I fustigatori dei costumi sono sempre esistiti; si dividono in due grandi categorie: la prima è quella di coloro che sanno essere partecipi fino in fondo delle realtà del loro mondo, ma sanno anche prenderne le distanze, renderne una spietata e dolente immagine, senza però rimanere coinvolti dalle piaghe che condannano; la seconda categoria è quella dei velleitari che, forse, se pur carichi di buone intenzioni, non riescono ad essere altro che l’espressione più trita ed ovvia del male che denunciano. In questa seconda categoria noi collochiamo senza esitazione Nanni Moretti e il suo film Palombella rossa.
Innanzitutto, chi vuoi raccontare qualcosa deve avere almeno gli strumenti linguistici per farlo; e non significa avere una qualsiasi possibilità di comunicazione, ripetere per novanta minuti quattro battute e sei sequenze, senza per altro aver l’aria di accorgersene. Ce ne siamo invece resi conto noi, che siamo morti di noia! Inoltre non è possibile fustigare il linguaggio qualunquistico e convenzionale degli altri, esprimendosi a propria volta sempre e solo con frasi fatte, senza per altro, ancora una volta, dimostrare di accorgersene. Non si può cercare di essere spiritosi e fare una squallida parodia di ‘Quelli della notte’ che, al confronto, diventano Aristofane e Molière. Non si può cercare di essere ironicamente anticonformisti imitando nel modo più smaccato gli aspetti più retrivi e reazionari di Woody Allen. Non si può cercare di parodiare un sentimento poetico sbattendo in faccia agli spettatori qualche lagrimevole scena del dottor Zivago, a pezzetti e a bocconi, ripresa da un teleschermo. Non ci si può spacciare per grandi filosofi che hanno capito il più profondo significato dell’esistenza abbozzando alcuni personaggini che malamente imitano Ionesco, con una espressività rozza e tronfia da ragazzotti mal cresciuti. Non si può fingere dolente accoramento sulle tristi sorti della situazione politica riprendendo le più trite ovvietà ripetute dai giornali a proposito del PCI. Non si può sperare di sembrare assolutamente originali, risultando assolutamente prevedibili: era fin troppo ovvio che il deputato comunista, smemorato e giocatore di pallanuoto, avrebbe sbagliato il rigore decisivo per le sorti della partita. Non ci si può intenerire sull’infanzia, quando il suo ricordo viene ridotto ad una serie di spot pubblicitari dei formaggini.
Non si può pretendere di recitare quando non si ha alcuna capacità espressiva, drammatica o comica, sentimentale o ironica.
Qui noi ci sentiamo in dovere di chiedere scusa a registi, sceneggiatori, attori e musicisti che sono stati, in occasione di alcuni loro film, strapazzati o canzonati: se ci ripensiamo, in confronto a quello che abbiamo appena visto, i loro sono tutti capolavori. Secondo noi (e ripetiamo, umilmente, secondo noi) Nanni Moretti sa fare benissimo una cosa sola: cantare stonando.
Se dovessimo giudicare il successo del cinema di Nanni Moretti da quest’ultima opera, dovremmo trarre tragiche conclusioni sulla presunta e sbandierata capacità auto-critica di un’intera generazione e questo ci rattrista più del fatto di aver visto un brutto filmaccio.
Archivio di ottobre 1989
56 – Ottobre ‘89
domenica, 1 ottobre 198956 – Ottobre ‘89
domenica, 1 ottobre 1989La prima parte del XXVI Festival di Nuova Consonanza si è inaugurata, domenica 8 ottobre, con due concerti del ciclo ‘Il mito del primitivo nella musica moderna’. Prima il Gruppo Gamelan ‘Bhinneka Tunggal Ika’ diretto da Dewa Putra Diasaha ha presentato musiche dell’isola di Bali e poi l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretta da David Robertson, con Giuseppe Scotese al pianoforte e Jeanne Loriod alle onde Martenot ha eseguito la ‘TurangalilaSymphonie’ (1946-48) di Olivier Messiaen. A questo primo confronto seguiranno quelli dell’orchestra Tzigana ‘Antal Szalai’ con il Quartetto Eder di Budapest il 19 ottobre e poi il gruppo di percussioni ‘Rasancuma Itza’ di Costa Rica con ‘Les Percussions di Strasbourg’ il,30 di questo stesso mese.
Gli altri due cicli del Festival sono dedicati l’uno all’indagine ‘Intorno alla II Scuola di Vienna’ e l’altro consisterà in una ‘1 a Rassegna di compositori contemporanei italiani’ che si terrà dal 4 al 16 dicembre all’auditorium del Foro Italico.
L’opera di Messiaen è tra le sue più note, estremamente interessante soprattutto perché in essa il tenero, mistico, eroico e grande compositore ha il coraggio di essere assolutamente spudorato. E seduttorio ed ammiccante, non disdegna neppure sensuali e facili richiami al jazz nordamericano, per poi disegnare ampie piaghe di profondissima musicalità in cui l’orecchio si smarrisce in meandri sonori misteriosi e raffinatissimi. Temi semplici e tonalissimi si intrecciano e si sciolgono entro agglomerati armonicamente indecifrabili, caleidoscopicamente imprevedibili eppure consequenzialissimi. Gli strumenti dell’orchestra sono continuamente rispettati nella loro natura fisiologica. Una delle cose che ci ha sempre entusiasmato di Messiaen è il fatto che, come cattolico praticante, non solo professa il più assoluto rispetto per il valore della vita umana, ma anche dimostra di trattare con devozione la voce, il corpo e la natura degli stessi strumenti musicali;
che non sono mai violentati; persino l’uso vagamente pleonastico delle onde Martenot (strumento elettronico d’invenzione francese) che si inseriscono con bramiti e svettanti melodie, si amalgama nella complessiva sonorità orchestrale senza sforzo, con gradevole e ingenua semplicità. Nonostante gli aspetti ironici, grotteschi e talvolta persino leggeri, la trascendenza si insinua dovunque: la voce del divino mistero si annida negli accordi e negli intervalli e soprattutto nel variopinto canto degli uccelli.
Il nome di sinfonia si addice a Turangalila per la sua caratteristica di essere costituita dalla successione di più temi i cui quattro più importanti, che ciclicamente ritornano, subiscono ricche elaborazioni; per un altro verso, per l’importanza del ruolo del pianoforte, spesso solista, potrebbe invece essere considerata un concerto per pianoforte ed orchestra. Il titolo deriva da due parole sanscrite Lila che significa gioco, ma anche amore e Turanga che rende il significato dello scorrere del tempo,del movimento e del ritmo: quindi inno alla gioia, all’amore, al movimento, alla vita e alla morte.
Articolata in dieci movimenti, l’opera è unificata dai quattro temi principali: il primo, per terze, per lo più affidato ai tromboni, ha un che di statuario; il secondo, a due voci, affidato ai clarinetti ha sfumature tenere di colore; il terzo e più importante, detto anche il ‘tema dell’amore’, ha la sua cellula fondamentale in un salto di sesta discendente; il quarto è un tema di accordi che fornisce cangianti fondali sonori.
La direzione di David Robertson è stata quanto mai sensuale ed accattivante, riuscendo a cesellare con grande espressività tutte le variegate gamme sonore; gli perdoniamo qualche leggera imprecisione negli attacchi e una certa propensione ad indulgere ad un piglio eccessivamente americaneggiante. L’orchestra è stata splendida, soprattutto nelle sonorità, ora diafane ora corpose. Brava la Jeanne Loriod alle onde Martenot. Bravissimo sopra tutti è stato però Giuseppe Scotese: espressivissimo e mai sdolcinato, molto equilibrato, trovava nella tastiera suoni piano, vellutati e percepibilissimi, passando poi a momenti di forte ritmicità; alcuni passaggi, semplici all’udito, ma molto difficili per la mano del pianista erano eseguiti con esemplare naturalezza.
Il pubblico attento ha molto apprezzato l’opera, l’esecuzione e le intenzioni degli organizzatori.
56 – Ottobre ‘89
domenica, 1 ottobre 1989Ripugnanza
I1 mondo della politica, soprattutto, e della stampa, pare turbato da una frase attribuita al Cardinale Vicario di Roma, che invita i cattolici a non rifuggire «da scelte chiare anche a costo di personale sacrificio o ripugnanza».
Nell’imminenza delle scadenze elettorali comunali e circoscrizionali di Roma, fissate per il 29 e 30 ottobre, e dopo le marette intercorse tra il vicariato e gli ultimi amministratori della città, era inevitabile che i più identificassero nel partito di maggioranza relativa l’oggetto politico il cui sostegno deve essere garantito dai cattolici, sia pure ad un prezzo tanto elevato!
Nessuno però ha pensato di lanciare appelli tanto urgenti a favore dei partiti cosiddetti ‘laici’, i quali pure si presentano in condizioni certamente non migliori alle imminenti consultazioni.
Ci vuole quindi oggi uno sforzo ‘ecumenico’ per convincere anche gli agnostici ad operare scelte esplicite, vincendo ogni senso di repulsione davanti all’indegnità del gioco politico nazionale e locale.
Malgrado il disgusto dei cattolici e di tutti, una scelta si impone anche questa volta e in modo ineludibile, dal momento che non scegliere in prima persona significa favorire le scelte degli altri.
Scegliere gli uomini significa però certo fare i giochi dei partiti, che sono assai meno di quanto le ventitré liste presentate facciano credere (e di questo dovrebbero rendere conto molti millantati ‘indipendenti’ o ‘apartitici’).
Ci troviamo quindi nella situazione sgradevole di doverci `sporcare le mani’ soffocando ogni rigurgito morale, oggi sempre e soltanto sospettato (quanto mai ingiustamente) di qualunquismo.
Fingiamo quindi di ignorare che chi difende l’ambiente non rispetta la vita, mentre chi dice di rispettarla la umilia nelle corsie d’ospedale, dimentichiamo che chi si batte per i diritti umani criminalizza le vittime della droga e via mistificando.
Andiamo al voto portando con noi la consapevolezza che ci pentiremo mille volte.
Purché non sia una scelta di viltà o di sopraffazione, o meglio purché queste non siano le motivazioni principali per cui abbiamo scelto.
Se il Vicario di Roma ha voluto suggerire qualcosa, l’unica cosa che gli si può rimproverare è di non essere stato sufficientemente preciso nell’indicare quali siano tra i candidati gli uomini a suo avviso capaci di « riferirsi a quei valori che tengono conto della presenza di Dio nella società e della pari dignità di ogni persona».
56 – Ottobre ‘89
domenica, 1 ottobre 1989Come dice Fulco Pratesi nella introduzione al catalogo, la mostra Arte a Roma 1980-89: nuove situazioni ed emergenze, presentata col patrocinio della Regione Lazio tra il luglio e l’ottobre appena trascorsi ala Galleria Rondanini di Roma, non è stata e non ha voluto essere una mostra emblematica e riassuntiva della storia dell’are figurativa romana degli anni ottanta; ma semplicemente stata un’occasione che ha voluto «… organizzare il discorso in due direzioni. Da una parte uno sguardo verso Il passato recente, cercando di individuare le nuove situazioni emerse sulla scena romana nel corso degli anni Ottanta, dopo l’esplosione della Transavanguardia, movimento diventato internazionale prima di essere romano. Dall’altra proporre all’occhio attento del mondo artistico alcuni giovani emergenti, che trovano in questa esposizione un’importante occasione di confronto con personalità già affermate o in via di affermazione».
Se queste sono state le intenzioni, il risultato ci è parso però quanto mai deludente. Nelle molte sale abbiamo viste esposte una gran quantità di opere di autori diversissimi tra loro, assemblate senza criterio, per lo più a nostro avviso bruttissime, che diventavano ancora più squallide, così malamente affastellaste da sembrare una raccolta di vecchi oggetti in soffitta. Per questo non vogliamo entrare in merito al valore di autori ed opere; ma protestare contro questo dilagante modo di fare ammucchiate con le quali soddisfare magari obblighi politici o di mercato, ma che nuocciono al giudizio critico e sviliscono artisti che meritano di essere presi in considerazione, coi loro pregi e i loro difetti, all’interno di una visione che tenga minimamente conto di una prospettiva storica ed artistica. Questi «riassunti in una esposizione» confondono oltre tutto il pubblico più vasto che non riesce neppure più a percepire in quale direzione si muova, o dove stia stagnando, rispetto al resto del mondo, il lavoro degli artisti romani, quasi sempre gratuitamente eccessivamente osannati o vilipesi.
56 – Ottobre ‘89
domenica, 1 ottobre 1989Quando un artista rappresenta, e descrive, situazioni e personaggi, è giusto che prenda partito: la descrizione obiettiva della realtà, se è un’illusione in campo scientifico, si può immaginare quanto possa esserlo in campo artistico. Perciò essere dalla parte dei cretini e degli idioti è una colpa anche per l’artista che li racconta e li descrive; altrettanto grave è per uno scrittore cercare di ingannare il lettore con i suoi mezzi di persuasione occulta. Non è certe questo un problema giuridico: ogni essere umano ha il diritto di essere ambiguo, piaggiatore, in mala fede e nessuno deve arrogarsi l’arbitrio di impedirglielo. Rimane i fatto che va garantita la libertà di esprimere le proprie opinioni a tutti, anche a coloro che dissentono. Noi dissentiamo da quanto dichiara Ferdinando Camon nel sue breve romanzetto Il canto delle balene (Garzanti, 1989 pagg. 109, Lit. 15.000). L’operina costituisce un vero e proprio falso ideologico, camuffato da verità apodittica: un marito idiota è furioso perché la ma glie va da uno pseudo-psicoanalista (Palo Alto, California) e ovviamente racconta a questo tale le proprie esperienze intime, anche coniugali. Tutto lo scritto vorrebbe rendere plausibile la tesi che, in un rapporto di coppia, ci debbano essere aspetti non comunicabili, iper-privati, pena la distruzione del rapporto stesso, destinato altri menti ad andare in frantumi. Ma il signor Camon non ha mai avuto un amico del cuore, al quale ha raccontato tutto e più di tutto? Sebbene non sempre si vada da confessore, tutti hanno per fortuna amici ed amiche ai quali confidare ben di più di quanto non confiderebbero a nessun cosiddetto psicoanalista! Come può un artista che deve essere sempre «psicopompo», stare esplicitamente dalla parte di quello squallido picchiatello che, per vendicarsi della relazione psicoterapeutica della moglie, decide di tradirla nel modo più banale e volgare? Inoltre va detto che la storiella è narrata in modo sciatto; noioso e petulante: linguaggio è impreciso; le immagini riesce no sghembe ed in effetti di interessante no accade mai niente. I racconti, anche qual do sono brevi, hanno il dovere e essere almeno ricchi di una loro dignità letteraria che qui mance proprio come mancano di dignità, indistintamente, tutti i personaggi. della vicenda.
56 – Ottobre ‘89
domenica, 1 ottobre 1989A Roma vi sono migliaia e migliaia di locali dedicati alla ristorazione. La Città Eterna non brilla in questo campo né per originalità né per il livello gastronomico.
Quasi infiniti sono i ristoranti in cui viene presentata sempre la solita banale lista di piatti, più o meno inseriti nel filone «romanesco».
Inoltre molto pochi sono i ristoranti di cucina «straniera»: pullulano soltanto i cosiddetti «cinesi» e qua e là spunta ogni tanto un localino di cucina pseudo-esotica.
Il massimo dell’originalità nel settore, Roma l’ha espressa nel momento in cui ha furoreggiato anche da noi una sorta di via nazionale alla nouvelle cuisine oggi assolutamente fuori moda, malgrado ne sopravviva ancora qualche vestigia, all’insegna di una pretesa «cucina creativa», sotto la quale etichetta si spacciano alcuni sciocchi e striminziti tentativi culinari.
In un panorama così grigiastro, non riusciamo a capire che senso abbia aprire l’ennesimo ristorante, identico a tutti gli altri, la cui miserevole lista di piatti e di vini non è neppure minimamente compensata dalla qualità.
Sul luogo di un antico ristorante trasteverino di vecchia storia, in via Merry del Val, all’angolo con via S. Francesco a Ripa, è sorto da qualche tempo un posto denominato La Piazzetta, dall’arredo più che banale, con un tocco di disadorna freddezza di plastiche e povertà di arredi e vasellami. Il servizio, non molto preciso, è svolto con distratta cortesia da gente che non ha l’aria di aver molto presente neppure le disponibilità del momento. Diciamo subito che il meglio dell’t sosta lo abbiamo trovato in una Vernaccia di S. Gimignano, giovane, armonica, fresca ed asciutta, servita alla giusta temperatura e in un quasi altrettanto gradevole Refosco dei Colli Orientali del Friuli, due dei pochi vini di una lista senza fantasia. Dell’altrettanto esigua lista delle portate abbiamo assaggiato quasi tutto con uguale scorno: rigatoni alla sozzona unti di panna; pappardelle alla pirata condite con vongole di rara «insipienza», fettuccine ai funghi porcini acquosissimi, un risotto agli scampi «risciacquato», sauté di vongole sabbioso, spiedino di mazzancolle surgelate e mazzancolle alla luciana con un fastidioso sugo al pomodoro dolce-piccante squilibratissimo, un demenziale piatto denominato haché di filetto al gorgonzola buono per chi, non avendo denti, volesse unire in un piatto solo secondo e formaggio, straccetti alla rughetta per chi con la dentatura avesse già meno problemi, tanto almeno da non rimanere impigliato nelle materie fibrose e un’entrecote alla pizzaiola gigantesca quanto insapore, annegata in un sugo «lentissimo». Tutti i pochi dessert erano di uguale scontata banalità. Persino il prezzo è risultato caro, come previsto dalla più vieta tradizione trasteverina.
Psicoanalisi contro n. 56 – L’identità dello psicoanalista
domenica, 1 ottobre 1989Fa parte dell’inconscio sociale della nostra cultura il rispetto sacrale, unito all’odio e al disprezzo per la figura del medico: se Esculapio brilla di luce divina la maschera del dottor Balanzone mette però in evidenza l’aspetto svalutante. Sia le persone colte sia le più semplici sono capaci di provare sentimenti pesanti e palesi di disprezzo per i loro medici; i quali spesso, è vero, si presentano come figure tronfie ed imbecilli, ignoranti anche della loro scienza. Molti pazienti si divertono ad abbandonarsi a giochi fantasiosi con la medicina: saltano da quella organicistica a quella omeopatica, dallo pranoterapia all’erboristeria, felici di smentire le presunte certezze di ciascuna; felici però soprattutto di sottrarsi così agli artigli del medico tradizionale. Io credo siano da rispettare tutte le forme di terapia; ritengo che la medicina considerata ufficiale, che si è affermata nella tradizione occidentale, sia stata l’espressione di una grande cultura che però si è fermata proprio alle soglie della verità. Troppo spesso i nostri medici non sanno perché operano; perché e come intervengono; si affidano un po’ troppo acriticamente alle macchine e ai laboratori d’analisi. Questo spiega in parte la ribellione dei molti che cercano in altre pratiche più esoteriche la soddisfazione di un umano bisogno di mistero e di comprensione. Il medico uscito dalle nostre università non solo non è in grado di fare il medico, perché nessuno glielo ha veramente insegnato, ma è già disposto a gestire il potere della medicina in modo ambiguo, misto di tirannia e distratta condiscendenza. Non voglio qui affrontare il problema, che è soprattutto sociale e politico, della terapia medica negli ospedali, ambulatori, unità sanitarie e via dicendo, in cui il marasma è assoluto e l’essere umano viene generalmente vilipeso e disprezzato e ancor più ignorato. Troppo comodo però è accusare di tutto questo stato di cose il medico singolo. La sua negligenza e la sua impreparazione sono anche il risultato di un sistema complessivo nel quale non c’è posto per chi si interessi della salute dei singoli e dei gruppi sociali. Tutto viene giustificato parlando di carenze istituzionali e i ministri stessi accusano i loro ministeri di essere inefficaci; a nessuno importa che questo significhi sofferenza e morte in degenze trascorse in lerce corsie d’ospedale, ‘alla faccia’ di quel tanto sbandierato rispetto per la vita di cui ci si riempie ogni giorno la bocca. Di fatto non si muore soltanto nel terzo mondo di fame e di sete, ma anche in Europa, in Italia e a Roma. Servono a poco contro una tale situazione le proteste di qualche portantino stufo di essere complice o i rosari sgranati dalle suore d’ospedale: il cristiano amore del prossimo si è dissolto e la solidarietà sociale si disperde in slogan senza vera forza.
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È giusto per queste ragioni disprezzare la medicina proposta da questi rabbiosi ed imbelli personaggi usciti dalle nostre università, perché la loro ignoranza li rende capaci solo di affrontare con rabbia un mondo che non sanno né curare né capire. Il personaggio antico di Balanzone ci spiega come questo odio per il medico e il disprezzo per la sua ignoranza siano stati davvero introiettati nel nostro inconscio sociale. Oggi i medici devono prendere atto del fatto di non essere altro che poveri Balanzone, vestiti di rosso e di nero, sproloquianti un latinorum che non capiscono ma che viene usato per non farsi capire dagli altri. Le terapie oggi potrebbero avere un effetto o l’altro senza che questi medici ne comprendano le ragioni. Sono individui inetti soprattutto perché incapaci di amare il genere umano che vorrebbero e dovrebbero curare.
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Io ritengo, quindi, che l’odio e il disprezzo per la classe medica siano quanto mai giustificati: presunzione, ignoranza e faciloneria ne sono le cause. Ritengo però che sia altrettanto giusto ed utile sentire rispetto e fascino per la persona del medico. Egli ricopre un ruolo che dall’antichità è stato considerato sacro. Sacro e misterioso è ancora il ruolo della medicina: la condanna o la speranza vengono infatti oggi all’uomo dai suoi responsi; se una volta era la legge che condannava od assolveva, ora sono i referti e le diagnosi che decidono della vita o della morte: chi ha questo male morirà entro un periodo stabilito, chi non lo ha potrà sperare di continuare a vivere senza conoscere l’incubo di una scadenza certa.
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Dopo l’Ottocento sono sorti anche strani terapeuti che pretendono di conoscere ciò che di più profondo c’è nell’uomo. Costoro rifiutano di prendere in considerazione l’ipotesi di uno spirito e così hanno cercato di renderlo materia concreta analizzando sistemi nervosi, misurando conformazioni craniche, osservando reazioni chimiche, ipotizzando conduzioni elettriche; questo miscuglio di elementi si è però rivelato poco utile. Tanto che lo stesso Freud si arenò quando cercò nel 1896 di spiegare le dinamiche psichiche col funzionamento del sistema nervoso e viceversa e ancora oggi noi siamo fermi a quel tentativo fallito. Tuttora infatti il funzionamento del cervello e del sistema nervoso restano misteriosi, ed è forse destino che tali restino per sempre, poiché se si scoprisse il significato di un neurone avremmo forse scoperto l’origine del mondo e sarebbe inutile favoleggiare di big bang: l’origine starebbe proprio in quel neurone: chi ha però il coraggio di dirselo e di dirlo? In realtà del neurone noi conosciamo ben poco: le nostre sono per lo più fantasie.
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Alcuni decenni or sono qualcuno credette di aver trovato la scienza capace di comprendere e spiegare la parte più intima dell’uomo cioè l’uomo stesso in quanto razionalità ed emozione. Tutto venne riferito al sistema nervoso centrale: di lì iniziò la costruzione e la descrizione di quell’edificio complesso come una grande cattedrale gotica che termina con l’aguzza copertura ogivale della corteccia cerebrale. Ma quanto è vera questa ipotesi di uomo?
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Io mi sono sempre rifiutato di distinguere la realtà somatica da quella psichica: la psicosomatica è un’invenzione che ha un significato solo metodologico in quanto permette l’orientamento in quel marasma che è l’essere umano. Cosa sia psichico e cosa invece sia somatico è praticamente impossibile da determinare; un’ulcerazione di un tessuto o un attacco di panico sono somatici o sono psichici? Quando capiremo che, forse, non sono né l’una cosa né l’altra, ma sono la risposta della persona alla situazione, avremo assunto un atteggiamento più corretto; però anche adesso possiamo affermare, senza che nessuno si turbi, che l’uomo reagisce con tutta la sua persona, con le sue cellule e le sue fantasie, con i neuroni e con gli ormoni alla realtà del mondo circostante. Su questo tutti concordano, ma poi nasce il problema di quale sia il tipo intervento più adeguato.
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Io che affronto il problema del disagio psichico mi trovo di fronte un’aporia che è praticamente irrisolvibile: penso che l’essere umano sia un’unità psicofisica (e già l’uso di questo termine mi suona abbastanza fasullo e ridicolo), ma al di là di questo primo livello sono certo di un’unità della persona che è però una realtà più complessa. Perciò mentre tento di mettere a disposizione degli altri strumenti che servano ad alleviarne i disagi, reali o presunti, studio l’essere umano cercando il significato del suo esserci nel mondo. Facendo questo mi rendo conto di privilegiare, contro la mia volontà, quella parte che comunemente viene definita psiche. Se la psiche è la sostanza dell’essere umano, la mia funzione si sovrappone a quella dei sacerdoti, dei medici e dei filosofi. Io che studio la psiche mi considero infatti l’unico legittimato a parlare dell’uomo in sé. Gli altri allora di che cosa parlano?
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I sacerdoti possono rifugiarsi nel loro parlare di Dio; ma scindere l’uomo da Dio è spezzare l’armonia dell’universo e questo i sacerdoti ben lo sanno. I medici che curano il corpo, se non vogliono rimanere prigionieri di un organicismo ormai superato, debbono affrontare il problema dell’uomo nel suo insieme. I filosofi cercano il significato della verità per l’uomo, ma come possono trovarla fuori dall’uomo, dal momento che loro stessi sono uomini? Anche gli alberi non possono essere compresi se non sono inseriti nella vita dell’uomo. Un albero forse sogna di essere un serpente.
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Sono allora gli psicoanalisti gli unici scienziati che hanno diritto di cittadinanza! La fusione fredda, la lotta contro il cancro, tutte le altre ricerche epidemiologiche sono giochi utilissimi, ma inessenziali, poiché solo lo psicoanalista è capace di capire l’uomo e i suoi problemi. Io mi ribello però a queste conclusioni anche a causa di questa mia ribellione mi accade di perdere la mia identità di psicoanalista.
Io so di avere a disposizione parecchi strumenti, so di saperli applicare in modo da rendere gli esseri umani che si rivolgono a me più sereni e talvolta addirittura felici.
Lo so perché lo sperimento quotidianamente. Sono strumenti che mi sono stati messi a disposizione dalla mia storia e da quella del mondo. Io non voglio però essere il medico dei medici (so che questa è una decisa negazione che afferma) né il filosofo dei filosofi o lo scienziato degli scienziati.
Ma allora cosa sono? Cosa e chi è un medico della psiche?