55 – Luglio ‘89

luglio , 1989

Nell’inconscio della nostra società la figura di Francesco d’Assisi ha una forza emotiva intensissima e neppure gli strapazzamenti più rozzi e superstiziosi che sempre circondano le figure dei santi sono riusciti a indebolirla: sia nei san tini ingenui, sia nelle rappresentazioni nelle sale parrocchiali o nelle narrazioni di Giotto, Dante e Liszt ugualmente ogni volta la grandezza francescana risalta cristallina e superiore ai mezzi che cercano di descriverla. È indubbiamente un gesto di coraggio proporsi di riraccontarne per l’ennesima volta la storia, però, tutto sommato, forse per l’intercessione del Santo, gli ardimentosi che hanno il coraggio di accingervisi cadono quasi sempre in piedi. Non che si possa dire che la signora Liliana Cavani, regista e soggettista del film Francesco sia riuscita a darci una grande opera d’arte, ma bisogna ammettere che in alcuni momenti riesce a coinvolgere ed emozionare lo spettatore. Secondo noi un grosso difetto della regista è la più assoluta mancanza di senso del ridicolo, per cui pone troppo spesso Francesco e i suoi fraticelli in situazioni non volutamente buffe, ma che talvolta risultano addirittura esilaranti. Per esempio la scena, in cui Francesco, completamente nudo, sembra masturbarsi sulla neve, gemendo come in un orgasmo, mentre tenta di calmare i bollenti spiriti, non è irriverente:
è solo ridicola. Così pure quell’insistere sulle, per altro graziose, natiche nude dei frati sempre troppo saltellanti come capretti spesso fa sorridere. Inoltre per tutto il film non sembra proprio di essere in Umbria ma in una zona ciclonica in cui si alternino diluvi e siccità. Dà poi quasi fastidio quell’insistere su di un preteso atteggiamento copro filo da cui sembrerebbe afflitto il giovane di Assisi insieme con i suoi amici.
Il difetto peggiore però della regista è quello di non saper dare alle immagini un respiro narrativo: tutto procede per frammenti e quando il racconto si prolunga per più di qualche sequenza, subito insorge la noia. Un grosso torto viene poi fatto al personaggio di Chiara, vista come una donnetta, petulante ed impicciona, che rassomiglia troppo ad una Biancaneve con fregole di santità; una pupattola fasulla che non sembra minimamente toccata dalla sacralità eroica di Francesco. Suona offesa a noi, e al senso trascendente della vicenda l’aver ridotto il rapporto tra Chiara e Francesco ad un amorazzo sdolcinato da fotoromanzo. Sia ben inteso che non ci avrebbe turbato per nulla veder avanzare l’ipotesi di rapporti carnali tra loro, ma proprio non è accettabile vederli assolvere la funzione consumistica di inserire comunque nel film una love story per compiacere lo scetticismo più grettamente laico degli spettatori.
Tra tutti i personaggi di contorno sono riusciti particolarmente efficaci papa Innocenzo e la sua curia (con la bella figura del legato pontificio interpretata da Mario Adorf). Nel seguito di Francesco soltanto fra’ Leone ci è parso avere una sua credibile umanità non disgiunta dalla santità.
Francesco, nonostante sembri ogni tanto un hippy appena reduce da una fumata d’erba, risulta complessivamente ben tratteggiato nelle caratteristiche fisiche e psicologiche. La sua ossessiva e delirante smania di coerenza, quel suo prendere il Vangelo alla lettera imponendosi di vivere fino in fondo secondo la parola del Cristo, senza accenni di pudore vengono fuori in bella e convincente evidenza nelle scene lente ed insistite, qualche volta anche ripetute. Il culmine ci pare raggiunto nella lunga scena finale in cui il bisogno di identificarsi con Gesù trova anche la risposta diretta che diventa segno di amore totalizzante lasciato sul corpo di Francesco, attraverso il dono delle stimmate: qui la regista vince la battaglia, trasformando un momento che avrebbe potuto essere riduttivamente surreale, in un efficace momento di metafisica drammaticità.
Mickey Rourke interpreta il suo personaggio con grande bravura, con gesti quasi sempre efficaci, espressioni quasi sempre azzeccate, capace anche di trasformare la sua bellezza divistica in bellezza interiore, affiorante anche nelle situazioni più mortificanti.
Reminiscenze pasoliniane danno al tutto i costumi di Danilo Donati che sa lavorare i cenci e le materie grezze con rabbrividente efficacia. La musica di Vangelis non ci è piaciuta, così ridotta per quasi tutto il film a bramiti indistinti, tranne nel finale dove scade invece in una zuccherosa melodia superficiale ed insignificante.