umani sanno del resto che le parole nascondono più cose di quante non ne dicano. Errori di percorso, quali sono in fondo i lapsus, non sono prerogativa esclusiva del linguaggio verbale, ma per il momento prendiamo in considerazione soltanto questo.
Un lapsus verbale è il segno rivolto alla coscienza di un desiderio conflittuale: non è stato necessario attendere l’avvento della psicoanalisi per rendersene conto; quante commedie e tragedie hanno usato questo meccanismo per dare l’opportunità ai personaggi di comunicare agli spettatori desideri e intenzioni non ancora espliciti. Anche la grande poesia vi ha fatto ricorso:
«Noi leggevamo un giorno per diletto di Lancillotto come amor lo strinse: soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante». Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangea, sì che di pietade io venni men così com’io morisse; e caddi come corpo morto cade.»
(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, V, 127-142)
Il poeta sa ciò che i due non vogliono ancora sapere. Quanto grande e quanto piacevole doveva essere il sospetto dei due e quanto ingenuamente patetico il tentativo di addossare al libro «galeotto» la responsabilità di una passione così forte da superare ogni barriera morale e di rispetto delle convenzioni! Solo Francesca ammetterà la forza di un piacere che ancora non l’abbandona, neppure nel regno dei morti e trasforma le due anime dannate in due colombe disperatamente ed eternamente amanti:
«Quali colombe, dal disio chiamate, con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere dal voler portate; cotali uscir della schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’acre maligno, si forte fu l’affettuoso grido. «O animai grazioso e benigno che visitando vai per l’aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re dell’universo, noi pregheremmo lui della tua pace, poi c’hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che ‘1 vento, come fa, si tace. Siede la terra dove nata fui sulla marina dove ‘l Po discende per aver pace co’ seguaci sui. Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui della bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense.»
(Dante Alighieri, op. cii., Inferno, V, 82-107)
Dante non ha solo descritto, ma ha anche interpretato i sentimenti di Paolo e Francesca; però che grandezza nelle parole del poeta che né io né alcuno psicoanalista raggiungeremo mai! Scrolliamoci di dosso le tristezze di essere solo piccoli tentativi di scienziati depressi e proseguiamo il nostro umano ragionamento. E’ vero infatti che la psicoanalisi è riuscita a usare in modo sistematico il meccanismo dei lapsus ai fini dell’indagine e della pratica terapeutica.
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Se si ha una buona disposizione ad ascoltare gli altri, sia pure accettando quel coinvolgimento che è requisito indispensabile ad ogni tentativo di comprensione, si sarà anche capaci di «epochizzare», di riuscire cioè a sospendere il giudizio; non già nel significato illusorio e risibile degli antichi filosofi e di qualche moderno, che hanno creduto e credono di millantare una impassibile e impossibile neutralità di fronte all’appassionante problema della verità, che invece va sempre ricercata con impegno.
Più semplicemente si tratta di accettare l’ipotesi che il giudizio possa venire da punti di vista diversi e contempli una possibilità di variazione, conseguente alla rinuncia progressiva al pregiudizio. La volontà di comprensione degli altri comporta anche il riconoscimento dei personali condizionamenti. Non si deve inoltre avere la pretesa di comprendere sempre tutto: è già molto accontentarsi di riuscire a capire qualcosa qualche volta.
Nessuno può essere garante della assoluta fondatezza di un giudizio; ma la vita – come la conoscenza – è sempre un rischio da correre.
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Ho detto quindi esplicitamente che esiste la possibilità di capire, se lo si vuole veramente, il linguaggio dell’altro, per quanto diverso dal nostro possa essere (benché rimanga qua e là qualche area di indecifrabilità).
Il passo successivo che s’impone è quello di come utilizzare questa possibilità di comprensione.
Quando il rapporto non è di tipo psicoanalitico, bisogna andare molto cauti nel leggere ad alta voce ciò che le parole non dette dell’altro vanno quasi disegnando su di uno schermo. E’ inutile ostentare con saccenza la propria capacità di svelare misteri: «hai detto così; ma volevi dire invece.., tu credi che, ma invece vuoi…»; sarebbe inutile e darebbe fastidio a chi ci parla. E’più utile tenere per noi questa comprensione, che ci eviterà di cadere in tranelli troppo facilmente e magari usarla anche per essere discretamente utili a chi rischia di essere vittima dei propri inganni.
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A me, e forse anche ad altri, vengono in mente due domande. La prima è: «Perché, se l’inconscio è così inconsapevole, le sue istanze appaiono però così esplicite a chi osservi dall’esterno?» A questa che pare essere la domanda che sta dietro a tutte le possibili altre domande, posso cercare di dare una sia pur parziale ed ambigua risposta: «L’inconscio, in realtà, non è un patrimonio individuale; ma è costruito dal mondo nello stesso tempo in cui partecipa della costruzione del mondo». L’inconscio è un’entità sociale che ci costituisce e in cui siamo immersi; per questo è possibile tentarne, dall’esterno, una lettura almeno frammentaria. Così inteso, l’inconscio non è più quindi una realtà intima e segreta, ma un patrimonio comune. Di ciò parlerò in seguito. In questo suo nuovo significato l’inconscio è più consapevole di quanto lo intendesse la vecchia psicoanalisi teorizzatrice dell’inconscio individuale; ma più difficile da decifrare. Il fatto è che le istanze di questo inconscio sono sparse nel mondo, sono più universali.
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La seconda domanda è: «Quale valore hanno e quale uso rimane possibile dei discorsi espliciti?» L’antica psicoanalisi ci ha abituati a disprezzarli, insegnandoci che la coscienza racconta solo frottole, razionalizzando e divagando, portando comunque molto lontano dalla verità; mentre ciò che è vero sta celato nel profondo dell’inconscio. A me questa è sempre sembrata una sciocchezza: che funzione avrebbe allora la coscienza, forse solo quella di occultare l’inconscio? Non ci sarà qualche altra sua ragion d’essere? Se fosse solo un travestimento dell’inconscio quali sarebbero rispettivamente la parte conscia dell’inconscio e quella inconscia della coscienza? Una matassa inestricabile, dominata solo dall’inconscio? Io non credo che sia così. Il discorso della coscienza ha una sua utilità profonda e non è mai completamente disgiunto da quello dell’inconscio: l’uno rampolla l’altro. Se una caratteristica della coscienza è quella di «razionalizzare», come si diceva un tempo, per coprire; l’altra, e positiva, è quella di mirare direttamente al raggiungimento degli obiettivi, senza lasciarsi disorientare dall’ambiguità polidirezionale dei desideri. Infine, è importante prendere atto che i contenuti della coscienza sono costituiti anche dalla consapevolezza acquisita di parte del patrimonio dell’inconscio.
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Altre volte ho detto come nella situazione psicoanalitica (solo in essa e non in altre situazioni) si pongano, per l’analista, grossi problemi, quando si tratti di esplicitare il vero senso delle parole che vengono pronunciate. Ho detto quanto sia importante la cautela, la scelta dei tempi, per ogni tentativo di comunicare al paziente il significato vero, per lui, di un gesto o di una parola; non voglio qui andare oltre a quei suggerimenti generici anche perché non sono sicuro di avere ancora in proposito idee più chiare. Il problema che ora voglio affrontare è questo: quanto è vero che i problemi fin qui esposti riguardano soltanto il linguaggio verbale di cui ho detto di voler esclusivamente trattare? In realtà alle parole dette che letteralmente avviluppano analista e paziente nel rapporto analitico si aggiunge altro che non è più solo parola. E’ allora indispensabile andare oltre le parole e lasciar cadere la comoda illusione che conscio e inconscio siano entrambi solo costruzioni di parole.
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L’uomo non è fatto solo di parole, per quanto esse siano utili ad esprimere parte della realtà e senza di esse non sia possibile raggiungere nessuna consapevolezza di sé o del mondo. E’ vero invece che talvolta le parole costituiscono anche la barriera che costringe nell’inconsapevolezza. Bisogna quindi avere il coraggio di andare oltre, per quanto questa frase possa suonare ormai retorica. Io però non ho paura della retorica e mi sforzo di dire tutto quello che penso, di lasciar ben vedere quanto di lontano venga il mio pensiero e quanto lontano si diriga e con quanta bizzarria voglia proseguire il suo cammino, che mi propongo di non rendere mai prevedibile, anche se mi costa qualche sicurezza in meno. Per questo forse è bene che ora dica che io ho un cane, grande e bianco, con la coda arricciolata all’in sù, non di gran razza; ma di una bellezza quasi irresistibile, con occhi dolci ed espressivissimi, che mi assilla a tavola spingendo col muso il mio braccio, al quale io cedo nonostante il parere di tutti i saggi educatori, concedendogli bocconi dal mio piatto, divertito dal fatto che vedo tutti i miei amici inorridire ed al tempo stesso sorridere felici.
Quali sono le parole del mio cane? Quel cane non ha parole; ha qualcosa di altrettanto importante, forse è persino più sincero, senza parole per ingannare. È certo che io quando gli parlo sono meno sincero; ci comprendiamo bene: il suo linguaggio senza parole mi sconfigge, proprio come le mie parole lo ingannano. Io ho un cane bianco che non usa parole…