Psicoanalisi contro n. 57 – Il cane bianco

novembre , 1989

Quando si ascolta qualcuno che parla si possono assumere molti e diversi atteggiamenti. Ci può essere l’ascolto distratto che tende soltanto a capire quanto è sufficiente per dare una risposta, per interloquire in discorsi ritenuti poco impegnativi; oppure si può prestare orecchio con molta attenzione, pronti a cogliere il significato di ciò che viene detto, per farlo in qualche modo proprio, o per avere argomenti utili a dare risposte efficaci; c’è anche la possibilità di lasciarsi andare completamente ai discorsi altrui, trascinati e conquistati, in una sorta di ipnosi ora piacevole ora angosciosa; oltre a questi ci sono 3 altri infiniti atteggiamenti che è possibile assumere: quello rabbioso di chi cerca il litigio, quello sognante dell’innamorato, abbandonato al piacere epidermico della voce che accarezza. Inoltre non esistono precise linee di separazione tra un atteggiamento e l’altro, tanto sono sfumati ed intrecciati i sentimenti umani.
C’è però, sia pure frammisto ad uno o più degli atteggiamenti sopra elencati, un modo particolare di porsi, che ha una sua peculiarità: quello di chi si propone di capire ciò che sta oltre a quello che viene detto; di capire cioè quello che le parole più che svelare tentano di nascondere. Si racconta che i diplomatici dell’impero di Bisanzio, coi loro occhi a pesce, come li ha tramandati la tradizione fissandoli sui mosaici dorati, parlassero sempre e solo in modo trasversale, per cui era importante capire soprattutto ciò che le parole celavano. Oggi, meno grandiosamente, i diplomatici sono grigi burocrati dalle brutte cravatte che mentono sapendo di mentire; eppure anche loro sono recepiti più per quello che non dicono e quello che dicono è sempre ritenuto soltanto menzogna. In sostanza il gioco è rimasto però quello di cercare di ingannare per non cadere nell’inganno altrui.

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Ci sono quindi situazioni nelle quali bisogna saper capire le cose che le parole non dicono e che le parole negano e mistificano.
Un modo particolare di leggere ciò che sta dietro le parole è quello che mira a comprendere le motivazioni inconsce che inducono gli uomini a fare e a dire cose diverse da quelle che desiderano e pensano. In questa situazione non si trova soltanto lo psicoanalista; ma può trovarsi chiunque nelle più diverse occasioni. Spesso è chiaro ed evidente a chi ascolta quali sono le reali motivazioni e i desideri di chi parla; ma le une e gli altri sono assai spesso ignoti a colui che sta parlando, il quale, proprio con la passione dialettica attraverso la quale si esprime, rende più esplicita la propria inconsapevolezza.
Altre volte, anche per chi ascolta è difficile capire cosa spinge l’interlocutore ad esprimersi in quel determinato modo. D’altro canto ci sono situazioni in cui la consapevolezza sembra a tratti affiorare anche in chi parla, che per esempio resta colpito dalla frase appena pronunciata che ha il tono così evidente di «negazione» da non poter più permettergli nessuna falsa coscienza, oppure mastica quasi frasi che si contraddicono reciprocamente. Bisogna tenere presente, nel valutare tutte queste situazioni, che il nostro giudizio sulle parole altrui è anche condizionato dalle nostre motivazioni, quelle consce e quelle inconsce, dalle nostre fantasie e dai nostri desideri e che quindi ci si trova in una condizione di reciprocità difficilmente dipanabile, ma difficilmente eludibile.
Da che mondo è mondo, tutti gli esseri umani sanno del resto che le parole nascondono più cose di quante non ne dicano. Errori di percorso, quali sono in fondo i lapsus, non sono prerogativa esclusiva del linguaggio verbale, ma per il momento prendiamo in considerazione soltanto questo.
Un lapsus verbale è il segno rivolto alla coscienza di un desiderio conflittuale: non è stato necessario attendere l’avvento della psicoanalisi per rendersene conto; quante commedie e tragedie hanno usato questo meccanismo per dare l’opportunità ai personaggi di comunicare agli spettatori desideri e intenzioni non ancora espliciti. Anche la grande poesia vi ha fatto ricorso:

«Noi leggevamo un giorno per diletto di Lancillotto come amor lo strinse: soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante». Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangea, sì che di pietade io venni men così com’io morisse; e caddi come corpo morto cade.»
(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, V, 127-142)

Il poeta sa ciò che i due non vogliono ancora sapere. Quanto grande e quanto piacevole doveva essere il sospetto dei due e quanto ingenuamente patetico il tentativo di addossare al libro «galeotto» la responsabilità di una passione così forte da superare ogni barriera morale e di rispetto delle convenzioni! Solo Francesca ammetterà la forza di un piacere che ancora non l’abbandona, neppure nel regno dei morti e trasforma le due anime dannate in due colombe disperatamente ed eternamente amanti:

«Quali colombe, dal disio chiamate, con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere dal voler portate; cotali uscir della schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’acre maligno, si forte fu l’affettuoso grido. «O animai grazioso e benigno che visitando vai per l’aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re dell’universo, noi pregheremmo lui della tua pace, poi c’hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che ‘1 vento, come fa, si tace. Siede la terra dove nata fui sulla marina dove ‘l Po discende per aver pace co’ seguaci sui. Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui della bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense.»
(Dante Alighieri, op. cii., Inferno, V, 82-107)

Dante non ha solo descritto, ma ha anche interpretato i sentimenti di Paolo e Francesca; però che grandezza nelle parole del poeta che né io né alcuno psicoanalista raggiungeremo mai! Scrolliamoci di dosso le tristezze di essere solo piccoli tentativi di scienziati depressi e proseguiamo il nostro umano ragionamento. E’ vero infatti che la psicoanalisi è riuscita a usare in modo sistematico il meccanismo dei lapsus ai fini dell’indagine e della pratica terapeutica.

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Se si ha una buona disposizione ad ascoltare gli altri, sia pure accettando quel coinvolgimento che è requisito indispensabile ad ogni tentativo di comprensione, si sarà anche capaci di «epochizzare», di riuscire cioè a sospendere il giudizio; non già nel significato illusorio e risibile degli antichi filosofi e di qualche moderno, che hanno creduto e credono di millantare una impassibile e impossibile neutralità di fronte all’appassionante problema della verità, che invece va sempre ricercata con impegno.
Più semplicemente si tratta di accettare l’ipotesi che il giudizio possa venire da punti di vista diversi e contempli una possibilità di variazione, conseguente alla rinuncia progressiva al pregiudizio. La volontà di comprensione degli altri comporta anche il riconoscimento dei personali condizionamenti. Non si deve inoltre avere la pretesa di comprendere sempre tutto: è già molto accontentarsi di riuscire a capire qualcosa qualche volta.
Nessuno può essere garante della assoluta fondatezza di un giudizio; ma la vita – come la conoscenza – è sempre un rischio da correre.

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Ho detto quindi esplicitamente che esiste la possibilità di capire, se lo si vuole veramente, il linguaggio dell’altro, per quanto diverso dal nostro possa essere (benché rimanga qua e là qualche area di indecifrabilità).
Il passo successivo che s’impone è quello di come utilizzare questa possibilità di comprensione.
Quando il rapporto non è di tipo psicoanalitico, bisogna andare molto cauti nel leggere ad alta voce ciò che le parole non dette dell’altro vanno quasi disegnando su di uno schermo. E’ inutile ostentare con saccenza la propria capacità di svelare misteri: «hai detto così; ma volevi dire invece.., tu credi che, ma invece vuoi…»; sarebbe inutile e darebbe fastidio a chi ci parla. E’più utile tenere per noi questa comprensione, che ci eviterà di cadere in tranelli troppo facilmente e magari usarla anche per essere discretamente utili a chi rischia di essere vittima dei propri inganni.

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A me, e forse anche ad altri, vengono in mente due domande. La prima è: «Perché, se l’inconscio è così inconsapevole, le sue istanze appaiono però così esplicite a chi osservi dall’esterno?» A questa che pare essere la domanda che sta dietro a tutte le possibili altre domande, posso cercare di dare una sia pur parziale ed ambigua risposta: «L’inconscio, in realtà, non è un patrimonio individuale; ma è costruito dal mondo nello stesso tempo in cui partecipa della costruzione del mondo». L’inconscio è un’entità sociale che ci costituisce e in cui siamo immersi; per questo è possibile tentarne, dall’esterno, una lettura almeno frammentaria. Così inteso, l’inconscio non è più quindi una realtà intima e segreta, ma un patrimonio comune. Di ciò parlerò in seguito. In questo suo nuovo significato l’inconscio è più consapevole di quanto lo intendesse la vecchia psicoanalisi teorizzatrice dell’inconscio individuale; ma più difficile da decifrare. Il fatto è che le istanze di questo inconscio sono sparse nel mondo, sono più universali.

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La seconda domanda è: «Quale valore hanno e quale uso rimane possibile dei discorsi espliciti?» L’antica psicoanalisi ci ha abituati a disprezzarli, insegnandoci che la coscienza racconta solo frottole, razionalizzando e divagando, portando comunque molto lontano dalla verità; mentre ciò che è vero sta celato nel profondo dell’inconscio. A me questa è sempre sembrata una sciocchezza: che funzione avrebbe allora la coscienza, forse solo quella di occultare l’inconscio? Non ci sarà qualche altra sua ragion d’essere? Se fosse solo un travestimento dell’inconscio quali sarebbero rispettivamente la parte conscia dell’inconscio e quella inconscia della coscienza? Una matassa inestricabile, dominata solo dall’inconscio? Io non credo che sia così. Il discorso della coscienza ha una sua utilità profonda e non è mai completamente disgiunto da quello dell’inconscio: l’uno rampolla l’altro. Se una caratteristica della coscienza è quella di «razionalizzare», come si diceva un tempo, per coprire; l’altra, e positiva, è quella di mirare direttamente al raggiungimento degli obiettivi, senza lasciarsi disorientare dall’ambiguità polidirezionale dei desideri. Infine, è importante prendere atto che i contenuti della coscienza sono costituiti anche dalla consapevolezza acquisita di parte del patrimonio dell’inconscio.

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Altre volte ho detto come nella situazione psicoanalitica (solo in essa e non in altre situazioni) si pongano, per l’analista, grossi problemi, quando si tratti di esplicitare il vero senso delle parole che vengono pronunciate. Ho detto quanto sia importante la cautela, la scelta dei tempi, per ogni tentativo di comunicare al paziente il significato vero, per lui, di un gesto o di una parola; non voglio qui andare oltre a quei suggerimenti generici anche perché non sono sicuro di avere ancora in proposito idee più chiare. Il problema che ora voglio affrontare è questo: quanto è vero che i problemi fin qui esposti riguardano soltanto il linguaggio verbale di cui ho detto di voler esclusivamente trattare? In realtà alle parole dette che letteralmente avviluppano analista e paziente nel rapporto analitico si aggiunge altro che non è più solo parola. E’ allora indispensabile andare oltre le parole e lasciar cadere la comoda illusione che conscio e inconscio siano entrambi solo costruzioni di parole.

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L’uomo non è fatto solo di parole, per quanto esse siano utili ad esprimere parte della realtà e senza di esse non sia possibile raggiungere nessuna consapevolezza di sé o del mondo. E’ vero invece che talvolta le parole costituiscono anche la barriera che costringe nell’inconsapevolezza. Bisogna quindi avere il coraggio di andare oltre, per quanto questa frase possa suonare ormai retorica. Io però non ho paura della retorica e mi sforzo di dire tutto quello che penso, di lasciar ben vedere quanto di lontano venga il mio pensiero e quanto lontano si diriga e con quanta bizzarria voglia proseguire il suo cammino, che mi propongo di non rendere mai prevedibile, anche se mi costa qualche sicurezza in meno. Per questo forse è bene che ora dica che io ho un cane, grande e bianco, con la coda arricciolata all’in sù, non di gran razza; ma di una bellezza quasi irresistibile, con occhi dolci ed espressivissimi, che mi assilla a tavola spingendo col muso il mio braccio, al quale io cedo nonostante il parere di tutti i saggi educatori, concedendogli bocconi dal mio piatto, divertito dal fatto che vedo tutti i miei amici inorridire ed al tempo stesso sorridere felici.
Quali sono le parole del mio cane? Quel cane non ha parole; ha qualcosa di altrettanto importante, forse è persino più sincero, senza parole per ingannare. È certo che io quando gli parlo sono meno sincero; ci comprendiamo bene: il suo linguaggio senza parole mi sconfigge, proprio come le mie parole lo ingannano. Io ho un cane bianco che non usa parole…