57 – Novembre ‘89

novembre , 1989

Attilio Corsini ha «liberamente» trovato ispirazione ne Il mondo alla rovescia, una commedia del 1798 di Ludwig Tieck, il grande traduttore di Shakespeare e Cervantes, per il suo Vita e morte di Cappuccetto. Rosso. Già in quel vecchio testo l’autore tedesco cerca di sovvertire gli schemi del teatro: personaggi e personaggi si affollano, filosoficamente simbolici, parlando al di qua e al di là della scena. Nella versione offerta al Teatro Vittoria dalla compagnia Attori e Tecnici, non è soltanto una piccola folla che sgambetta, ma è un’orda di assatanati che fischia, balla, canta (malissimo), parla della vita e della morte e di problematiche che vanno dai Sei personaggi in cerca d’autore alla drammaturgia neoclassica.
Un vero Apollo, finto sulla scena, si trova detronizzato da un vero comico che quindi diviene un finto Apollo; un impiegato del catasto e un Pierrot stanno con un piede di qua e un altro di là; c’è un prefetto con la moglie, le nove muse (che non sono nove). Costoro parlano talvolta tutti insieme, talaltra esprimendosi in lunghi monologhi di romantico qualunquismo. Pierrot, infernale e dilagante, sproloquia in continuazione in un eccesso di eloquenza iettatoria. Nella testa dello spettatore si ingenera una grande confusione ed anche in quella dei due Farfalloni che hanno faticato a non addormentarsi nel generale baccano stranamente soporifero. Non abbiamo capito perché lo spettacolo si intitoli Vita e morte di Cappuccetto Rosso, ma immaginiamo che la cosa si dovrebbe spiegare con l’intento di una qualche metafora filosofica. Non possiamo citare tutti i numerosi interpreti, altrimenti dovremmo dedicare un numero intero della rivista alla bisogna, diremo soltanto che alla compagnia stabile erano aggiunti elementi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e che ci è parso brillare di luce propria Gigi Bonos. Le musiche eseguite dal vivo dagli Extradivarius erano di un Fiorenzo Carpi un po’ di maniera, ma gradevoli; le tenere scene di Lele Luzzati andavano quasi perdute nella bagarre. La regia era dello stesso Corsini che peggio forse non potrebbe fare.

Al teatro Borgo, risorto nell’antica sede di via dei Penitenzieri, dietro l’Ospedale di S.Spirito, è andato in scena il René di Riccardo Reim, tratto dall’omonimo romanzo di F.R. de Chateaubriand, con la regia dello stesso Reim e interpretato da Elisabetta De Palo.
Il testo, molto farraginoso ed estremamente discontinuo ha due grandissimi difetti ed alcuni pregi innegabili. Il primo e più grave difetto è che Reim non ci è parso capace di realizzare una vera scrittura teatrale: l’inizio e la fine si svolgono sullo stesso piano senza che si intraveda uno sviluppo drammatico che porti dall’uno all’altra; il secondo difetto sta in «scollature» troppo evidenti tra i diversi momenti scenici: i chiaroscuri in teatro sono importantissimi, però non dovrebbero mai dare l’impressione del frammentario, e, peggio ancora, l’impressione del «frammentato», soprattutto se la frammentazione non è l’evidente scelta estetica (se poi nell’intenzione dell’autore questa è la scelta, allora bisogna dire che al pubblico non risulta percepibile). l pregi sono più del regista che dell’autore, però alcune situazioni ed alcune fantasie riescono a coinvolgere e a far sorridere. René, scritto da Chateaubriand nel 1802 è un romanzo breve che si propone una vera e propria esaltazione dei valori del cristianesimo, ma influì anche moltissimo sul costume dell’epoca in cui apparve: molti giovani si identificarono nel diafano ed estenuante protagonista, fuggito lontano dalla sua natia Francia dopo aver inopinatamente scoperto i sentimenti incestuosi della sorella Amélie. Religione e sesso, turbamenti metafisici e sentimenti panici si affollano nell’opera e non è ben chiaro quanto questa sia frutto di un costume o l’abbia invece influenzato: l’inconscio sociale non meno di quello individuale è una realtà ambigua e questa ambiguità si svela con grande evidenza in quelle che possono essere considerate con qualche legittimità opere secondarie di autori pure grandissimi come certamente fu Chateaubriand. Nell’adattamento scenico Reim non si pone troppi problemi di tal natura, ma si propone di farci conoscere la vicenda attraverso il punto di vista della sorella Amélie, definendone un carattere fin troppo facilmente prevedibile di vittima-carnefice, di angelo diabolico. Riesce a rendere però tutt’altro che ovvio il suo personaggio la bravissima Elisabetta De Palo: il suo uso della voce è eccezionale, sa passare dal tono grottesco a quello surreale, modula dal vocalismo simbolico fino a trovare accenti di puro estraniamento brechtiano ed è capace anche di raggiungere una musicalità quasi operistica. La sua gestualità non è inferiore ed accompagna ogni parola con grande efficacia. Al di là della bravura dell’interprete è ben evidente la guida solida di Reim regista, che non abbandona mai il personaggio a se stesso. Veramente in carattere con le atmosfere emotive il commento musicale di Adriano Maria Vitali, che rivela però anche sempre la capacità dell’autore di costruire una propria musicalità ben definita. Le scene e i costumi di Paola Cialfi assolvono dignitosamente ed ironicamente la loro funzione.