56 – Ottobre ‘89

ottobre , 1989

A Roma vi sono migliaia e migliaia di locali dedicati alla ristorazione. La Città Eterna non brilla in questo campo né per originalità né per il livello gastronomico.
Quasi infiniti sono i ristoranti in cui viene presentata sempre la solita banale lista di piatti, più o meno inseriti nel filone «romanesco».
Inoltre molto pochi sono i ristoranti di cucina «straniera»: pullulano soltanto i cosiddetti «cinesi» e qua e là spunta ogni tanto un localino di cucina pseudo-esotica.
Il massimo dell’originalità nel settore, Roma l’ha espressa nel momento in cui ha furoreggiato anche da noi una sorta di via nazionale alla nouvelle cuisine oggi assolutamente fuori moda, malgrado ne sopravviva ancora qualche vestigia, all’insegna di una pretesa «cucina creativa», sotto la quale etichetta si spacciano alcuni sciocchi e striminziti tentativi culinari.
In un panorama così grigiastro, non riusciamo a capire che senso abbia aprire l’ennesimo ristorante, identico a tutti gli altri, la cui miserevole lista di piatti e di vini non è neppure minimamente compensata dalla qualità.
Sul luogo di un antico ristorante trasteverino di vecchia storia, in via Merry del Val, all’angolo con via S. Francesco a Ripa, è sorto da qualche tempo un posto denominato La Piazzetta, dall’arredo più che banale, con un tocco di disadorna freddezza di plastiche e povertà di arredi e vasellami. Il servizio, non molto preciso, è svolto con distratta cortesia da gente che non ha l’aria di aver molto presente neppure le disponibilità del momento. Diciamo subito che il meglio dell’t sosta lo abbiamo trovato in una Vernaccia di S. Gimignano, giovane, armonica, fresca ed asciutta, servita alla giusta temperatura e in un quasi altrettanto gradevole Refosco dei Colli Orientali del Friuli, due dei pochi vini di una lista senza fantasia. Dell’altrettanto esigua lista delle portate abbiamo assaggiato quasi tutto con uguale scorno: rigatoni alla sozzona unti di panna; pappardelle alla pirata condite con vongole di rara «insipienza», fettuccine ai funghi porcini acquosissimi, un risotto agli scampi «risciacquato», sauté di vongole sabbioso, spiedino di mazzancolle surgelate e mazzancolle alla luciana con un fastidioso sugo al pomodoro dolce-piccante squilibratissimo, un demenziale piatto denominato haché di filetto al gorgonzola buono per chi, non avendo denti, volesse unire in un piatto solo secondo e formaggio, straccetti alla rughetta per chi con la dentatura avesse già meno problemi, tanto almeno da non rimanere impigliato nelle materie fibrose e un’entrecote alla pizzaiola gigantesca quanto insapore, annegata in un sugo «lentissimo». Tutti i pochi dessert erano di uguale scontata banalità. Persino il prezzo è risultato caro, come previsto dalla più vieta tradizione trasteverina.