57 – Novembre ‘89

novembre , 1989

Che Sigmund Freud fosse patologicamente impenetrabile a qualunque forma d’arte è, secondo noi, assolutamente palese; ogni qualvolta si è azzardato a dire qualcosa su di un quadro, un pittore, uno scultore o un poeta non ha detto che sciocchezze. Eppure con l’arte figurativa e quella letteraria il padre della psicoanalisi ha tentato di confrontarsi più di una volta. Se non fosse che, in genere, la maggior parte degli psicoanalisti successivi è stata ed è tuttora ancora più inetta e smarrita di fronte ad un’opera d’arte, qualche cervello ne di costoro avrebbe dovuto analizzare le ragioni per le quali il fondatore della psicoanalisi si sia rivelato così tetragono alla comprensione di un aspetto tanto importante dell’animo umano. Sarebbe anche molto interessante capire perché quasi tutti gli adepti della psicologia dinamica siano totalmente cretini quando parlano d’arte. C’è però un contraltare: in genere gli artisti, e soprattutto i rappresentanti dell’arte figurativa, non hanno mai, assolutamente mai, capito niente di psicoanalisi; vuoi per ingenuità, come nel caso dei surrealisti, con i loro sproloqui sui sogni e sulla scrittura automatica; o per tronfia pusillanimità, quale è evidente nei pittori di oggi, che troppo spesso si sforzano di infarcire le loro opere di pulsioni o desideri, più o meno presi per la coda. L’artista però ha un grande vantaggio sullo scienziato: non importa quello che dice, ma importa quello che fa; ed allora Picasso o Garcia Lorca trascendono la parola parlata; il segno o il verso poetico superano le ingenuità positivistiche; l’artista riesce infatti a rappresentare l’uomo colmo delle sue pulsioni desideranti, dei suoi deliri, delle sue speranze e dei suoi amori. Alcune opere d’arte rivelano una comprensione dell’uomo certamente maggiore di un trattato di psicoanalisi o di psicologia!
Lo psicoanalista o lo psicologo, da scienziati, si trovano invece rinchiusi nel cerchio riduttivo delle parole che sono solo parole; il loro dire, troppo spesso, non riesce a richiamarsi a nient’altro. Non è certamente, questa nostra, una condanna dell’artista né dello psicoanalista: senza dubbio nell’intimo, qualcuno è riuscito ad entrare in sintonia con queste due realtà poiché indiscutibilmente anche la scienza è ambigua, evanescente ed impalpabile come l’arte; ma mentre quest’ultima ne è fin troppo convinta, la prima mostra di ignorarlo del tutto.
L’opera di Salvador Dalì, soprattutto per il periodo surrealista, si dice che sia stata fortemente influenzata dalla psicoanalisi: affermazione che noi reputiamo falsa.
Soltanto il prurito pseudo-culturale dei critici può intravedere qualcosa di maggiormente edipico nella daliniana Crocefissione del 1954, che, per esempio, nella Madonna della seggiola di Raffaello; oppure che abbia maggiori caratteristiche oniriche La persistenza della memoria, che lo spagnolo dipinse nel 1931 piuttosto che San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Lo stesso Dalì si è compiaciuto di usare termini quali «paranoia» o «isteria» da appiccicare alle sue opere senza però che il gioco andasse oltre al pretesto provocatorio.
L’arte di Salvador Dalì ha un suo significato nella cultura del nostro tempo, anche per la commistione di ignobile e di sublime che la caratterizza. Ogni trucco adatto a favorire la promozione di un personaggio e ad incrementare un mercato è stato usato senza scrupoli, ma con la stessa tranquillità di coscienza con cui contemporaneamente nascevano alcuni dei capolavori del Novecento quali, ad esempio, oltre ai due già citati, La Madonna di Port Lligat del 1950 e il Concilio Ecumenico del 1960.
Bene ha fatto quindi l’Accademia di Spagna a presentare, a pochi mesi dalla scomparsa, le opere di Dalì messe a disposizione dalla Stratton Foundation, in una mostra intitolata Dalì scultore Dalì illustratore.
La scultura ha rappresentato probabilmente per Dalì una conquista, sia nella direzione dello spazio, sia in quella di una oggettività dell’opera, fissata anche dalla determinazione concreta della materia ed è forse la migliore controprova di quanto poco evanescente egli sentisse il proprio mondo interiore, tanto da riuscire nell’impresa di renderlo oggetto tridimensionale e consistente almeno quanto «surreale». A guardare le sculture raccolte in queste sale si vede come il surrealismo sia l’alibi per una sfida che diviene talvolta (abbastanza spesso) gioco. La sfida è quasi sempre vinta dall’artista, che riesce a dimostrare forza e creatività con opere quali il San Giorgio e il drago (1977-84) ricco di reminiscenze, ma anche splendente di una c1assicità propria, fatta di forza ed eleganza nelle due figure principali a confronto, e di accorato sentimento nel gesto della piccola figura femminile col braccio levato. Drammatici sono ogni linea ed ogni volume del Cabinet anthropomorphique (1982) dove il corpo umano contorto diventa anche un enigma per l’assenza di uno sguardo, nascosto dalla cascata dei capelli e per la presenza di quei cassetti, che qui non sembrano accessori gratuiti, ma riescono a spezzare il tentativo di ogni razionalizzazione dell’immagine e della sua comprensione. Ancora di una purezza senza ombre ci sembra Alice au pays des merveilles (1977-84) con la fanciulla che ha mani e capelli fatti di rose e che danza elegantissima nel gesto di saltare la corda. A fianco di opere come queste, che non ci sembrano sollevare dubbi sul valore dell’artista (come indubbiamente «significativi», malgrado tutto e forse malgrado Dalì stesso, sono diventati gli «orologi molli», gli «unicorni» o le «stampelle» e i cassetti e le formiche sparse un po’ dappertutto, anche nella scultura oltre che nella pittura), l’altro aspetto di Salvador Dalì è quello reperibile in lavori come il Buste de femme retrospectif (1933-70): sul busto nudo dal roseo incarnato, il volto leggiadro di una donna è decorato di nere formichine dipinte, mentre sugli omeri pendono due pannocchie di granturco; un filone di pane è posto trasversalmente sul capo e su di esso due calamai in bronzo dorato riproducono tridimensionalmente l’Angelus di Millet. Qui è già quasi tutto presente: lo scherzo, il simbolo, la figura, la riflessione sull’arte stessa e la sua storia.
Di qui parte una linea che è di gioco: talvolta colto, come in Lilith et la double Victoire de Samothrace (1966), talaltra quasi canagliesco come il Thelephon Homard o volgare, come il divano ricalcato sulla forma delle labbra di Mae West.
A fianco della scultura, c’è però in mostra anche gran parte dell’opera illustrativa di Salvador Dalì e allora qui è difficile ignorare la capacità di cultura e di comprensione che l’artista dimostra, messo al confronto con alcune opere cardine della letteratura universale: dal Don Chisciotte, al Decamerone, dai Canti di Maldoror alla Carmen, passando attraverso l’opera del marchese De Sade e di Sacher von Masoch e, udite udite, dello stesso Freud, di cui illustra Mosé e il monoteismo. Pochi illustratori hanno saputo e sanno dimostrarsi così all’altezza di un compito, senza prevaricare e senza ridursi a didascalie figurative: Dalì ci riesce.
Forse al di fuori del tema strettamente inteso della mostra c’è una serie di venticinque litografie intitolate Alyah (1968) che ci hanno sconvolto perché esprimono una capacità di immedesimazione in un’epopea che difficilmente anche noi avremmo sospettato. Il titolo significa in ebraico «Salita» e sta ad indicare l’immigrazione ebraica in terra d’Israele: dall’Olocausto all’Esodo i momenti eroici di un popolo, le cui vicende ci coinvolgono da sempre, sono rese con un’asciuttezza e una commozione che inquietano.
Per concludere, diremmo che proprio nello sbandierato aspetto di millantatore che Dalì stesso ha sempre voluto mettere in risalto, sta una grande dichiarazione di onestà e di umiltà, dalla quale dovrebbero prendere esempio certi contemporanei artisti di ascetico mutismo, presuntuosi nell’informità di opere che sono alibi d’ignoranza e di aridità.