55 – Luglio ‘89

luglio , 1989

Addio a Spoleto.

Dopo cinque anni consecutivi e dieci numeri speciali «interamente dedicati a Spoleto e al suo Festival» i due Farfalloni lasciano il campo e considerano chiuso un capitolo.
Le ragioni sono molte; ma determinanti sono soprattutto l’impossibilità di continuare a svolgere una tale mole di lavoro ora che gli impegni si sono moltiplicati su più fronti e la caduta di interesse per un’operazione che complessivamente non è più in grado di darci nulla, che culturalmente rischia di diventare sterile.
Noi due: Sandro Gindro e Renzo Rossi, ci assumiamo tutta la responsabilità di quanto abbiamo scritto, nel bene e nel male, in questi anni, ma siamo ben consapevoli che ciò è stato reso possibile dallo sforzo comune di un gruppo veramente considerevole di collaboratori che hanno lavorato vicino a noi in ogni fase operativa:
dall’andata in stampa alla diffusione della rivista. Sono ragazzi e ragazze che lo hanno fatto per amore, affrontando anche il sorriso di ironico compatimento di chi certi argomenti non li ha mai capiti. Abbiamo fatto cenno ad una caduta di interesse: infatti ci domandiamo se il Festival dei Due Mondi sia ancora capace, oggi, di assolvere quell’importante funzione culturale che ebbe al suo nascere per il nostro Paese. O piuttosto non abbia accettato di soggiacere ad un colonialismo culturale che non ha voluto evolversi, un colonialismo che ha coinvolto la stessa città di Spoleto, i cui amministratori e i cui operatori turistici e culturali hanno preferito farsi mettere l’anello al naso dal Festival, rifiutando il confronto e rinunciando alla partecipazione; paghi magari di qualche dispettosa angheria, di qualche rospo fatto comunque ingoiare, con svantaggio di tutti. Persino con noi gli spoletini hanno rifiutato ogni confronto, sordi ad una voce che avrebbe potuto, nei suoi limiti, essere di mediazione tra due realtà che non possono soltanto continuare a cercare la reciproca sopraffazione. L’indice rivelatore più significativo di questo atteggiamento colonialistico è oggi la sponsorizzazione: sempre più ricercata e sempre più invadente, ma pessimamente contraccambiata da uno snobismo che le vuole negare ogni significato culturale e che la ripaga con una mondanità tanto fastosa quanto stupida.
Detto questo, abbiamo l’onestà di ringraziare gli amministratori del Festival dei Due Mondi che non hanno mai tentato di ostacolare il nostro lavoro e che anzi in molti casi si sono dimostrati disponibili con noi.
Dal funzionamento di alcune strutture noi abbiamo imparato moltissimo e questa esperienza certo ci servirà, quando sarà il momento di avanzare altrove le nostre proposte artistiche, culturali e scientifiche; in città speriamo più agguerrite culturalmente e meno facilmente colonizzabili, più aperte al confronto, che è lotta, ma è anche speranza di crescita.
Chi ha fondato il Festival dei Due Mondi ha compiuto un gesto di grande coraggio civico e culturale, è un peccato che negli anni questo coraggio sia andato perdendosi per strada insieme con la virtù della cortesia. Ci vuole coraggio ad essere cortesi, ce ne vuole moltissimo ad esserlo ugualmente con coloro che si temono e coloro che non si temono. Chi oggi dovrebbe essere l’incarnazione dello spirito del Festival si è chiuso in una presunzione vile che ossequia quelli di cui può temere il giudizio e ignora il giudizio di chi – davvero o in apparenza – potere non ne ha.
Sadomasochismo e narcisismo sono l’espressione malata del mondo e sono presenti a Spoleto massicciamente. Un sadomasochismo che si esprime soprattutto attraverso il pettegolezzo, ansioso solo di dire male di tutto e di tutti: una critica costante di ogni scelta coraggiosa e il rifiuto di ogni solidarietà, che non sia solo piaggeria. Lo hanno ben sperimentato i due Farfalloni che si sono trovati di fronte solo difese tracotanti o accettazioni sufficienti, quando hanno sposato, per amore o per convinzione, le loro cause a favore o contro qualcosa. Il narcisismo, invece, si manifesta clamorosamente in ogni situazione e in ogni luogo: sempre è un esibirsi e non guardare, un parlare e non ascoltare; gli artisti al Festival perdono la loro battaglia quando per debolezza si adeguano alla realtà posticcia di questi «incroyables» e di queste «merveilleuses» che sotto le abbronzature nascondono la rapacità di belve. L’arte arriva sana a Spoleto, qui si ammala perché non è amata, ma è solo corteggiata e qualche volta stuprata; ma l’arte è portatrice di salute; attraverso l’amore per l’arte si può guarire dal sadomasochismo e dal narcisismo, forse un giorno questo sarà capito anche a Spoleto e al «suo» Festival.

Proprio perché partire è un po’ morire abbiamo voluto ancora una volta sederci con una matita e taccuino in una poltroncina di teatro, a riflettere su quello che avviene sulla scena, riconoscenti del privilegio concessoci di cercare di fame partecipi anche altri, attraverso poche righe di cronaca «diretta».
Giovedì 29 giugno si è inaugurato a Spoleto il XXXII Festival dei Due Mondi con l’allestimento al Teatro Nuovo dell’opera I racconti di Hoffmann di J. Offenbach, sul libretto di J. Barbier e M. Carré, tratto da tre racconti dello scrittore e musicista tedesco E.T.A. Hoffmann (1776-1822).
Sebbene sia empio chiamare il compositore tedesco-parigino «il Mozart degli Champs Elysées» rimane il fatto che è, a nostro avviso, uno dei più grandi compositori dell’ottocento europeo. Geniale e ironico, è stato capace, attraverso le sue portentose operette, non solo di descrivere con grande pregnanza poetica la Francia del Secondo Impero, ma anche di penetrare nelle profondità dell’anima universale. Le sue fantasie mitologiche su Orfeo o Elena o le esotiche divagazioni sulla Perichole gli permettono di costruire momenti teatrali quasi perfetti, in cui la musica di sapientissima fattura è strettamente congeniale all’azione. Le sue melodie di immortale bellezza e le sue orchestrazioni raffinate ed efficaci fanno ormai quasi parte del nostro inconscio sociale. Le sue famose danze, marce, romanze e barcarole ruotano nella mente di noi tutti, diventate non solo emblema di un’epoca, ma anche espressioni di una straordinaria capacità di comunicazione attraverso la magia del linguaggio musicale.
E arcinoto quanto gli sia costato, emotivamente ed artisticamente, comporre la sua unica «opera seria», che dovette persino lasciare incompiuta nella strumentazione, che fu poi egregiamente condotta a termine dal compositore francese-americano Ernest Guiraud (1837-1892) Offenbach ben sapeva di non essere solo il compositore di una società frivola di acidi signori in marsina e pettegole dame piumate; ma nonostante il valore della sua musica l’etichetta di famosissimo musicista quasi leggero non riuscì a scrollarsela di dosso, neppure con questi «Racconti di Hoffmanm».
In quest’opera la musica non tradisce la demoniaca drammaticità dell’arte del poeta tedesco, ma dà una sua lettura di quelle atmosfere. Mantenendo tutta l’intensità poetica dei tre racconti, il musicista vi aggiunge un’affiorante concezione dell’esistenza, amara ed aggressiva.
L’allestimento spoletino ci ha lasciato molto perplessi: innanzitutto la regia è, a dir poco, ridicola ed invade anche gli spazi musicali se, per esempio, è del regista Luigi Samaritani la sciocca trovata di inserire, dopo le prime battute d’orchestra dell’incipit (non si può chiamarla ouverture) un accordéon che suona la barcarola dell’ultimo atto, dando fin da subito al tutto una insensata e stucchevole atmosfera di film francese di trent’anni fa. Inoltre pensiamo che un regista di un’opera in musica dovrebbe rispettare le esigenze dei cantanti anziché costringerli a faticose emissioni di voce mentre si rotolano su lettoni, strisciano sul palcoscenico o suonano il violino sdraiati supini su di un pianoforte. Tutto questo ci pare ancor più ridicolo dello sproloquio scenografico fatto di fumo, tendaggi, piramidi, flabelli, figure sdoppiate che citano continuamente qualcuno o qualcosa e dell’ingombrante plastico del parigino Palais Garnier ridotto a macchina scenica tuttofare.
La direzione del giovane David Stahl è stata dal suo canto semplicemente pessima:
forse influenzato dal cognome del compositore, ha indotto i musicisti della Spoleto Festival Orchestra a seguirlo nel tentativo, per fortuna non completamente riuscito, di ridurre tutta la musica a pesanti strimpellamenti da birreria di Norimberga.
Così è andata completamente perduta la virtuosità di cesellatore di Offenbach: i forti e i piano della parti tura non giungevano quasi mai preparati da crescendo e diminuendo adeguati; inoltre spesso i fiati coprivano gli archi; le bellissime melodie venivano «squadrate» da accenti troppo evidenziati e le modulazioni affrontate col piglio così tracotante davano al tutto sonorità bandistiche. Solo nel secondo atto c’è stata a nostro avviso una maggiore attenzione nelle coloriture con risultati di migliore espressività. I cantanti ci sono parsi quasi sempre all’altezza della situazione, capaci anche di recitare i loro ruoli in modo persuasivo; su tutti ha brillato Veronica Villarroel (Antonia) dalla voce squillante e morbida, ottima nell’emissione del fiato. Elizabeth Vidal (Olympia) si è districata abbastanza bene tra le insidie vocali del personaggio, malgrado un certo piglio da virtuosa di provincia. Isola Jones (Giulietta) ha esibito una voce forte e rotonda, con qualche acerbità e talvolta un po’ imprecisa nell’intonazione. Brenda Boozer (Nicklausse) se l’è cavata più che discretamente, sebbene ci abbia lasciato perplessi la sua scelta di cantare sempre a gola troppo aperta. Barry McCauley (Hoffmann), è stato di rendimento discontinuo, qua e là distratto e farfugliante, in altri momenti più teso ed aggressivo. Alan Held nel triplice ruolo dei malvagi Lindorf, Coppelius e Mirac1e ha offerto tre discrete interpretazioni vocali, anche se gli avrebbe giovato maggiore espressività. Gli altri componenti del cast erano Oslavio Di Credico, Pilar Mufioz, Daniela Broganelli, Jerold Siena, Ubaldo Carosi, Gabriele Monici e Craig Denison. Gradevoli gli interventi del Westminster Choir diretto da Glenn Parker.