Archivio di luglio 1989

55 – Luglio ‘89

sabato, 1 luglio 1989

Addio a Spoleto.

Dopo cinque anni consecutivi e dieci numeri speciali «interamente dedicati a Spoleto e al suo Festival» i due Farfalloni lasciano il campo e considerano chiuso un capitolo.
Le ragioni sono molte; ma determinanti sono soprattutto l’impossibilità di continuare a svolgere una tale mole di lavoro ora che gli impegni si sono moltiplicati su più fronti e la caduta di interesse per un’operazione che complessivamente non è più in grado di darci nulla, che culturalmente rischia di diventare sterile.
Noi due: Sandro Gindro e Renzo Rossi, ci assumiamo tutta la responsabilità di quanto abbiamo scritto, nel bene e nel male, in questi anni, ma siamo ben consapevoli che ciò è stato reso possibile dallo sforzo comune di un gruppo veramente considerevole di collaboratori che hanno lavorato vicino a noi in ogni fase operativa:
dall’andata in stampa alla diffusione della rivista. Sono ragazzi e ragazze che lo hanno fatto per amore, affrontando anche il sorriso di ironico compatimento di chi certi argomenti non li ha mai capiti. Abbiamo fatto cenno ad una caduta di interesse: infatti ci domandiamo se il Festival dei Due Mondi sia ancora capace, oggi, di assolvere quell’importante funzione culturale che ebbe al suo nascere per il nostro Paese. O piuttosto non abbia accettato di soggiacere ad un colonialismo culturale che non ha voluto evolversi, un colonialismo che ha coinvolto la stessa città di Spoleto, i cui amministratori e i cui operatori turistici e culturali hanno preferito farsi mettere l’anello al naso dal Festival, rifiutando il confronto e rinunciando alla partecipazione; paghi magari di qualche dispettosa angheria, di qualche rospo fatto comunque ingoiare, con svantaggio di tutti. Persino con noi gli spoletini hanno rifiutato ogni confronto, sordi ad una voce che avrebbe potuto, nei suoi limiti, essere di mediazione tra due realtà che non possono soltanto continuare a cercare la reciproca sopraffazione. L’indice rivelatore più significativo di questo atteggiamento colonialistico è oggi la sponsorizzazione: sempre più ricercata e sempre più invadente, ma pessimamente contraccambiata da uno snobismo che le vuole negare ogni significato culturale e che la ripaga con una mondanità tanto fastosa quanto stupida.
Detto questo, abbiamo l’onestà di ringraziare gli amministratori del Festival dei Due Mondi che non hanno mai tentato di ostacolare il nostro lavoro e che anzi in molti casi si sono dimostrati disponibili con noi.
Dal funzionamento di alcune strutture noi abbiamo imparato moltissimo e questa esperienza certo ci servirà, quando sarà il momento di avanzare altrove le nostre proposte artistiche, culturali e scientifiche; in città speriamo più agguerrite culturalmente e meno facilmente colonizzabili, più aperte al confronto, che è lotta, ma è anche speranza di crescita.
Chi ha fondato il Festival dei Due Mondi ha compiuto un gesto di grande coraggio civico e culturale, è un peccato che negli anni questo coraggio sia andato perdendosi per strada insieme con la virtù della cortesia. Ci vuole coraggio ad essere cortesi, ce ne vuole moltissimo ad esserlo ugualmente con coloro che si temono e coloro che non si temono. Chi oggi dovrebbe essere l’incarnazione dello spirito del Festival si è chiuso in una presunzione vile che ossequia quelli di cui può temere il giudizio e ignora il giudizio di chi – davvero o in apparenza – potere non ne ha.
Sadomasochismo e narcisismo sono l’espressione malata del mondo e sono presenti a Spoleto massicciamente. Un sadomasochismo che si esprime soprattutto attraverso il pettegolezzo, ansioso solo di dire male di tutto e di tutti: una critica costante di ogni scelta coraggiosa e il rifiuto di ogni solidarietà, che non sia solo piaggeria. Lo hanno ben sperimentato i due Farfalloni che si sono trovati di fronte solo difese tracotanti o accettazioni sufficienti, quando hanno sposato, per amore o per convinzione, le loro cause a favore o contro qualcosa. Il narcisismo, invece, si manifesta clamorosamente in ogni situazione e in ogni luogo: sempre è un esibirsi e non guardare, un parlare e non ascoltare; gli artisti al Festival perdono la loro battaglia quando per debolezza si adeguano alla realtà posticcia di questi «incroyables» e di queste «merveilleuses» che sotto le abbronzature nascondono la rapacità di belve. L’arte arriva sana a Spoleto, qui si ammala perché non è amata, ma è solo corteggiata e qualche volta stuprata; ma l’arte è portatrice di salute; attraverso l’amore per l’arte si può guarire dal sadomasochismo e dal narcisismo, forse un giorno questo sarà capito anche a Spoleto e al «suo» Festival.

Proprio perché partire è un po’ morire abbiamo voluto ancora una volta sederci con una matita e taccuino in una poltroncina di teatro, a riflettere su quello che avviene sulla scena, riconoscenti del privilegio concessoci di cercare di fame partecipi anche altri, attraverso poche righe di cronaca «diretta».
Giovedì 29 giugno si è inaugurato a Spoleto il XXXII Festival dei Due Mondi con l’allestimento al Teatro Nuovo dell’opera I racconti di Hoffmann di J. Offenbach, sul libretto di J. Barbier e M. Carré, tratto da tre racconti dello scrittore e musicista tedesco E.T.A. Hoffmann (1776-1822).
Sebbene sia empio chiamare il compositore tedesco-parigino «il Mozart degli Champs Elysées» rimane il fatto che è, a nostro avviso, uno dei più grandi compositori dell’ottocento europeo. Geniale e ironico, è stato capace, attraverso le sue portentose operette, non solo di descrivere con grande pregnanza poetica la Francia del Secondo Impero, ma anche di penetrare nelle profondità dell’anima universale. Le sue fantasie mitologiche su Orfeo o Elena o le esotiche divagazioni sulla Perichole gli permettono di costruire momenti teatrali quasi perfetti, in cui la musica di sapientissima fattura è strettamente congeniale all’azione. Le sue melodie di immortale bellezza e le sue orchestrazioni raffinate ed efficaci fanno ormai quasi parte del nostro inconscio sociale. Le sue famose danze, marce, romanze e barcarole ruotano nella mente di noi tutti, diventate non solo emblema di un’epoca, ma anche espressioni di una straordinaria capacità di comunicazione attraverso la magia del linguaggio musicale.
E arcinoto quanto gli sia costato, emotivamente ed artisticamente, comporre la sua unica «opera seria», che dovette persino lasciare incompiuta nella strumentazione, che fu poi egregiamente condotta a termine dal compositore francese-americano Ernest Guiraud (1837-1892) Offenbach ben sapeva di non essere solo il compositore di una società frivola di acidi signori in marsina e pettegole dame piumate; ma nonostante il valore della sua musica l’etichetta di famosissimo musicista quasi leggero non riuscì a scrollarsela di dosso, neppure con questi «Racconti di Hoffmanm».
In quest’opera la musica non tradisce la demoniaca drammaticità dell’arte del poeta tedesco, ma dà una sua lettura di quelle atmosfere. Mantenendo tutta l’intensità poetica dei tre racconti, il musicista vi aggiunge un’affiorante concezione dell’esistenza, amara ed aggressiva.
L’allestimento spoletino ci ha lasciato molto perplessi: innanzitutto la regia è, a dir poco, ridicola ed invade anche gli spazi musicali se, per esempio, è del regista Luigi Samaritani la sciocca trovata di inserire, dopo le prime battute d’orchestra dell’incipit (non si può chiamarla ouverture) un accordéon che suona la barcarola dell’ultimo atto, dando fin da subito al tutto una insensata e stucchevole atmosfera di film francese di trent’anni fa. Inoltre pensiamo che un regista di un’opera in musica dovrebbe rispettare le esigenze dei cantanti anziché costringerli a faticose emissioni di voce mentre si rotolano su lettoni, strisciano sul palcoscenico o suonano il violino sdraiati supini su di un pianoforte. Tutto questo ci pare ancor più ridicolo dello sproloquio scenografico fatto di fumo, tendaggi, piramidi, flabelli, figure sdoppiate che citano continuamente qualcuno o qualcosa e dell’ingombrante plastico del parigino Palais Garnier ridotto a macchina scenica tuttofare.
La direzione del giovane David Stahl è stata dal suo canto semplicemente pessima:
forse influenzato dal cognome del compositore, ha indotto i musicisti della Spoleto Festival Orchestra a seguirlo nel tentativo, per fortuna non completamente riuscito, di ridurre tutta la musica a pesanti strimpellamenti da birreria di Norimberga.
Così è andata completamente perduta la virtuosità di cesellatore di Offenbach: i forti e i piano della parti tura non giungevano quasi mai preparati da crescendo e diminuendo adeguati; inoltre spesso i fiati coprivano gli archi; le bellissime melodie venivano «squadrate» da accenti troppo evidenziati e le modulazioni affrontate col piglio così tracotante davano al tutto sonorità bandistiche. Solo nel secondo atto c’è stata a nostro avviso una maggiore attenzione nelle coloriture con risultati di migliore espressività. I cantanti ci sono parsi quasi sempre all’altezza della situazione, capaci anche di recitare i loro ruoli in modo persuasivo; su tutti ha brillato Veronica Villarroel (Antonia) dalla voce squillante e morbida, ottima nell’emissione del fiato. Elizabeth Vidal (Olympia) si è districata abbastanza bene tra le insidie vocali del personaggio, malgrado un certo piglio da virtuosa di provincia. Isola Jones (Giulietta) ha esibito una voce forte e rotonda, con qualche acerbità e talvolta un po’ imprecisa nell’intonazione. Brenda Boozer (Nicklausse) se l’è cavata più che discretamente, sebbene ci abbia lasciato perplessi la sua scelta di cantare sempre a gola troppo aperta. Barry McCauley (Hoffmann), è stato di rendimento discontinuo, qua e là distratto e farfugliante, in altri momenti più teso ed aggressivo. Alan Held nel triplice ruolo dei malvagi Lindorf, Coppelius e Mirac1e ha offerto tre discrete interpretazioni vocali, anche se gli avrebbe giovato maggiore espressività. Gli altri componenti del cast erano Oslavio Di Credico, Pilar Mufioz, Daniela Broganelli, Jerold Siena, Ubaldo Carosi, Gabriele Monici e Craig Denison. Gradevoli gli interventi del Westminster Choir diretto da Glenn Parker.

55 – Luglio ‘89

sabato, 1 luglio 1989

Nell’inconscio della nostra società la figura di Francesco d’Assisi ha una forza emotiva intensissima e neppure gli strapazzamenti più rozzi e superstiziosi che sempre circondano le figure dei santi sono riusciti a indebolirla: sia nei san tini ingenui, sia nelle rappresentazioni nelle sale parrocchiali o nelle narrazioni di Giotto, Dante e Liszt ugualmente ogni volta la grandezza francescana risalta cristallina e superiore ai mezzi che cercano di descriverla. È indubbiamente un gesto di coraggio proporsi di riraccontarne per l’ennesima volta la storia, però, tutto sommato, forse per l’intercessione del Santo, gli ardimentosi che hanno il coraggio di accingervisi cadono quasi sempre in piedi. Non che si possa dire che la signora Liliana Cavani, regista e soggettista del film Francesco sia riuscita a darci una grande opera d’arte, ma bisogna ammettere che in alcuni momenti riesce a coinvolgere ed emozionare lo spettatore. Secondo noi un grosso difetto della regista è la più assoluta mancanza di senso del ridicolo, per cui pone troppo spesso Francesco e i suoi fraticelli in situazioni non volutamente buffe, ma che talvolta risultano addirittura esilaranti. Per esempio la scena, in cui Francesco, completamente nudo, sembra masturbarsi sulla neve, gemendo come in un orgasmo, mentre tenta di calmare i bollenti spiriti, non è irriverente:
è solo ridicola. Così pure quell’insistere sulle, per altro graziose, natiche nude dei frati sempre troppo saltellanti come capretti spesso fa sorridere. Inoltre per tutto il film non sembra proprio di essere in Umbria ma in una zona ciclonica in cui si alternino diluvi e siccità. Dà poi quasi fastidio quell’insistere su di un preteso atteggiamento copro filo da cui sembrerebbe afflitto il giovane di Assisi insieme con i suoi amici.
Il difetto peggiore però della regista è quello di non saper dare alle immagini un respiro narrativo: tutto procede per frammenti e quando il racconto si prolunga per più di qualche sequenza, subito insorge la noia. Un grosso torto viene poi fatto al personaggio di Chiara, vista come una donnetta, petulante ed impicciona, che rassomiglia troppo ad una Biancaneve con fregole di santità; una pupattola fasulla che non sembra minimamente toccata dalla sacralità eroica di Francesco. Suona offesa a noi, e al senso trascendente della vicenda l’aver ridotto il rapporto tra Chiara e Francesco ad un amorazzo sdolcinato da fotoromanzo. Sia ben inteso che non ci avrebbe turbato per nulla veder avanzare l’ipotesi di rapporti carnali tra loro, ma proprio non è accettabile vederli assolvere la funzione consumistica di inserire comunque nel film una love story per compiacere lo scetticismo più grettamente laico degli spettatori.
Tra tutti i personaggi di contorno sono riusciti particolarmente efficaci papa Innocenzo e la sua curia (con la bella figura del legato pontificio interpretata da Mario Adorf). Nel seguito di Francesco soltanto fra’ Leone ci è parso avere una sua credibile umanità non disgiunta dalla santità.
Francesco, nonostante sembri ogni tanto un hippy appena reduce da una fumata d’erba, risulta complessivamente ben tratteggiato nelle caratteristiche fisiche e psicologiche. La sua ossessiva e delirante smania di coerenza, quel suo prendere il Vangelo alla lettera imponendosi di vivere fino in fondo secondo la parola del Cristo, senza accenni di pudore vengono fuori in bella e convincente evidenza nelle scene lente ed insistite, qualche volta anche ripetute. Il culmine ci pare raggiunto nella lunga scena finale in cui il bisogno di identificarsi con Gesù trova anche la risposta diretta che diventa segno di amore totalizzante lasciato sul corpo di Francesco, attraverso il dono delle stimmate: qui la regista vince la battaglia, trasformando un momento che avrebbe potuto essere riduttivamente surreale, in un efficace momento di metafisica drammaticità.
Mickey Rourke interpreta il suo personaggio con grande bravura, con gesti quasi sempre efficaci, espressioni quasi sempre azzeccate, capace anche di trasformare la sua bellezza divistica in bellezza interiore, affiorante anche nelle situazioni più mortificanti.
Reminiscenze pasoliniane danno al tutto i costumi di Danilo Donati che sa lavorare i cenci e le materie grezze con rabbrividente efficacia. La musica di Vangelis non ci è piaciuta, così ridotta per quasi tutto il film a bramiti indistinti, tranne nel finale dove scade invece in una zuccherosa melodia superficiale ed insignificante.

55 – Luglio ‘89

sabato, 1 luglio 1989

Estivals

Da noi l’estate è lunga per privilegio climatico e attrae la migrazione di razze diverse trascorrenti dal nord al sud della penisola, imperversanti soprattutto dove ci sia un pretesto balneare o culturale. Così che le acque si inquinano, le coste si deturpano e i capolavori dell’arte si deteriorano; tanto che si è dovuto inventare la formula di vacanze cosiddette intelligenti, che portano fuori dagli itinerari consueti a contaminare e distruggere quello che era sfuggito alle prime invasioni barbariche.

La colonizzazione turistica ha spesso indotto gli italiani a dover scegliere il proprio ruolo tra quelli, entrambi poco nobili, del rapinatore o del lacchè, a seconda che si preferisca essere di coloro che derubano il passeggero o di quelli che stendono la mano, e spesso colui che deruba ugualmente mèndica.

Il terziario insomma è ben lungi dall’essere inteso nel nostro Paese come un settore produttivo e i servizi vengono drammaticamente associati alla loro derivazione etimologica, irrimediabilmente compromessa con il concetto di servitù: ne sanno qualcosa i giovani studenti delle scuole alberghiere o degli istituti per il turismo che vanno a cercare disperatamente altrove una dignità professionale negata in patria.

Un altro aspetto deleterio della colonizzazione è il consumismo frenetico di beni di ogni genere, comprese l’arte e la cultura.

Stranamente però nel nostro belpaese le istituzioni artistiche e culturali considerano l’estate un periodo di vacanza: chiusi i teatri e le biblioteche e talvolta persino i musei.

In compenso nella lunga stagione calda fioriscono in tutta la penisola attività culturali ed artistiche «parallele».

Premi letterari e festivals forniscono il prodotto più prepotentemente richiesto: lo spettacolo della cultura.
Una cultura cioè che possa al massimo essere guardata da chi, qui ed ora, si trova di passaggio.

Questa forma di cultura-spettacolo ha poi un risvolto terribilmente negativo, che si aggiunge al male della superficialità: è cioè terribilmente costosa.

Costa tantissimo alla finanza pubblica e privata chiamata a sostenerla con fenomeni di lottizzazione e sponsorizzazione mostruosi e costa moltissimo anche a chi ne fruisce: tutto infatti diventa più caro in sua presenza, dal biglietto al conto dell’albergo.

L’estate è però solo una stagione anche da noi; i turisti trascorrono rapidamente, presto richiamati a doveri ingrati; noi rimaniamo a spazzare i resti della loro festa intelligente, paghi dello spettacolo che abbiamo dato.

55 – Luglio ‘89

sabato, 1 luglio 1989

Massimo Piergrossi affronta con una serie di tavole esposte allo studio S di via della Penna il tema suggestivo del «solstizio d’estate». In realtà le sue tecniche miste e olii su legno e carta si cimentano oltre che con l’astronomia anche con l’astrologia attraverso dodici opere dedicate ai segni dello Zodiaco. Cosicché l’impronta esoterica balza da subito in grande evidenza e viene poi confermata dall’esame attento delle singole opere. La sua non è però la presuntuosa ostentazione del mistero che esclude da ogni partecipazione chi non è iniziato; ma è un invito a percorrere insieme un cammino. Come una guida paziente Massimo Piergrossi accompagna i volenterosi lungo i labirinti di mitrei o catacombe indicando di tanto in tanto forme, segni e colori che affiorano sui muri e che l’artista con la sua tecnica disvelatrice ripropone criticamente.
L’arte che Piergrossi esprime ci ha particolarmente attratti perché è palese quanto siano frivoli ed inessenziali gli sproloqui sui simboli e sugli archetipi di Jung e, peggio che mai, di quegli artisti c1audicanti o critici imbelli oltre che insipienti, i quali ritengono che lo zurighese sia tra gli studiosi della psiche colui che meglio ha saputo cogliere il discorso artistico. Ciò è falso:
Jung ha detto cose fondamentali sull’inconscio e sul significato della terapia, ma di arte ha capito poco o niente; i suoi sono infatti stati balbettamenti tardo liberty pieni di piume e lustrini. I simboli e i richiami arcaicizzanti di Massimo Piergrossi, nella loro tenera e inquietante sensualità inducono ad un voyeurismo discreto ed esplicitamente affermano che il simbolo è il mondo.
Il Sagittario e la Vergine sono i corpi nudi di un maschio e di una femmina che appena si intravedono, confusi col fondo e ricoperti dai simboli, ma la loro presenza è forte e attiva; una presenza vivente come quella dell’acqua ricca di azzurri che sgorga dalla roccia, accanto alla quale trionfa la pienezza colorata dell’orcio di terracotta nell’ Acquario.
Sempre sovrastati dalla curva di un arco che li racchiude nella sua luce appaiono anche i covoni e le spighe di grano a volte colte negli spazi aperti, inteneriti da un brandello colorato di farfalle rimaste sospese nel vuoto lasciato da uno strappo; oppure è il taglio netto del collage che con decisione getta un fascio di ombra a forte contrasto. Talvolta i temi della natura e del simbolo sono riuniti nelle corone di frumento, appese su muri o portali, avvolte in luci ed ombre di colore diverso, dall’ocra all’azzurro, rituali e definitivi col loro richiudersi. nel cerchio. Se tutto questo è un tentativo di leggere quello che noi abbiamo preso come un lungo racconto sul sacro e l’umano, c’è poi la narrazione parallela che Piergrossi conduce attraverso l’uso delle tecniche come linguaggio. Graffire, ritagliare, incollare, staccare sono i modi di riconquistare lo spessore che solo il tempo sa dare, quando incide sull’opera che l’artista gli ha consegnato, conservandone la memoria.

55 – Luglio ‘89

sabato, 1 luglio 1989

Con tutto il male di cui sono capaci i premi letterari, hanno tuttavia il ruolo talvolta di benefattori di qualche musa ingiustamente negletta, come nel caso del premio Montale-Guggenheim di poesia che è servito a farci rileggere un poeta come Luciano Erba, milanese nato nel 1922, docente universitario, esperto di letteratura francese e traduttore. Il libro premiato si intitola L’ippopotamo (Einaudi 1989, pagg.55, Lit.8500) e riunisce una scelta di poesie da raccolte diverse, datate tra il 1960 e il 1987.
La poesia di Erba ha il grande pregio di essere diretta, rifuggente da astrusità ed intellettualismi, si astiene dai filosofemi ed evita fasulli arcaismi. La sua chiarezza talvolta si colora tuttavia a tratti di nere ombre. I versi hanno una piana musicalità che li fa scivolare teneramente sulle labbra che li pronunciano, per poi sparire, dannunzianamente, «chissà dove, chissà dove». Abbiamo usato l’avverbio dannunziano, perché un certo preziosismo è riscontrabile tra queste pagine, ma senza traccia di asfodèli e lorìche. La natura è amata con una devozione appassionata e discreta:
«un novembre di vino e di castagne;/ lontano, nel silenzio della bassa,! un landò nero passa oltre le rogge,! lievi calessi accarezzano le strade/ già indurite dal freddo. (…)»
Alcuni sentimenti sono dichiarati con estrema e commossa intensità:
«Quanto tempo mi resterà ancora per imparare/ a sorridere e amare come te?»
Il volumetto, bianco e nero, è molto piccolo tanto da non pesare, in tasca o in borsa, e può favorire una riflessione durante una pausa anche breve.

55 – Luglio ‘89

sabato, 1 luglio 1989

Il ristorante Il Peristilio, annesso al bar Vanni, al primo piano di via Col di Lana si presenta all’avventore come la fantasia realizzata di un pescivendolo convinto di essere l’imperatore dei francesi; ma potrebbe anche essere la realizzazione sublime di un mausoleo fatto per un miliardario texano. Una mente diabolicamente astuta è riuscita a realizzare un ambiente di così assoluto cattivo gusto che finisce col destare divertita ilarità. In un profluvio di piante di plastica, tra le quali serpeggiano cordoni di bronzo dorato, abbondano marmi veri e finti, cristalli e stagnole, colonne ed obelischi, statue neoc1assiche e affreschi, il tutto moltiplicato dagli specchi. In questa cornice si aggirano bizzarri camerieri da operetta che si esprimono in linguaggi tanto manierosi quanto inadeguati. Ai tavoli ben apparecchiati e distanziati tra loro nei vasti saloni, su comode sedie squittiscono e bofonchiano con discrezione signori e signore di altri tempi: non del passato, ma di un futuro prossimo in cui è probabile che queste saranno le sole tracce di epoche e culture.
Nel gradevolissimo (in questa stagione) gelo un po’ tombale dell’aria condizionata si diffondono le note suonate con garbo, al pianoforte, da un giovinotto che però ha il bizzarro vezzo di swingare tutto, anche Chopin e Schumann, aumentando in gente come noi il senso di irrealtà.
I cibi che vengono ammanniti hanno l’unico pregio di essere preparati con materie prime eccellenti che però la mano invisibile di qualcuno rende praticamente immangiabili. La spigola in carpione è un’autentica macedonia di agrumi con pesce, l’insalata di porcini crudi si offre al palato incontaminata da ogni condimento, la delicatissima ricotta dell’agro romano è arrotolata per scherzo in una bresaola che la avvolge in un abbraccio assassino. Il risotto ai fiori di zucca ha un curioso fortissimo sapore di pancetta affumicata quasi asfissiante; dal riso ai funghi un burlone ha rubato in corridoio i buoni porcini i quali invece sono ancora rintracciabili nelle tagliatelle, vero trionfo della cucina di una clinica di lusso. Il filetto alle erbe fa letteralmente singhiozzare per la disperazione di vedere un così bel taglio di carne immerso in un fondo di cucina grassissimo e micidialmente pesante, per di più senza profumo; la trancia di salmone, di buona qualità, è rinsecchita come un reperto archeologico; troppo asciutta anche la lombatina alla Vanni. Il carrello sontuoso dei dolci offre un carosello di colori e di sapori da autentico luna park: con la zuppa Vanni, il millefoglie e il St. Honoré così ricchi di burro da fornire colesterolo sufficiente agli arteriosclerotici di un intero gerontocomio. Altrettanto grassi e unti sono i bignè della piccola pasticceria.
I vini della lista paiono quasi tutti pregevoli; noi abbiamo apprezzato un ottimo Chardonnay al momento dell’aperitivo; poi un Riesling del vigneto di Villa Roncada: ottimo, fresco e fruttato; mentre per sventura il solitamente gradevole Grumello di Negri è risultato strapazzato e spento. Buono il carrello dei superalcolici, offerti da un barman veramente simpatico e spiritoso. Il conto è adeguato alla pretenziosità del locale.

Psicoanalisi contro n. 55 – Il mondo, l’essere, il panico

sabato, 1 luglio 1989

Il panico è un’esperienza nosografica e clinica oggetto di molti studi specialistici negli ultimi venti anni; si tratta però di una situazione esistenziale, e non solo psichiatrica, intorno alla quale, come è giusto che sia, le idee sono ancora molto poco chiare. Su questo terreno io mi sono voluto avventurare come essere umano, come psicoanalista e anche come artista. Nelle crisi di panico l’uomo sembra non essere più in grado di mettere in atto alcun meccanismo difensivo apparentemente sensato. Si tratta di una paura incontrollabile e totale, il cui nome deriva dal greco «panikòs», un marasma in cui l’uomo teme di scomparire.
L’antico dio greco Pan si dice avesse la capacità con le sue apparizioni improvvise, con la sua voce tonante, di spaventare chi lo incontrasse. Si racconta addirittura che arrivò a spaventare l’esercito persiano in procinto di aggredire la Grecia. Più spesso accadeva che spaventasse d’improvviso il contadino solo nei campi o l’ancella che attingeva l’acqua alla fonte, come amano narrare spesso gli antichi poeti.
Un senso che si può ricavare dal mito è quindi che il panico viene provocato da un agente esterno, però non può non lasciare perplessi che la lingua greca traduca la parola panico anche con un termine tremendo: «agonia». In questa nuova luce il problema del panico ci riguarda tutti: chi non proverà mai l’agonia? Io non credo nelle morti improvvise; neppure quando si precipita con l’aereo o quando si è travolti dalla valanga si è risparmiati da un più o meno breve momento di agonia, in attesa della morte che sta sopraggiungendo.

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Panico e agonia vanno quindi strettamente uniti: l’uno descrive la mia paura davanti al mondo; l’altra esprime la mia solitudine davanti alla morte, che nessuna consolazione può attenuare, neanche la mano stretta nella mano della persona amata, come Pindaro che pure morì tra le braccia di Teosseno. Ciascuno di noi morirà solo nella sua agonia. I greci antichi intuitivamente avevano già capito molto; noi possiamo però contare su una comprensione scientifica che ha a sua disposizione tecniche sperimentali più raffinate. Partiamo quindi da queste tecniche e torneremo poi a tentare una comprensione più filosofica di questa situazione esistenziale chiamata panico. Prima di riassumere molto brevemente le più recenti osservazioni scientifiche confesso di essere stato io stesso in passato vittima di attacchi di panico. I medici e gli psicologi ai quali mi ero rivolto vi avevano trovato una facile spiegazione nell’esperienza drammatica della perdita della vista che mi aveva colpito appena uscito dall’adolescenza. Secondo loro l’esperienza del buio era la più che comprensibile ragione nascosta delle mie crisi di panico. Solo più tardi fui in grado di scoprire le vere ragioni e di porvi rimedio.

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La mia lunga esperienza clinica diretta e di supervisore mi ha permesso un lavoro sistematico sul panico, che comprende anche, grazie al funzionamento dell’ambulatorio di psicosomatica che dirigo, di riferire anche casi che non sarebbero giunti alla richiesta di uno specifico intervento psicologico (raramente infatti al primo attacco di panico ci si rivolge ad uno specialista della psiche, preferendo ricorrere ad un pronto intervento medico di base). Ben il dodici per cento di tutti i pazienti analitici presi da me in esame risulta avere cominciato l’analisi come risposta ad una crisi di panico. Nessun caso si è però mai presentato di pazienti che escludessero in modo assoluto di avere avuto in questo o quel periodo della loro vita attacchi di panico di una certa consistenza. Si tratta di una totalità che fa impressione per il numero di persone che riconoscono di avere avuto sintomi di panico schietto talvolta accompagnati da agorafobia e/o claustrofobia. Certo, bisogna considerare che il campione preso in esame è di pazienti psicoanalitici, di persone cioè che hanno ricercato un aiuto terapeutico per alleviare situazioni di disagio psichico e che solo in minima parte sono stati spinti all’analisi da interessi culturali o professionali.

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Il lavoro di ricerca degli ultimi venti anni è stato soprattutto mirato a scoprire i fattori organici che contribuiscono a scatenare i disturbi da attacchi di panico: disfunzioni dei neurotrasmettitori e del metabolismo basale, disfunzioni del sistema nervoso autonomo e dei recettori cerebrali e via elencando. Si è discusso sull’effetto del lattato di sodio e di altre sostanze come elementi scatenanti; degli anti MAO e dei triciclici come sostanze bloccanti. Si è anche creduto di scoprire che le benzodiazepine non siano in grado di ostacolare l’insorgere di attacchi di panico, ma che siano tutt’al più utili a contenere la cosiddetta ansia diffusa. Si è arrivati alla definizione del disturbo da attacchi di panico come sindrome a sé solo col D.S.M. III del 1979/180, secondo la quale perché possa essere pronunciata una diagnosi di tal genere il paziente deve aver provato per almeno tre volte in tre settimane in differenti occasioni attacchi di panico in cui siano riscontrabili almeno quattro di questi sintomi: 1) dispnea; 2) palpitazioni; 3) dolore o malessere al torace; 4) sensazione di affogare o di essere soffocato; 5) sbandamenti, vertigini o sensazione di non stare bene in piedi; 6) sentimenti di irrealtà; 7) parestesie; 8) improvvise sensazioni di caldo o di freddo; 9) sudorazione; 10) sensazione di svenimento; 11) tremori fini o grandi scosse; 12) paura di morire, di impazzire o di fare qualcosa di incontrollato durante l’attacco. Tra l’altro va notato come il D.S.M. III confonda ed unisca agorafobia e claustrofobia, due condizioni che io invece credo abbiano significato molto diverso dal punto di vista psicodinamico. Ciò che lascia perplessi è però il principio descrittivo adottato come esclusivo dal D.S.M. III per definire questa e tutte le altre sindromi; un principio insomma identico a quello adottato da Esquirol nel suo Trattato delle malattie mentali del 1838, tanto da far venire il sospetto che la psichiatria non sia stata capace di andare oltre.

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La crisi di panico fu teorizzata anche da James e Lange i quali, alla fine del diciannovesimo secolo ne dettero una spiegazione in termini evolutivi che suona piuttosto insolita: secondo loro sono cioè i sintomi organici: la fuga, la sudorazione fredda, la dispnea che danno origine alla sensazione psichica di paura e non viceversa. Come dire che mentre la psicologia tradizionale si esprimeva secondo un ragionamento causale del tipo: vedo l’orso, ho paura, fuggo in preda a sudori freddi e col fiato mozzo; ora il meccanismo veniva spiegato nel modo seguente: vedo l’orso, scappo, ho il fiato mozzo e sudo freddo tanto che nel mio organismo e nella mia psiche si determina lo stato di paura.
Cannon invece, nel 1932, confermato da Liebowitz ed altri ai nostri giorni, dice che il disturbo da attacco di panico deriva da una stimolazione eccessiva del «locus coeruleus», una sezione del cervello, da parte di agenti chimici; ma, rimane sempre irrisolto il problema se queste siano cause oppure effetti dell’attacco di panico.
A questo punto io mi chiedo se la ricerca debba limitarsi a valutare queste ipotesi oppure se non valga la pena di domandarsi se l’uomo non sia costituito anche da istanze che lo trascendono e, pur senza perdersi in fantasie metafisiche, superare i limiti della sintomatologia che può, questa sì, essere più o meno inibita da alcune sostanze.

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Sigmund Freud tentò una spiegazione complessiva e psicodinamica dell’ansia, anche di quella parossistica che oggi viene chiamata panico; anzi, formulò in proposito due diverse teorie. La prima nel 18951/1915 e la seconda nel 1926, riferita in Inibizione, sintomo e angoscia. Secondo la prima teorizzazione, l’angoscia e il panico nascono dai desideri che noi reprimiamo e la rimozione dei quali non riesce però perfettamente, per cui tendono a ripresentarsi in situazioni particolari sotto forma di panico o ansia, com’è il caso di Katharina, la ragazza che Freud incontrò in montagna. Dopo cambiò ipotesi addirittura capovolgendola: non è la rimozione malriuscita la causa del sintomo che cela un ritorno del rimosso, anzi: l’ansia è un segnale d’allarme che dice all’Io di mettersi in guardia contro l’insorgere di desideri non accettati.
Lo stato di ansia, quando si ingenera, confonde nel suo buio ogni cosa, come fa la seppia quando si avvolge nel nero del proprio inchiostro per celarsi ad un pericolo incombente e per sottrarsi ad un’aggressione, in modo da non essere vista, ma anche di non vedere.

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Anna Freud e S. Dann nel 1951 elaborarono un’interessante ipotesi in uno studio sulla psicoanalisi infantile: secondo loro il panico nasce quando manca il riferimento affettivo. Sconvolgendo le precedenti teorie secondo le quali era il principio di sopravvivenza e la ricerca del cibo a legare affettivamente il piccolo all’adulto, dimostrarono che anche in situazioni di grande deprivazione, come quella dei bambini ebrei rinchiusi nei lager nazisti, non era tanto la soddisfazione del bisogno di cibo a preservare la loro integrità psichica, ma soprattutto la possibilità di avere un reciproco scambio affettivo. Da queste osservazioni nacque la teorizzazione del benessere da contatto di Harlow (1958) per cui risultò primario il rapporto affettivo rispetto allo stesso bisogno di nutrimento; cosa osservata poi sperimentalmente anche negli studi su animali di Schanberg e Kuhn (1980) che dimostrarono come i cuccioli preferissero sempre il rapporto con un oggetto-madre costruito con materiali morbidi in grado di procurare un benessere da contatto, anche in presenza di un altro oggetto-madre capace di erogare nutrimento, ma costruito con materiali freddi e inerti, come cannule o fili metallici etc. In questi cuccioli di mammiferi, proprio come nei bambini internati, il panico e le patologie psichiche nascevano più in rapporto alla mancanza di scambi affettivi che in rapporto alla mancanza di cibo.
Io sono dell’avviso che la riflessione su queste acquisizioni sia fondamentale proprio perché ci indica che il bisogno di amore è superiore allo stesso desiderio di sopravvivenza.
D. F. Klein della Columbia University in accordo con J. Bowlby teorizza oggi a sua volta un panico da separazione; ciò che procura panico è la separazione dall’oggetto amato.

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Secondo i comportamentisti l’ansia e il panico si ingenerano invece quando si cambia la risposta ad uno stimolo di comportamento abituale: l’animale abituato a ricevere il cibo dopo che ha compiuto, per esempio, il gesto di premere una leva, è preso da panico se il suo gesto riceve invece in risposta uno stimolo doloroso: l’ansia si ingenererà perché nascerà in lui il disorientamento riguardo al rapporto causa ed effetto. Nell’uomo, allo stesso modo, subentra uno stato di panico quando si ricreano le condizioni che hanno a suo tempo accompagnato una esperienza dolorosa: chi per esempio ha avuto un grave incidente d’auto può trovarsi ad avere una crisi di panico quando gli si ripresenti una situazione organica simile a quella che si creò in quella occasione: respiro affannato, tachicardia e sudorazione in una situazione innocua come quella procurata da uno sforzo fisico in una palestra, lo possono riportare al panico perché associati a quella precedente esperienza di pericolo mortale.
Quello che rimette però in discussione questa ed altre ipotesi è il fatto che gran parte degli attacchi di panico si verificano in situazioni di assoluta calma: mentre si guida, o si scrive, prima di addormentarsi o nell’adempimento di gesti consueti, come le abluzioni o le altre pratiche igieniche. Anche le osservazioni dei comportamentisti ci riportano però a collegare la situazione di panico con il pericolo mortale.

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La morte è stata sempre presente alla filosofia; nei nostri tempi i grandi filosofi, sadomasochisticamente, se ne nutrono, fino a farla diventare il senso della vita. Per Heidegger l’esistenza umana non è altro che «vivere per la morte». Non che ci si debba suicidare, ma bisogna avere la consapevolezza della impossibilità di ogni possibilità di esistere. L’essere e il nulla si mescolano: non è il tempo il senso dell’essere, ma il nulla. La stessa impossibilità di esistere perché ci si scontra sempre contro un muro che non cela dietro di sé il mistero (come invece direbbe il poeta Montale) ma che schiaccia l’uomo sotto di sé è il senso della filosofia di Jasper, filosofo e «psichiatra». Questi due filosofi richiamano però l’uomo, invitandolo a non rifiutare nella filosofia, come nelle scienze, la presenza dell’assurdo.

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Dietro il mondo c’è soltanto l’impossibilità di continuare a vivere: noi viviamo perché moriremo; che senso ha però vivere per morire? Che senso ha essere avendo come fine il non essere? Già la filosofia greca ha tentato di risolvere questo assurdo. Io adoro la filosofia però ne riconosco l’assurdità nella grandezza: si pensi ad Eraclito che dice che tutto si muove, non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua. Cosa significa se non che tutto è già finito, che qui ed ora noi siamo già morti, nessuno può fermare l’istante? Parmenide ha in fondo detto lo stesso con l’opposta teoria dell’immobilità assoluta dell’universo. Per l’uno come per l’altro siamo già tutti morti. Non si può fermare il tempo, il nulla è presente contemporaneamente all’essere. Questo è l’assurdo della filosofia e della coscienza. Questo assurdo si radica nell’inconscio di ciascuno, e di qui sorgono l’ansia e il panico. La psicoanalisi ha tentato di razionalizzare dando spiegazioni meccaniche esemplicistiche e allora ha parlato di desideri rimossi: incesto, omosessualità e mille altri, che sono non solo in ciascuno di noi, ma fanno parte dell’inconscio sociale del mondo in cui viviamo. Ma sotto questo primo strato dell’inconscio vi è secondo me un secondo livello che la psicoanalisi deve cominciare ad affrontare: l’assurdo. Perché la vita è assurda.

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Ancora più in profondità c’è l’interrogativo su cui l’assurdo si regge: Io perché esisto? Perché proprio Io esisto? Più che la somministrazione di qualunque sostanza chimico-farmacologica basta a procurare a chiunque una crisi di panico un semplice esperimento che consiste nel far ripetere ad una persona più volte ed ossessivamente il proprio nome: era questo un giochetto sadico che io facevo spesso in gioventù, quando non amavo ancora a sufficienza i miei simili. Una opinione errata è anche quella per cui si crede che siano più soggette ad attacchi di panico le donne degli uomini: sono soggetti nella stessa percentuale, sebbene i maschi lo confessino di meno; anche questo è un condizionamento dell’inconscio sociale. É vero che le crisi di panico sono quasi sempre precedute o seguite da forme depressive; forse per questo gli anti-depressivi si rivelano efficaci nel combattere il panico. Io penso inoltre che non sia vero che le benzodiazepine siano inefficaci negli attacchi di panico e servano tutt’al più contro le cosiddette ansie diffuse, come affermano tutti gli autori. Nella mia esperienza clinica si sono rivelate utilissime, purché associate al trattamento psicoterapeutico del profondo. Non dovrei poi dirlo ma so che la cura più efficace contro gli attacchi di panico è l’assunzione di alcool, ben dosato anch’esso e di buona qualità.
Ci sarebbe molto da dire sull’uso terapeutico delle bevande alcooliche, ma non è forse ancora il tempo. Sotto il rimosso, sotto l’assurdo c’è dunque la disperazione. A cosa può quindi servire la psicoanalisi? Può solo avere la funzione consolatoria, proprio come Freud non voleva che fosse! Bisogna allora che la psicoanalisi si rinnovi e si rifondi su altre basi. Seppur oscuramente io ho accennato su quali. Questo che faccio è per ora un discorso a capo coperto; spero che presto potrò anch’io scoprire il capo, come fece il vecchio Socrate.