Psicoanalisi contro n. 55 – Il mondo, l’essere, il panico

luglio , 1989

Il panico è un’esperienza nosografica e clinica oggetto di molti studi specialistici negli ultimi venti anni; si tratta però di una situazione esistenziale, e non solo psichiatrica, intorno alla quale, come è giusto che sia, le idee sono ancora molto poco chiare. Su questo terreno io mi sono voluto avventurare come essere umano, come psicoanalista e anche come artista. Nelle crisi di panico l’uomo sembra non essere più in grado di mettere in atto alcun meccanismo difensivo apparentemente sensato. Si tratta di una paura incontrollabile e totale, il cui nome deriva dal greco «panikòs», un marasma in cui l’uomo teme di scomparire.
L’antico dio greco Pan si dice avesse la capacità con le sue apparizioni improvvise, con la sua voce tonante, di spaventare chi lo incontrasse. Si racconta addirittura che arrivò a spaventare l’esercito persiano in procinto di aggredire la Grecia. Più spesso accadeva che spaventasse d’improvviso il contadino solo nei campi o l’ancella che attingeva l’acqua alla fonte, come amano narrare spesso gli antichi poeti.
Un senso che si può ricavare dal mito è quindi che il panico viene provocato da un agente esterno, però non può non lasciare perplessi che la lingua greca traduca la parola panico anche con un termine tremendo: «agonia». In questa nuova luce il problema del panico ci riguarda tutti: chi non proverà mai l’agonia? Io non credo nelle morti improvvise; neppure quando si precipita con l’aereo o quando si è travolti dalla valanga si è risparmiati da un più o meno breve momento di agonia, in attesa della morte che sta sopraggiungendo.

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Panico e agonia vanno quindi strettamente uniti: l’uno descrive la mia paura davanti al mondo; l’altra esprime la mia solitudine davanti alla morte, che nessuna consolazione può attenuare, neanche la mano stretta nella mano della persona amata, come Pindaro che pure morì tra le braccia di Teosseno. Ciascuno di noi morirà solo nella sua agonia. I greci antichi intuitivamente avevano già capito molto; noi possiamo però contare su una comprensione scientifica che ha a sua disposizione tecniche sperimentali più raffinate. Partiamo quindi da queste tecniche e torneremo poi a tentare una comprensione più filosofica di questa situazione esistenziale chiamata panico. Prima di riassumere molto brevemente le più recenti osservazioni scientifiche confesso di essere stato io stesso in passato vittima di attacchi di panico. I medici e gli psicologi ai quali mi ero rivolto vi avevano trovato una facile spiegazione nell’esperienza drammatica della perdita della vista che mi aveva colpito appena uscito dall’adolescenza. Secondo loro l’esperienza del buio era la più che comprensibile ragione nascosta delle mie crisi di panico. Solo più tardi fui in grado di scoprire le vere ragioni e di porvi rimedio.

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La mia lunga esperienza clinica diretta e di supervisore mi ha permesso un lavoro sistematico sul panico, che comprende anche, grazie al funzionamento dell’ambulatorio di psicosomatica che dirigo, di riferire anche casi che non sarebbero giunti alla richiesta di uno specifico intervento psicologico (raramente infatti al primo attacco di panico ci si rivolge ad uno specialista della psiche, preferendo ricorrere ad un pronto intervento medico di base). Ben il dodici per cento di tutti i pazienti analitici presi da me in esame risulta avere cominciato l’analisi come risposta ad una crisi di panico. Nessun caso si è però mai presentato di pazienti che escludessero in modo assoluto di avere avuto in questo o quel periodo della loro vita attacchi di panico di una certa consistenza. Si tratta di una totalità che fa impressione per il numero di persone che riconoscono di avere avuto sintomi di panico schietto talvolta accompagnati da agorafobia e/o claustrofobia. Certo, bisogna considerare che il campione preso in esame è di pazienti psicoanalitici, di persone cioè che hanno ricercato un aiuto terapeutico per alleviare situazioni di disagio psichico e che solo in minima parte sono stati spinti all’analisi da interessi culturali o professionali.

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Il lavoro di ricerca degli ultimi venti anni è stato soprattutto mirato a scoprire i fattori organici che contribuiscono a scatenare i disturbi da attacchi di panico: disfunzioni dei neurotrasmettitori e del metabolismo basale, disfunzioni del sistema nervoso autonomo e dei recettori cerebrali e via elencando. Si è discusso sull’effetto del lattato di sodio e di altre sostanze come elementi scatenanti; degli anti MAO e dei triciclici come sostanze bloccanti. Si è anche creduto di scoprire che le benzodiazepine non siano in grado di ostacolare l’insorgere di attacchi di panico, ma che siano tutt’al più utili a contenere la cosiddetta ansia diffusa. Si è arrivati alla definizione del disturbo da attacchi di panico come sindrome a sé solo col D.S.M. III del 1979/180, secondo la quale perché possa essere pronunciata una diagnosi di tal genere il paziente deve aver provato per almeno tre volte in tre settimane in differenti occasioni attacchi di panico in cui siano riscontrabili almeno quattro di questi sintomi: 1) dispnea; 2) palpitazioni; 3) dolore o malessere al torace; 4) sensazione di affogare o di essere soffocato; 5) sbandamenti, vertigini o sensazione di non stare bene in piedi; 6) sentimenti di irrealtà; 7) parestesie; 8) improvvise sensazioni di caldo o di freddo; 9) sudorazione; 10) sensazione di svenimento; 11) tremori fini o grandi scosse; 12) paura di morire, di impazzire o di fare qualcosa di incontrollato durante l’attacco. Tra l’altro va notato come il D.S.M. III confonda ed unisca agorafobia e claustrofobia, due condizioni che io invece credo abbiano significato molto diverso dal punto di vista psicodinamico. Ciò che lascia perplessi è però il principio descrittivo adottato come esclusivo dal D.S.M. III per definire questa e tutte le altre sindromi; un principio insomma identico a quello adottato da Esquirol nel suo Trattato delle malattie mentali del 1838, tanto da far venire il sospetto che la psichiatria non sia stata capace di andare oltre.

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La crisi di panico fu teorizzata anche da James e Lange i quali, alla fine del diciannovesimo secolo ne dettero una spiegazione in termini evolutivi che suona piuttosto insolita: secondo loro sono cioè i sintomi organici: la fuga, la sudorazione fredda, la dispnea che danno origine alla sensazione psichica di paura e non viceversa. Come dire che mentre la psicologia tradizionale si esprimeva secondo un ragionamento causale del tipo: vedo l’orso, ho paura, fuggo in preda a sudori freddi e col fiato mozzo; ora il meccanismo veniva spiegato nel modo seguente: vedo l’orso, scappo, ho il fiato mozzo e sudo freddo tanto che nel mio organismo e nella mia psiche si determina lo stato di paura.
Cannon invece, nel 1932, confermato da Liebowitz ed altri ai nostri giorni, dice che il disturbo da attacco di panico deriva da una stimolazione eccessiva del «locus coeruleus», una sezione del cervello, da parte di agenti chimici; ma, rimane sempre irrisolto il problema se queste siano cause oppure effetti dell’attacco di panico.
A questo punto io mi chiedo se la ricerca debba limitarsi a valutare queste ipotesi oppure se non valga la pena di domandarsi se l’uomo non sia costituito anche da istanze che lo trascendono e, pur senza perdersi in fantasie metafisiche, superare i limiti della sintomatologia che può, questa sì, essere più o meno inibita da alcune sostanze.

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Sigmund Freud tentò una spiegazione complessiva e psicodinamica dell’ansia, anche di quella parossistica che oggi viene chiamata panico; anzi, formulò in proposito due diverse teorie. La prima nel 18951/1915 e la seconda nel 1926, riferita in Inibizione, sintomo e angoscia. Secondo la prima teorizzazione, l’angoscia e il panico nascono dai desideri che noi reprimiamo e la rimozione dei quali non riesce però perfettamente, per cui tendono a ripresentarsi in situazioni particolari sotto forma di panico o ansia, com’è il caso di Katharina, la ragazza che Freud incontrò in montagna. Dopo cambiò ipotesi addirittura capovolgendola: non è la rimozione malriuscita la causa del sintomo che cela un ritorno del rimosso, anzi: l’ansia è un segnale d’allarme che dice all’Io di mettersi in guardia contro l’insorgere di desideri non accettati.
Lo stato di ansia, quando si ingenera, confonde nel suo buio ogni cosa, come fa la seppia quando si avvolge nel nero del proprio inchiostro per celarsi ad un pericolo incombente e per sottrarsi ad un’aggressione, in modo da non essere vista, ma anche di non vedere.

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Anna Freud e S. Dann nel 1951 elaborarono un’interessante ipotesi in uno studio sulla psicoanalisi infantile: secondo loro il panico nasce quando manca il riferimento affettivo. Sconvolgendo le precedenti teorie secondo le quali era il principio di sopravvivenza e la ricerca del cibo a legare affettivamente il piccolo all’adulto, dimostrarono che anche in situazioni di grande deprivazione, come quella dei bambini ebrei rinchiusi nei lager nazisti, non era tanto la soddisfazione del bisogno di cibo a preservare la loro integrità psichica, ma soprattutto la possibilità di avere un reciproco scambio affettivo. Da queste osservazioni nacque la teorizzazione del benessere da contatto di Harlow (1958) per cui risultò primario il rapporto affettivo rispetto allo stesso bisogno di nutrimento; cosa osservata poi sperimentalmente anche negli studi su animali di Schanberg e Kuhn (1980) che dimostrarono come i cuccioli preferissero sempre il rapporto con un oggetto-madre costruito con materiali morbidi in grado di procurare un benessere da contatto, anche in presenza di un altro oggetto-madre capace di erogare nutrimento, ma costruito con materiali freddi e inerti, come cannule o fili metallici etc. In questi cuccioli di mammiferi, proprio come nei bambini internati, il panico e le patologie psichiche nascevano più in rapporto alla mancanza di scambi affettivi che in rapporto alla mancanza di cibo.
Io sono dell’avviso che la riflessione su queste acquisizioni sia fondamentale proprio perché ci indica che il bisogno di amore è superiore allo stesso desiderio di sopravvivenza.
D. F. Klein della Columbia University in accordo con J. Bowlby teorizza oggi a sua volta un panico da separazione; ciò che procura panico è la separazione dall’oggetto amato.

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Secondo i comportamentisti l’ansia e il panico si ingenerano invece quando si cambia la risposta ad uno stimolo di comportamento abituale: l’animale abituato a ricevere il cibo dopo che ha compiuto, per esempio, il gesto di premere una leva, è preso da panico se il suo gesto riceve invece in risposta uno stimolo doloroso: l’ansia si ingenererà perché nascerà in lui il disorientamento riguardo al rapporto causa ed effetto. Nell’uomo, allo stesso modo, subentra uno stato di panico quando si ricreano le condizioni che hanno a suo tempo accompagnato una esperienza dolorosa: chi per esempio ha avuto un grave incidente d’auto può trovarsi ad avere una crisi di panico quando gli si ripresenti una situazione organica simile a quella che si creò in quella occasione: respiro affannato, tachicardia e sudorazione in una situazione innocua come quella procurata da uno sforzo fisico in una palestra, lo possono riportare al panico perché associati a quella precedente esperienza di pericolo mortale.
Quello che rimette però in discussione questa ed altre ipotesi è il fatto che gran parte degli attacchi di panico si verificano in situazioni di assoluta calma: mentre si guida, o si scrive, prima di addormentarsi o nell’adempimento di gesti consueti, come le abluzioni o le altre pratiche igieniche. Anche le osservazioni dei comportamentisti ci riportano però a collegare la situazione di panico con il pericolo mortale.

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La morte è stata sempre presente alla filosofia; nei nostri tempi i grandi filosofi, sadomasochisticamente, se ne nutrono, fino a farla diventare il senso della vita. Per Heidegger l’esistenza umana non è altro che «vivere per la morte». Non che ci si debba suicidare, ma bisogna avere la consapevolezza della impossibilità di ogni possibilità di esistere. L’essere e il nulla si mescolano: non è il tempo il senso dell’essere, ma il nulla. La stessa impossibilità di esistere perché ci si scontra sempre contro un muro che non cela dietro di sé il mistero (come invece direbbe il poeta Montale) ma che schiaccia l’uomo sotto di sé è il senso della filosofia di Jasper, filosofo e «psichiatra». Questi due filosofi richiamano però l’uomo, invitandolo a non rifiutare nella filosofia, come nelle scienze, la presenza dell’assurdo.

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Dietro il mondo c’è soltanto l’impossibilità di continuare a vivere: noi viviamo perché moriremo; che senso ha però vivere per morire? Che senso ha essere avendo come fine il non essere? Già la filosofia greca ha tentato di risolvere questo assurdo. Io adoro la filosofia però ne riconosco l’assurdità nella grandezza: si pensi ad Eraclito che dice che tutto si muove, non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua. Cosa significa se non che tutto è già finito, che qui ed ora noi siamo già morti, nessuno può fermare l’istante? Parmenide ha in fondo detto lo stesso con l’opposta teoria dell’immobilità assoluta dell’universo. Per l’uno come per l’altro siamo già tutti morti. Non si può fermare il tempo, il nulla è presente contemporaneamente all’essere. Questo è l’assurdo della filosofia e della coscienza. Questo assurdo si radica nell’inconscio di ciascuno, e di qui sorgono l’ansia e il panico. La psicoanalisi ha tentato di razionalizzare dando spiegazioni meccaniche esemplicistiche e allora ha parlato di desideri rimossi: incesto, omosessualità e mille altri, che sono non solo in ciascuno di noi, ma fanno parte dell’inconscio sociale del mondo in cui viviamo. Ma sotto questo primo strato dell’inconscio vi è secondo me un secondo livello che la psicoanalisi deve cominciare ad affrontare: l’assurdo. Perché la vita è assurda.

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Ancora più in profondità c’è l’interrogativo su cui l’assurdo si regge: Io perché esisto? Perché proprio Io esisto? Più che la somministrazione di qualunque sostanza chimico-farmacologica basta a procurare a chiunque una crisi di panico un semplice esperimento che consiste nel far ripetere ad una persona più volte ed ossessivamente il proprio nome: era questo un giochetto sadico che io facevo spesso in gioventù, quando non amavo ancora a sufficienza i miei simili. Una opinione errata è anche quella per cui si crede che siano più soggette ad attacchi di panico le donne degli uomini: sono soggetti nella stessa percentuale, sebbene i maschi lo confessino di meno; anche questo è un condizionamento dell’inconscio sociale. É vero che le crisi di panico sono quasi sempre precedute o seguite da forme depressive; forse per questo gli anti-depressivi si rivelano efficaci nel combattere il panico. Io penso inoltre che non sia vero che le benzodiazepine siano inefficaci negli attacchi di panico e servano tutt’al più contro le cosiddette ansie diffuse, come affermano tutti gli autori. Nella mia esperienza clinica si sono rivelate utilissime, purché associate al trattamento psicoterapeutico del profondo. Non dovrei poi dirlo ma so che la cura più efficace contro gli attacchi di panico è l’assunzione di alcool, ben dosato anch’esso e di buona qualità.
Ci sarebbe molto da dire sull’uso terapeutico delle bevande alcooliche, ma non è forse ancora il tempo. Sotto il rimosso, sotto l’assurdo c’è dunque la disperazione. A cosa può quindi servire la psicoanalisi? Può solo avere la funzione consolatoria, proprio come Freud non voleva che fosse! Bisogna allora che la psicoanalisi si rinnovi e si rifondi su altre basi. Seppur oscuramente io ho accennato su quali. Questo che faccio è per ora un discorso a capo coperto; spero che presto potrò anch’io scoprire il capo, come fece il vecchio Socrate.