Archivio di dicembre 1987

Psicoanalisi contro n. 38 – Idee chiare e indistinte

martedì, 1 dicembre 1987

Un sistema di pensiero è riconoscibile non soltanto perché coloro che lo hanno costruito sono riusciti a dargli un nome, ma anche quando nel suo interno mantiene un certo grado di organizzazione. Noi siamo abituati a grandi sistemi filosofici, scientifici e religiosi che cercano di darsi un’identità di base e di costruire su di essa relazioni significanti. Correnti politiche ed artistiche radicando le loro affermazioni sul sociale, su nostalgie del passato, sulle intuizioni più o meno coordinate di qualche maestro riconosciuto, hanno agito nel mondo e sulla storia con interventi talvolta incisivi, altre volte più inconsistenti. Anche singoli ricercatori, pensatori ed artisti, benché in apparenza solitari, hanno lavorato collegandosi, con fili sottili, a sistemi di pensiero più ampi. Alcuni di questi singoli pensatori e alcune correnti paiono immobili come se chiosassero continuamente due o tre affermazioni che ripetono per tutta la vita; altri invece sconvolgono continuamente i loro criteri di giudizio con specie di cataclismi successivi che ribaltano gli elementi acquisiti. Negli uni e negli altri comunque rimane reperibile un sia pur celato principio unitario. È anche successo che alcune figure abbiano fatto della loro vita l’espressione di un pensiero che, in seguito, discepoli, più o meno fedeli, hanno tentato di trasformare in teorie organiche.
Un esempio per tutti è quello di Gesù, il Nazareno, il quale visse, parlò, predicò e mori e di cui i discepoli dicono che anche risorse ed ascese al cielo, di dove tornerà per «giudicare i vivi ed i morti».
I padri apologisti per primi iniziarono un’organizzazione sistematica del suo pensiero, attingendo a piene mani dall’humus della cultura greca da cui erano stati formati; dopo vennero i padri della chiesa a tentare di sistemare filosoficamente un bagaglio teorico già divenuto antico e fin da allora si originarono le diversità delle interpretazioni, le differenziazioni, le letture particolari, le eresie. La parola del Gesù era più organica e vitale quando veniva pronunziata in Galilea e raccolta da Pietro, Giovanni e gli altri che lo vedevano vivere ed agire? Oppure nelle sistemazioni successive, che magari hanno travisato lo spirito e la lettera della sua parola, il significato della sua vita, ma che pure hanno dato a quel suo pensiero seguito ed organizzazione? Chi ha interpretato giustamente quelle parole e quel pensiero? Come ciò che lui ha detto è stato riferito da quelli che lo hanno udito e quali vangeli sono legittimi quali no? Certo questo dell’autenticità dei quattro libri sinottici è un problema che si sono posti in molti, ma tutti hanno il diritto di dubitare, di porsi problemi. La storia delle varie teologie cristiane non presenta certo un carattere di unitaria compattezza.
Ci sono voluti i dogmi per fissare basi certe e salde; ma hanno più valore di verità quelli stabiliti nei concilii, oppure quelli che ciascuno trova all’interno della propria coscienza?
Anche quelli che non vogliono che la chiesa del Cristo sia un’organizzazione visibile, ma semplicemente l’unione di tutti i fedeli, sono in fondo dogmaticamente certi che Cristo sia figlio di Dio e che l’unione dei credenti sia direttamente illuminata dalla grazia divina; ma cosa è la grazia? Ho citato l’esempio del Cristo e degli atteggiamenti religiosi che hanno avuto origine da lui.
Tommaso d’Aquino, il doctor angelicus, scrisse la sua Summa contro gentiles. I gentili dove sono? Stanno ascoltando forse altri maestri?

2.
Le stesse teorie scientifiche non hanno senso se non sono inserite in un sistema completo, fondato su ipotesi e convalidato da prove. La scienza mira non solo alla descrizione dei fenomeni, ma alla loro comprensione, anche se sono convinto che, tutto sommato, descrizione e comprensione coincidano.
La descrizione corretta di un fenomeno ne implica anche la comprensione, senza la quale la descrizione stessa non sarebbe corretta, in quanto si ridurrebbe a una serie di emozioni soggettive o a una disordinata collezione di dati. Comunemente si dice dunque che la scienza tenta di comprendere. Perché questa esigenza? Per poter controllare. La scienza, comprendendo, riesce a prevedere il divenire dei fenomeni e questa previsione è utile al controllo del fenomeno e delle sue conseguenze ed eventualmente a modificare corso e sviluppo di entrambi. La scienza è utile se riesce a modificare i fenomeni e le loro successive concatenazioni causali; se non fosse in grado di intervenire in questo senso, perderebbe molto del suo significato, sarebbe tutt’al più contemplazione; uno specchio che riflette la realtà, senza intervenire su di essa. Se tale specchio poi non fosse perfetto rifletterebbe immagini deformate della realtà stessa, ne farebbe cioè una esile parodia.
La verità sulla quale si fonda la comprensione, quella cui ogni ricercatore e ogni scienziato deve tendere, è irraggiungibile, ma deve essere ugualmente perseguita, malgrado tutti i rischi di fraintendimento. La verità è sempre oltre, ma nel viaggio verso il suo raggiungimento deve essere possibile la verifica della traiettoria; questo compito di controllo appartiene alla metodologia scientifica.
Se l’applicazione pratica di un’ipotesi riesce a rendersi utile all’uomo, noi possiamo dire che quell’ipotesi si avvicina ad una possibile verità. È impossibile dire se verità e utilità coincidano, ma, secondo me ci deve essere tra i due termini un collegamento. La possibilità di intervento va dalla pura e semplice previsione – quella dei fenomeni atmosferici per esempio – in base alla quale modificare i comportamenti, all’intervento diretto sul funzionamento di un meccanismo – come quello dell’organismo umano – che apporta la correzione ritenuta utile al buon funzionamento.
In questo caso rientra l’intervento terapeutico divario tipo: farmacologico, chirurgico o psicologico.
Anche le psicoterapie – per tornare a quello che ci riguarda più da vicino – dovrebbero servire infatti a intervenire su un tipo di concatenazione causale, riuscendo a modificare e talora addirittura ad invertire i processi mentali: l’uomo, oppresso da sintomi psichici che lo tormentano, potrà così esserne, almeno in parte, sollevato e riacquistare la possibilità di un agire che, se non sarà necessariamente più libero, sarà almeno più felice. Potrà così affrontare il mondo con comportamenti adeguati, senza angosce e costrizioni dolorose.
La ricerca scientifica dice di basarsi su esperimenti, ma per secoli si è basata soprattutto sul ragionamento. Gli aristotelici credevano nei dogmi definiti dal loro Maestro: gli «ipse dixit» riferiti allo Stagirita ebbero valore di verità per secoli. Parallelamente è proseguito, a dispetto degli aristotelici, un metodo sperimentale praticato da filosofi e scienziati che hanno fondato la loro certezza sul dato empiricamente dimostrabile, rifiutando ogni diritto alla logica pura della ragione. Ciononostante i razionalisti hanno ugualmente perseverato nella convinzione che ogni verità potesse essere razionalmente dimostrabile fino a credere di aver dimostrato anche l’esistenza di Dio.
Il mistico e poetico Anselmo d’Aosta, arcivescovo di Canterbury e il lucido e spietato Renato Descartes hanno pensato, a distanza di secoli, di poter produrre quella prova dell’esistenza di Dio, che la tradizione ha chiamato «ontologica», fidando solo nella capacità del pensiero. Dio esiste: lo stesso concetto di Dio implica necessariamente la sua esistenza, l’essere di cui non si può pensare uno maggiore deve anche possedere necessariamente la prerogativa dell’esistenza, se no un essere analogo, con in più l’esistenza, sarebbe Dio in sua vece. La necessità logica era soddisfatta in questo modo. Quanto è valida la contestazione illuministica e kantiana secondo la quale l’esistenza non rappresenta di per sé una maggior perfezione? Non si è aggiunto così un dogma per confutare un altro dogma? Dobbiamo credere a Kant? E se invece l’esistenza aggiungesse a un essere una perfezione? Qual è la prova sperimentale contraria?
Abbiamo evidentemente fatto un salto logico, passando da un discorso che cerca la sua conferma nei luoghi della sola ragione, ad un altro che cerca conferme tangibili e sperimentali. Chi ha però stabilito che la sperimentazione sia indispensabile a garanzia di una verità? Anche questo è un dogma. Oggi stesso una gran parte della ricerca scientifica non può ancora basarsi sull’esperimento, penso soprattutto alla fisica: molto si basa su processi di induzione e deduzione logica. Per questo non sarebbe scienza?
Ma chi lo ha detto? Dobbiamo ritornare all’antico «ipse dixit»?

3.
Se teoricamente la scienza è quanto mai contraddittoria ed ambigua e la sua verità troppo spesso assomiglia ad una menzogna, perché non ci rivolgiamo dunque all’arte come più adeguato tramite verso la verità?
Le correnti artistiche possono, è vero, avere anch’esse i loro dogmi, ma ormai siamo abituati da sempre a considerarli affermazioni più o meno provocatorie di qualcuno che cerca di imporre il suo modo di comunicare secondo una delle possibilità d’espressione. I dogmi dell’arte si chiamano canoni. Da Policleto in avanti, artisti singoli, botteghe e scuole hanno dato i loro canoni, ma essi sono così provvisori e caduchi che le regole che ne derivano sono ferree solo in apparenza. Dogmi estetici e canoni si scontrano e continuamente si infrangono. Se si osserva il divenire dell’arte, non si riesce neppure a capire se realmente essa abbia mai registrato progressi. Sono stati raggiunti in ogni epoca vertici altissimi e ad ogni epoca sono susseguiti disorientamento e confusione. Nuovi linguaggi sono poi scaturiti, il tutto intrecciato indissolubilmente alle condizioni ambientali e sociali. Non si riesce neppure a capire se l’arte sia serva della storia, anzi addirittura vittima o se non sia piuttosto la sola che riesce ad esprimere nel modo più profondo il significato di un’epoca. Nell’arte sembra esserci maggior libertà, proprio perché i suoi dogmi sono così fragili. Ma quanto è vero che gli artisti e le correnti artistiche siano così legati all’effimero e all’immediato? Vi è addirittura chi pensa – e io sono fra questi – che alcune opere d’arte ed alcuni artisti abbiano raggiunto l’assoluto. Non so dire cosa sia l’assoluto, uso volentieri questo termine proprio perché è poco chiaro anche a me stesso; però è la sola parola che riesce forse a comunicare il concetto di qualcosa che «va oltre».
Nel suo significato più ovvio, filosofico e metafisico l’assoluto designa opere d’arte che sono immortali, hanno cioè conquistato quel grado d’immortalità che l’uomo riesce a concepire e che durerà quanto lui e poi scomparirà forse con l’esplosione di questo universo. Ciò non toglie che alcune opere resteranno immortali anche quando non saranno più viste ne udite da nessuno. Rimarranno come un ricordo, anche nel non ricordo, come una traccia dell’essere. Resteranno nella memoria dell’essere, perciò godranno di un’immortalità che trascende il ricordo che se ne potrà avere. Come si può dunque sostenere che l’arte sia legata all’effimero, che possa vivere solo lo spazio di un mattino, per poi appassire e lasciare spazio alle altre rose che fioriranno? È anche vero che l’arte vive nel caos e del caos, si estrinseca nel quotidiano sebbene tenda a superarlo. Questa sua interna contraddizione potrebbe essere ciò che la renderebbe la più adatta ad esprimere la situazione del mondo quale è. Io penso che sia così, sebbene sappia che il mio amore per l’arte mi fa spesso vaneggiare. Le espressioni artistiche, ad ogni modo, traducono in linguaggio un mondo e si fondano su di una visione dello stesso mondo che esprimono. Le regole esplicite, le discussioni estetiche, le elucubrazioni poetiche, non sono altro che vezzi e corollari.
Una corrente artistica o una singola opera esprimono comunque una weltanschauung proprio come la scienza e la religione. C’è di fatto qualcosa di diverso? La verità che l’arte presuppone è forse meno rigorosa? Io penso proprio di no; ma so di essere parziale e metto in guardia chi mi legge: semplicemente credo che sia più profonda, vada più addentro nel mistero, sveli più di quanto non facciano le scienze e le teologie.
La verità che l’arte presuppone non è più degna ne meno degna. L’arte è forse emotività, ribellione, fantasia; ma è anche regola, sottende un’ipotesi di vita, di uomo e di mondo, che lo si voglia o no. Anche gli artisti come i filosofi, gli scienziati e i teologi debbono partecipare di un sistema riconoscibile, infatti se non sono riconoscibili, neppure sono.

4.
È ora il momento di parlare di filosofia: quell’attività dello spirito che viene ritenuta più ponderata e pacata, malgrado le accese discussioni da cui è sempre stata caratterizzata. La filosofia nell’opinione comune, ha un che di esangue, idea spesso rafforzata dalla burocraticità con cui molti pseudofilosofi si esprimono. I filosofi dovrebbero essere i saggi che guardano il mondo, lo comprendono e lo raccontano. A chi? Non si sa. Purtroppo, da quando la filosofia è insegnata nelle scuole di stato i filosofi parlano attraverso i professori di storia della filosofia che si sbavano addosso o che si rivolgono a gruppi di ragazzi annoiati e distratti. I professionisti della filosofia, dal canto loro, scrivono libri che vengono letti solo dagli «addetti», i quali, per lo più, non leggono più di quanto offra loro lo spunto per una trita polemica. C’è anche qualche filosofo che «sfonda» la barriera dei meschini circuiti universitari, ma diventa allora per lo più un Pulcinella al servizio dei grandi mezzi di comunicazione: si esibisce con libercoli facili, banali, in cui apparentemente la filosofia è tradotta in buon senso, ma in realtà si limita alla pura e semplice «chiacchiera», diseducativa e mercificata. Solo pochissimi riescono a sfuggire a tutte queste trappole e a dire parole graffianti, dure, o capaci di dare speranza senza falsi pietismi, riuscendo così a non tradire la loro natura di filosofi. La filosofia però si è smarrita nelle questioni editoriali e nella concorrenzialità da rotocalco, oggi forse un po’ più di ieri, benché questa commistione di serio e di frivolo la abbia sempre caratterizzata. Chi sono i filosofi? Socrate era un maestro del dubbio, Platone un politico, Kant ed Hegel erano scienziati, Nietzsche un poeta rivoluzionario. Marx è stato un filosofo? Francesco d’Assisi non ha fornito con precisa e puntuale chiarezza una descrizione del mondo e del significato dell’uomo? Le teorie di Smith e Ricardo sono soltanto economiche? Darwin e Einstein sono soltanto scienziati? Gli scritti di Paul Klee rappresentano puramente lo sfogo di un artista? Le lucide parole di P. P. Pasolini erano solo la voce di un poeta? Che cosa è la filosofia? È difficile dirlo, non meno che della religione, della scienza e dell’arte, anzi forse è più difficile ancora.
Potremmo dire che la filosofia non è mai esistita, che è sempre dissolta in tutte le attività teoretiche e pratiche dell’uomo. O anche si potrebbe ridurre tutto a filosofia. Alcuni hanno detto che la filosofia è metodologia, ma distinguere il metodo da ciò di cui deve essere metodo è un puro delirio: il metodo non esiste al di fuori di ciò che cerca di sistematizzare. La stessa scelta di un metodo piuttosto di un altro è già una scelta filosofica, che precede il metodo stesso. Diventa allora una scelta esistenziale analoga alle scelte dell’arte, delle scienze e della religione. La filosofia sarebbe allora solo un tentativo di esprimere con coerenza un pensiero; ma a questo punto, sembrerebbe esaurirsi nella logica.
Si potrebbe dire che non esistono nemmeno i filosofi, ma solo che ci sono uomini di pensiero come Aristotele, o uomini di azione come Lenin ai quali viene riconosciuta o negata di volta in volta la qualifica di filosofo. I teorici delle varie brigate, rosse o nere, sono filosofi? Perché no? Chi ha detto di no? Gli studenti annoiati che cercano di imparare le formulette della libresca storia della filosofia, hanno torto quanto pensano : «Ma i filosofi sono tutti imbecilli?» Malgrado tutto bisogna rispondere che non è così, che gli imbecilli sono loro e taluni loro insegnanti: non sempre i giovani sono il sale della terra.

5.
La filosofia, giustamente, nel tentativo di trovare una propria identità e di difenderla, ha costruito talora sistemi ferrei che hanno tentato di mantenere soprattutto una loro coerenza interna. Hanno parlato del mondo, della vita, dell’amore, della morte, dell’arte, della scienza, della religione e della stessa filosofia, dello spirito assoluto, di un tutto che non coincide con il niente e che significa, in questo caso, molto, benché resti fuori ancora molto altro… Qualcuno ha pensato che questi sistemi rischiavano di essere troppo compiaciuti narcisisticamente di se stessi e tronfi, quindi incapaci di cercare davvero la comunicazione con l’altro da sé. In parte ciò è vero e per questo c’è stato chi ha sentito il bisogno di enunciare il concetto di pensiero debole: un pensiero che non crei grandi sistemi. Di fatto il pensiero debole non sembra neppure essere un vero e proprio pensiero, ma piuttosto una successione di parole che trova la propria coerenza soltanto nel pettegolezzo; meglio se rivolto contro il cosiddetto pensiero forte. La filosofia si propone così come ciancia, più inconsistente che mai, dal momento che un pensiero forte non è mai esistito davvero.
La filosofia è sempre stata pensiero debole perché non ha mai davvero saputo trovare una sua identità. Il pensiero che si autodichiara debole non fa che affermare questo scacco e questa mancanza.
Quello che è in parte riuscito ad arte, scienza e religione non è mai riuscito alla filosofia. I filosofi hanno guadagnato un’identità solo come personaggi da commedia e nei programmi ministeriali.
La filosofia è sempre stata un pensiero debolissimo, come sono deboli tutti coloro che non hanno identità. La crisi di identità degli individui mette in forse tutta la persona: il genere, l’età, la qualità, la quantità. Un uomo in crisi di identità non sa dove è il suo centro e non riesce ad agire nel mondo e neppure ad entrare in rapporto con se stesso; il suo pensiero è debole, debolissimo.
Lo stesso vale per tutta la filosofia, che, però, proprio in questa debolezza ha la possibilità di trovare la sua forza; perché non morirà mai, finché qualcuno avrà il coraggio, di pensare e di parlare.
Ho parlato di sistemi scientifici, religiosi, artistici e filosofici; ho detto che nella loro ambiguità tutti tentano, volenti o nolenti, di proporre una visione del mondo. Alcuni partono dal mondo e vanno verso l’uomo, altri viceversa. L’antropocentrismo è inevitabile per l’essere umano: pensare fuori della mia testa, del mio corpo non mi è possibile.

6.
La psicoanalisi freudiana ha diviso la persona in Io, Es e Super Io; una parte della successiva psicologia dinamica ha scelto l’Io per farne il centro della sua ricerca. Personalmente preferisco far coincidere l’Io con l’individuo nel suo insieme: così vuole la nostra cultura, così siamo abituati da sempre. Con la parola io si esprime al meglio una realtà molto ricca. Io sono io, dalla testa ai piedi, l’io non è dentro di me, ma io sono l’io. Ogni sistema quindi coincide sempre con l’io o gli io che lo hanno pensato.
Il mio lungo lavoro clinico mi ha portato a conoscere situazioni umane disparatissime e talvolta tremende, eppure non ho mai trovato un io totalmente disgregato, una persona completamente senza io.
Esistono due forme patologiche temibili, che entrambe derivano da una sovrapposizione delle difese fondamentali del narcisismo e sado-masochismo. Una forma riduce l’io ad essere rigido, compatto, sterile perché quasi privo di parti, dall’agire limitato a pochi schemi elementari ripetuti disperatamente (forse la disperazione connota un nobile sentimento, preferisco quindi dire ripetuti banalmente): i soliti gesti, i soliti pensieri ogni giorno, ogni notte gli stessi sogni. Così da quasi sempre – nessuno nasce così povero – lentamente l’io si è andato impoverendo, si è rattrappito nella sua rigidità. Fortunatamente nessun uomo riuscirà mai a distruggere completamente la propria umanità; quindi, nascosto nel profondo del più misero e banale io, c’è sempre un universo di desideri, raggelato, castrato, assopito, anche se forse non verrà mai all’esterno. L’altra grave forma patologica genera un io totalmente disperso, spappolato, disarticolato, senza orientamento. Tanti pensieri che sorgono e si distruggono, tanti desideri senza forze. Persone che iniziano mille attività e poi le interrompono, che avrebbero mille fantasie, ma che non sono capaci di seguirle, e che talora giungono a un vero e proprio delirio di depersonalizzazione. L’io non è più un io, non è neppure un io molteplice, è solo una miriade di frammenti che vagolano indistinti. L’unico sentimento è la paura, il bisogno costante di nascondersi e di mimetizzarsi, per essere più cose possibili ed essere il meno possibile. Neppure queste due gravi patologie mancano però di una organizzazione dell’io. L’essere umano non può esistere senza una organizzazione di sé anche minima, senza strutturarsi in qualche modo, per miserevole o disperso che sia: una gestalt è sempre rintracciabile purché si abbia voglia di andarne alla ricerca.
Certo non è facile cogliere il significato di questi io; chi però si è assunto il compito e si è arrogato il diritto di essere terapeuta deve lavorare per sciogliere ciò che è rattrappito, per ricompattare ciò che è troppo disperso, aiutando chi è giunto alle soglie della disumanizzazione ad avere voglia di ricominciare, da uomo che ama e lotta, da uomo insomma.
Ogni visione del mondo per malata che sia è un continuo rimando tra l’io e il mondo che ha bisogno di una qualche coerenza. Non è possibile infatti, ne agli individui ne ai sistemi, vivere senza un po’ di coerenza. L’incoerenza assoluta coincide con l’impossibilità di essere, di desiderare, di esistere. Ogni desiderio implica una visione del mondo, che sottintende un’ipotesi di verità. Tutti gli esseri umani hanno una visione del mondo che, per quanto labile e vulnerabile, è riconducibile però sempre ad una linea di orientamento. È questa una prigionia per l’uomo? Può darsi, ma io credo che questo sia l’uomo; perché non ho mai incontrato uomini che fossero diversi. E impossibile sfuggire alla necessità di una minima coerenza del pensiero. Sebbene nessun sistema sia chiuso, ed ogni teoria sia formata di frammenti di teorie provenienti da altri sistemi, una forma tende però sempre a costituirsi e ad essere riconoscibile. La forma non è chiusa in se: la monade leibniziana è una fantasia, io credo che nessuno sia veramente un’entità chiusa, anzi ritengo addirittura che nessuno isolatamente potrebbe essere compreso al di fuori della relazione. Nessuno si esaurisce in sé, ma ciascuno si costruisce in forme ad un tempo leggibili ed interagenti. Questo vale per tutti e per tutto: siamo prigionieri e liberi, impossibilitati alla contraddizione e all’incoerenza assolute.

7.
Da quanto ho detto finora consegue però anche come sia difficile trovare un sistema di pensiero pienamente coerente. Un pensiero totalmente organico e al tempo stesso privo di contraddizione dovrebbe potersi esprimere con una sola parola che non so quale potrebbe essere. Però anche una sola parola ha in sé significati molteplici che potrebbero contraddirsi l’un l’altro. Subito dopo la possibilità della parola unica ci sarebbe quella della tautologia, ma nessuna tautologia è mai solamente tautologia: la ripetizione produce almeno una circolarità, quindi un mutamento e un divenire possibile. Può darsi che tutti i sistemi di pensiero non siano altro che gigantesche tautologie che però non sono totalmente coerenti. Non esiste un sistema che non abbia in sé la contraddizione da qualche parte.
Dopo essermi reso conto della confusione che ho creato vorrei fare una digressione forse utile a chiarire. La lingua italiana usa il termine coerenza in due diverse accezioni: la prima è quella di cui mi sono servito finora, ed indica l’armonica e consequenziale organizzazione logica all’interno di un sistema di pensiero. Nell’altra accezione il termine coerenza ha una connotazione accentuatamente morale, di perseveranza in una convinzione e di comportamento conseguente.
Quando io parlo di coerenza mi riferisco alla prima accezione. Un ragionamento assolutamente coerente sarebbe quello la cui proposizione conclusiva scaturisce direttamente come logica conseguenza del primo remoto punto di partenza senza alcun iato o scarto. Questa coerenza non può rivendicarla nessuno. Solo la singola parola potrebbe essere in questo senso davvero coerente; ma se il cammino prosegue e la ricerca si fa ardita, la contraddizione diviene inevitabile. L’incoerenza è costitutiva del pensiero umano quanto la coerenza. Chi pensa, procede per balzi intuitivi, ben diversi dalle idee chiare e distinte. Questi balzi scavalcano abissi la cui profondità non è misurabile. Ogni sistema è ricco di contraddizioni e procede per balzi logici. Gli esempi potrebbero essere infiniti, attinti dalle antiche teologie o dalle più moderne estetiche. L’esempio più chiaro è però secondo me ricavabile dalla lettura delle righe cha ho finora scritto. Può essere un mio limite tanta contraddittorietà, ma non è che un problema di quantità, non certo di qualità.
Le religioni positive, quelle che hanno il coraggio di esporsi, ( non quelle che un po’ vilmente rimangono chiuse nel cuore degli uomini, che preferiscono inventarsi un dio e una religione personali, circoscritti e silenziosi ) che hanno il coraggio di proporre ad alta voce i misteri della fede, esprimono l’accettazione dell’impossibilità di andare oltre. Nondimeno: è legittima la pretesa di salvezza nella fede, sia pur basata su piccoli dogmi, su tenere tradizioni, o è più giusto pretendere di andare oltre quel limite rischiando magari lo smarrimento?

8.
Ho cominciato parlando di religione e con essa concludo. Nessuno creda che la religione, per quanto positiva, basata su dogmi e riti, non sia anche ricerca. Anche le più stantie formulette non sono solo inerti frasi. In esse c’è un possibile senso della vita.
Concludendo: è più importante la coerenza o l’incoerenza per un sistema di pensiero? La verità dove si nasconde? È molto facile e riduttivo affermare che coerenza ed incoerenza convivono in ogni pensiero.
Senza la coerenza infatti nulla sarebbe identificabile e riconoscibile, senza l’incoerenza però non sarebbe possibile procedere, poiché il ragionamento umano non è in grado di procedere esclusivamente per idee chiare e distinte. Nella contrapposizione dialettica di questi opposti un pensiero può esprimere una visione del mondo, può distendersi verso gli altri. Non bisogna avere timore ne dell’incoerenza ne della coerenza; bisogna solo temere la coerenza che diventa gabbia e l’incoerenza che diventa delirio spontaneista. Mi viene alla mente la possibilità di usare il termine di coerenza nella sua seconda accezione: di fedeltà ai propri principi esistenziali; cosa difficile quanto più è contraddittorio il sistema di valori cui facciamo riferimento.
Questo della coerenza come fedeltà sarà oggetto di una indagine successiva, per ora resta in me l’esigenza profonda di cercare di esprimere, anche nel quotidiano vivere, quello che vado dicendo, la mia filosofia, la mia scienza, la mia arte e la mia religione; accettando, senza eccessivo turbamento la contraddizione che è in me e fuori di me. Sembrerebbe allora che io riservi alla coerenza il diritto di supremazia in campo morale, ma qui si ferma per ora il mio dire; anche se il cammino è da riprendere.

38 – Dicembre ‘87

martedì, 1 dicembre 1987

L’ultimo concerto di Nuova Musica Italiana 4, organizzato da RAI Radiouno, Ministero del turismo e spettacolo e dalla Cooperativa La Musica, si è tenuto nella sala A del centro RAI di via Asiago 10, giovedì 10 dicembre. Gran parte degli autori dei brani in programma era presente in sala e questo basta a dire quanto veramente si trattasse di una serata di musica viva, e noi aggiungeremmo anche giovane. Il primo brano in programma era il Concerto per archi di Guido Turchi, maturo musicista che ebbe tra i suoi maestri anche Pizzetti. La composizione in tre tempi è una costruzione molto sapiente, chiara, ma non ovvia, in cui l’autore rivela un intenso sentimento di amore-odio per il contrappunto e dove l’evidenziatissimo e sapiente pizzicato del contrabbasso acquista una caratteristica quasi concertante. Il primo tempo inizia con un dialogo dei violini e delle viole con i bassi e si sviluppa poi in bellissime melodie neo-romantiche proseguendo con momenti ora concitati ora compatti nei quali riaffiora però sempre una vena sentimentale. Il secondo tempo si articola in una successione di botte e risposte di cellule melodiche che, specialmente nei bassi, si dilatano in melodie più ampie. Il conclusivo terzo tempo, tutto intriso di idee musicali circolari, alterna nella parte centrale a un breve episodio in punta di piedi un accenno di marcia un po’ grottesca. Di Massimo Coen è seguito poi il Concerto grosso «Gennaio è primavera», per archi, un brano molto gradevole, oscillante sempre tra l’imitazione e l’ironizzazione del concerto grosso barocco. Le idee musicali molto vitali sono assai ben concatenate; soltanto ci è rimasto oscuro il significato, all’interno della logica della composizione, delle ultime misure del finale. Sillabe d’ombra, per archi, di Gianfranco Pernaiachi consiste di alcuni ovvi e ultra sentiti agglomerati sonori, separati da lunghe pause, che, messe insieme non arrivano a costruire nessuna parola. Gabriella Cecchi è una giovane spezzina che ha studiato anche con Donatoni, di cui abbiamo ascoltato Intersezioni per pianoforte. Il brano non è molto ben costruito e si muove a singhiozzo, le successioni accordali non sono organiche e i brevi accenni melodici ci sembrano un po’ risaputi. Qualche spunto interessante che pur si intravede è sommerso dallo scolasticimo, dal quale la invitiamo a liberarsi al più presto. Per pianoforte anche gli Otto Klavierstuéke, di Piera Pistono. Sebbene s’intraveda nei singoli pezzi e nell’insieme un tentativo di costruzione, sono però presenti tutte le banalità dell’atonalismo e dell’alea, in modo veramente eccessivo per una composizione di così breve respiro.
Del giovanissimo milanese Sergio Lanza abbiamo apprezzato Il ritorno di Gretchen ed altri racconti, per pianoforte; la sua è una scrittura pianistica efficace ed intelligente; il brano è affollato ma non stipato di gradevoli accordi, trilli, arpeggi e sapienti prospettive cromatiche. Con molto buon gusto il compositore fa ogni tanto brillare in questo affollarsi di spunti sonori una nota ripetuta, incastonata nel tutto, come una piccola gemma.
La Sequenza n. 2 per violoncello solo di Ruggero Lolini è una pagina musicale vuota e rinsecchita, alla quale solo la straordinaria bravura di Luigi Lanzillotta, col suo strumento ha saputo dare un senso.
Ha concluso la serata il Concerto delle divine battaglie per archi di Gaetano Giani-Luporini, compositore e pittore. All’inizio il guazzabuglio sonoro tenta disperatamente di aggrapparsi ad una nota, ma poi tutto si sfascia e affonda in una palude su cui galleggiano ronfare di contrabbasso, cigolii di porte, ronzii da sega elettrica che coprono anche le poche buone idee solistiche o d’insieme che pure ci sono. Gli archi del Gruppo Musica d’Oggi hanno dato un’ottima prestazione sotto la direzione di Fabio Maestri che ha condotto i brani a lui affidati con grande sensibilità e precisione. Il giovane pianista Marco Ciccone è sempre stato all’altezza del suo compito, sciolto, equilibrato e robusto; c’è parso capace di cogliere bene il senso della musica d’oggi.

38 – Dicembre ‘87

martedì, 1 dicembre 1987

Zingari

Si dice, senza troppo pensarci su, che gli italiani non sono razzisti. Ma poi ci si stupisce di vedere quartierighetto, lavoratori stranieri sotto-occupati e blocchi stradali e manifestazioni di protesta contro gli zingari. Gli zingari non piacciono come vicini di casa; e questo non è difficile da capire, anche perché dal canto loro non fanno molto per rendersi graditi. Ritorniamo al problema del razzismo, che le minoranze soffrono sempre sulla loro pelle, ma che si rivolge anche contro le maggioranze. Ogni piccola comunità discriminata dalla comunità maggiore, nutre per quella, a sua volta, razzistico disprezzo, giustificato magari dalla necessità di difendere la propria identità .
Il razzismo è stato sempre ed ovunque un grande problema: l’uomo è stato anche culturalmente rafforzato a credere nella diversità delle razze, così esplicita del resto in certi tratti somatici e nelle diverse colorazioni della pelle da rendere impossibile negarla. Cosa poi sia stato a spingere da sempre l’umanità a fare l’equazione: diverso = inferiore è problema di quasi metafisica portata.
Di fatto, il razzismo si appoggia poi a sentimenti che sono altro da sé: la difesa dei propri interessi, soprattutto economici, ma non soltanto. La politica poi induce costantemente il razzismo nell’opinione pubblica, sotto forma di odio per chi sostiene l’opinione avversa.
Non si tratta quindi di stabilire quanto fenomeni che paiono espressioni di razzismo siano effettivamente tali e non piuttosto episodi di una lotta inevitabile in ogni contesto sociale malato di conflittualità, ma di accertare quanto il razzismo sia presente, come causa o come effetto, nelle società di ogni tipo.
Gli italiani sono razzisti perché tutti gli uomini sono razzisti. Gli italiani però si sdegnano per il razzismo degli altri, e non solo per quello i cui effetti subiscono: bisogna infatti riconoscere loro il grande merito di avere effettivamente boicottato il razzismo antisemita imposto dal regime fascista. Tutto quanto si è detto sull’universalità del sentimento razzista non toglie ovviamente legittimità alla condanna di quelle situazioni di razzismo conclamato: perché evidentemente l’apartheid ha conseguenze più distruttive che la scelta del proprio vicino di casa e la discriminazione di un handicappato è peggiore dell’ironia su di un volto velato. I romani che hanno protestato contro gli insediamenti di nomadi sono razzisti; anche se la loro protesta era giustificata dalle condizioni di vita dei loro disagiati quartieri sovraffollati, nei quali è già fin troppo duro vivere e dove certamente quei campi creeranno nuovi e più gravi problemi di sopravvivenza. Questa volta è toccato agli zingari risvegliare la belva razzista che dorme dentro di noi; ma dorme mai veramente?

38 – Dicembre ‘87

martedì, 1 dicembre 1987

Dispiace mollo quando si incontra un giovane artista che ripete, stancamente, moduli triti e ritriti tanto da non essere neppure più un linguaggio, ma soltanto uno stilema. Indubbiamente l’originalità a tutti i costi non è meno triste ed inefficace, però almeno un tentativo di ricerca personale si dovrebbe sempre scorgere in un gruppo di lavori radunati per essere osservati dal pubblico. E anche probabile che nei lavori di Pietro Finelli, nato a Montesarchio in provincia di Benevento nel 1957, qualcosa di originale ci sia e siamo stati noi a non accorgercene, ma se proprio dobbiamo essere sinceri in quei fogli di carta e metallo non abbiamo trovato nulla che ci abbia anche un po’ interessato. Finelli comunque è un giovane artista proiettato verso il futuro ed è quindi possibile che sul suo cammino trovi anche’la possibilità di una riflessione critica e di cambiamento che noi gli auguriamo di cuore. Un particolare divertente e involontariamente umoristico ci è parso quel cartellino «attenti al cono» messo subito a destra dopo l’ingresso della galleria Il Ponte, di via di S. Ignazio, per evitare che l’acuminata punta di rame di una scultura possa far danni a chi si muove inavvertitamente; ma certo quest’effetto non l’ha cercato Pietro Finelli.

Alla galleria La Margherita di via Giulia sono esposte una sessantina di tavole di Gianfranco Baruchello, artista multimediale, nato a Livorno nel 1924, attivissimo tra le avanguardie intorno agli anni sessanta.
Difficile è dire cosa contengano le tavole esposte, accomunate dal titolo «Faraone dei sentimenti». Quello che si vede è una specie di geografia fatta di segni minuti e colorati, combinati con parole. A ben guardare si distinguono omini e montagne, grattacieli ed uccelli. Anche frammenti archeologici in un brulicante universo sconnesso, in una esplosione della mente che non ritrova punti cardinali. Il Grande Faraone è un rosso giubbotto attraversato da un bianco reticolo che parte da un cuore meccanico, gigantesco fantasma d’uomo, anch’esso circondato di piccole tracce. L’ultimo quadro di R.G. è il resoconto di un incubo, coi frammenti della Vucciria che schizzano all’intorno. Che sia scrittura, disegno, pittura o alchimia, la strada per la quale Baruchello cerca di raccontarci il suo mondo, l’impressione che dà è quella di una personalità dispersa che ha perso di vista anche il mondo.

38 – Dicembre ‘87

martedì, 1 dicembre 1987

Il libro di Elio Toaff, Perfidi giudei. Fratelli maggiori (Mondadori 1987, pagg. 249, Lit. 20.000) ha tre pregi fondamentali: il primo è quello letterario, il secondo è quello di superare il significato autobiografico e diventare un valido documento storico, il terzo è quello di offrire al lettore stimoli vivacissimi di riflessione. Dal punto di vista letterario Toaff si rivela uno scrittore sapiente ed efficace, disegna con tratti semplici e sicuri gli ultimi cinquant’anni di una vita tutt’ora protesa verso il futuro.
L’inizio è quello di un romanzo di memorie: malinconico e nostalgico..I fatti quotidiani, lo studio, le amicizie, le atmosfere, i turbamenti del giovane che si prepara a diventare rabbino e, fin da subito, qualche sapientissimo accenno alla bufera che sta per scatenarsi sul. mondo e sul popolo ebraico in particolare. Il lettore percepisce i primi segni dell’antisemitismo dapprima con stupore poi vi si trova coinvolto e partecipa dello sgomento di uomini e donne che vedono dall’oggi al domani la loro esistenza diventare sempre più precaria e sconvolta. Episodi minimi della vita di quei giorni sono narrati con tenerezza commovente e terribili vicende di violenza e di morte sono descritti con drammatica maestria, coinvolgendo il lettore fino allo spasimo. Eppure il racconto è sempre pacato perché in chi narra la fede in Dio è incrollabile. Si supera anche la tragedia della guerra mondiale e lo scrittore sapientemente riesce a comunicare le sue emozioni di fronte ad avvenimenti terribili o storicamente importanti Le atmosfere e i personaggi sono descritti con sobrietà, ma con vera astuzia teatrale. Ecco le pagine dedicate ai funerali del piccolo Stefano Taché, dopo l’esecrabile attentato alla Sinagoga, che raggiungono il massimo della potenza drammatica nella descrizione del silenzio addolorato di tutto un popolo: «.. ventimila persone attendevano in silenzio, un silenzio assoluto, irreale, impressionante. Dietro la piccola bara Pertini, cbe mi teneva sotto braccio (…). Quindi suonò lo Shofar, e il suono mistico strappò di nuovo le lacrime a tutti.» Con pochi efficacissimi tratti rende il mutamento d’animo di Giovanni Paolo II in visita al Tempio sapendone cogliere, al di là del ruolo, la profonda umanità. Dal punto di vista storico questo sarebbe un ottimo testo da mettere in mano ai ragazzi delle scuole, perché gli ultimi cinquant’anni della nostra storia, seppur visti da un’angolazione particolare, sono raccontati con chiarezza, senza faziosità, anche se con passione di parte.
Il terzo pregio del libro è di far riflettere chi lo legge: non solo perché riaccende un giusto sdegno che non dovrebbe mai essere sopito, ma anche perché pone sul tappeto problemi politici e teologici di grande portata. Il popolo ebraico dopo tante persecuzioni rivuole la terra dei padri per trovare finalmente una patria sicura. Questa esigenza crea problemi di politica internazionale soprattutto perché anche i Palestinesi rivendicano lo stesso diritto. È vero che, come dice Toaff, agli inizi gli ebrei avrebbero voluto comprare quella terra e non vi sono arrivati solo come quei brutali espropriatori che certa stampa di sinistra ha voluto additare al pubblico disprezzo; ed è anche giusto tenere presente che il terrorismo palestinese è stato anche sobillato da chi aveva interesse a strumentalizzarlo. Terrorismo arabo e imperialismo sionista ben poco hanno a che fare con il disegno di Dio e l’Antico Patto. Non siamo però d’accordo con Toaff quando dice: «..non è accettabile l’equazione ebraismo uguale Stato d’Israele, che coinvolge nella responsabilità di un governo, che può sbagliare anche eccedendo nella difesa degli interessi vitali del proprio Paese, tutto il popolo ebraico». ,Egli stesso in prima persona al tempo in cui guidava la comunità di Venezia, a suo stesso dire, si prodigò per l’invio di armi in Israele ed anzi si vanta: «Posso dire con un certo orgoglio che, forse, il primo carro armato all’esercito ebraico glielo procurai io». Gli ebrei di tutto il mondo che, come Toaff hanno scientemente e praticamente costruito lo Stato d’Israele non possono poi, come Pilato, lavarsi le mani e non sentirsi responsabili delle sue azioni. La rappresaglia barbarica contro qualunque comunità ebraica è comunque sempre da condannare anche se è la reazione contro azioni di guerra non sempre legittime dello Stato d’Israele. Quello del sionismo resta un problema irrisolto e scottante tanto che lo stesso Ben Gurion dové dire: «..oggi si può essere sionisti al massimo ventiquattro ore, il tempo di prendere un aereo e di raggiungere Gerusalemme». Dal punto di vista teologico noi riteniamo invece che le affermazioni di Toaff, per cui la Chiesa Cattolica dovrebbe riconoscere senza alcuna esitazione lo Stato d’Israele, sono quanto mai pertinenti. Egli è un sacerdote, profondo conoscitore dei sacri testi che esplicitamente sono anche quelli della chiesa, quindi ne consegue che il Sommo Pontefice romano non può che inchinarsi di fronte alla parola di Dio chiaramente pronunciata. Quella è la terra dei figli di Abramo, su quella terra Dio stesso li ha autorizzati ad abitare, se la cosa può avere contro-indicazioni di natura politica e umana resta comunque un comando divino per chi crede nell’Unico Dio.

38 – Dicembre ‘87

martedì, 1 dicembre 1987

Checchino dal 1887 in via Monte Testaccio 30, all’ex «mattatoio» è uno dei «santuari» della ristorazione romana e romanesca.
Un tempo qui vicino si macellavano le carni e per anni sono arrivati sui tavoli di questa cucina i più succulenti «quinti quarti» reperibili in città: code, interiora e frattaglie, elementi base di una saporitissima cucina popolare. Abbiamo voluto ristorarci prima che si concludessero le celebrazioni del «centenario» della casa, curiosi anche di constatare cosa eventualmente fosse cambiato. Se qualcosa è cambiato non è cambiato in meglio: col passare degli anni noi abbiamo registrato una lenta e progressiva decadenza della cucina, con la definitiva scomparsa di ogni sapidità, cosa che è la morte della tradizione romanesca, come di ogni tradizione. Abbiamo trovato accettabile un solo piatto: la testina di vitello, dolce profumata e croccante al punto giusto. Tutto il resto affondava nella nebbia dell’indistinto. Uno dei due Farfalloni ha scelto il «menù dei cent’anni», l’altro, insieme con il solito gruppetto di amici, ha scelto piatti della carta. A parte la sunnominata testina, abbiamo avuto per antipasto una insalata di zampi tiepidiccia e insapore, oltre che priva di sale, dei crostini misti al paté, alle olive e al carciofo: tre fette spesse di pane stantio, appena inumidite dalle tre acquose salsine. I primi piatti sono stati: una zuppa di fagioli sciatta, con un fondo amarognolo e slegata; rigatoni alla pagliata dolciastri; tonnarelli al sugo di coda rinsecchiti; tonnarelli ai porcini troppo asciutti tanto che il sugo non legava con la pasta; bucatini alla gricia ai quali il disarmonico condimento di guanciale e pecorino dava una sensazione di rancido. I secondi hanno mantenuto tristemente il livello di quanto li aveva preceduti: cervella e schienali al burro e salvia collosi e insapori; l’arrosto misto incartapecorito; la trippa alla romana fredda e con troppa mentuccia; l’abbacchio alla cacciatora era morbido ma troppo piccante (qualunque vivanda eccessivamente piccante perde ogni altro sapore); la coda alla vaccinara e le puntarelle erano invece mangiabili. Il pasto si è concluso col pecorino romano, la gorgonzola col miele e i gelati della Ninetta: il primo anodino tanto da non permettere la congruenza dell’abbinamento col buon marsala Vecchio Samperi, la seconda non era per niente cremosa ed era unita a un miele piatto e ad un mediocre marsala; le palline di gelato erano fin troppo casarecce. Un discorso va fatto sui vini, obbligati per chi sceglie il menù: un Crémant di Cramant Mumm che ci ha veramente sorpresi per l’assoluta assenza di profumo che, come tutti sanno, è una delle sue caratteristiche fondamentali (forse perché la bottiglia era aperta da troppo tempo?); il Marino Colle Picchioni dell’85 era dignitoso, sebbene ricordasse appena il profumo delle bacche e il sapore salmastro; non ci è piaciuto per niente il Chianti Rufina riserva dell’8l, solo vinoso. Il prezzo è risultato complessivamente abbastanza alto anche considerando che i bicchieri di vino previsti dal menù sono stati attinti alle bottiglie degli altri commensali (per distrazione).

38 – Dicembre ‘87

martedì, 1 dicembre 1987

Aspettando Godot di Samuel Beckett, scritto nel 1950 e andato in scena nel 1952 a Parigi, è un testo fondamentale per la storia del teatro del nostro secolo.
Di fronte ad un albero scheletrito, l’umanità gioca con la propria disperazione: due poveracci aspettano Godot, che arriverà sempre, forse, domani. La dinamica eterna del servo e del padrone che lottano fino a scannarsi si svolge ugualmente nello stesso spazio, vicino ad un albero che potrebbe proiettare l’ombra della croce. Godot è un padrone anche più padrone di tutti gli altri, probabilmente con una gran barba bianca e un triangolo a mo’ di berretto e parla soltanto attraverso il suo tenerissimo e terribile messaggero che può solo dire «sì» oppure «non so». Tutte le situazioni della vita umana sono rappresentate da cinque personaggi in un’atmosfera senza tempo. Disperazione, allegria, odio, amore, paura della morte e voglia di morire, su tutto stagna l’attesa, che opprime e schiaccia ma che sola dà significato alla vita. Assunti così impegnativi è quasi inevitabile che vengano rappresentati con pettoruta e tronfia magniloquenza e noi abbiamo assistito a decine di tali rappresentazioni stucchevoli nelle quali i sentenziosi profeti dell’assurdo si sentivano in diritto di imporre l’incomprensibilità e la noia distruggendo la ricchezza poetica di questo testo, ridotto così a melensa ripetizione di slogan pseudo-esistenzialistici. Non c’è nulla di assurdo in quest’opera possente di teatro, che è sbalorditivamente simile ad un’altra coeva opera teatrale, ugualmente a torto considerata «assurda», La cantatrice calva di E. Ionesco, appena un po’ più spigliata e scanzonata, ma non meno graffiante nella sua realistica bizzarria. Nella realizzazione andata in scena al Teatro Valle, Antonio Calenda ha scelto gli attori giusti per abbattere ogni apparato pseudo-intellettualistico con un risultato davvero eccezionale. Fiorenzo Fiorentini e Mario Scaccia, rispettivamente Estragone e Vladimiro, sono stati perfetti nella loro diversità e specularità: uomini e non simboli, ci hanno fatto partecipi delle loro gioie e dei loro dolori, delle loro illusioni e della loro meschinità. Più stralunato e chioccio, con l’efficacissima voce, Fiorenzo Fiorentini, perfidamente astuto e paurosamente debole, sotto l’ostentata prepotenza, Mario Scaccia. Entrambi sono stati capaci di recuperare a fianco della giusta drammaticità anche quel che altrettanto giustamente ci deve essere di umoristico e divertito. Cesare Gelli nelle vesti di Pozzo ha reso le sfumature contraddittorie del padrone tiranno e vittima, passando dall’impettito sussiego tonante della prima parte al pietoso e spregevole vittimismo dello sconfitto nella parte finale. Aldo Tarantino, il servo Lucky, ha costruito il personaggio con la precisissima cura di ogni gesto e di ogni smorfia ed ha saputo trovargli anche una voce che usciva da quel corpo, come scissa e irreale, quasi persona nella persona. Pietro De Vico, nelle sue due brevissime comparse, ci ha dato veri brividi di ammirata commozione. Germano Mazzocchetti ha affidato alla fisarmonica qualche manciata di note sparse qua e là, con buona efficacia. Le scene e costumi erano di Riccardo Berlingeri. Di Calenda notiamo come sia suscettibile di esiti diversi, anche eccellenti come in questo caso dove ha saputo amalgamare movimenti, parole e silenzi con estrema sapienza.

Pianola meccanica è il titolo dell’opera tratta da Cechov che Nikita Michalkov ha messo in scena all’Argentina rielaborando insieme con Aleksandr Adabascian Platonove alcuni racconti. Questo mastodontico spettacolo ci ha fatto pensare a quella montagna che, dopo tanti sforzi, partorì un topolino. Non si può dire che non si veda un lavoro quanto mai minuzioso e approfondito sia sui testi, sia sulle altre componenti dello spettacolo; ma il significato di questa scialba produzione teatrale è riassumibile in un gran dimenarsi sulla scena e un’immensa, ineffabile noia tra il pubblico degli spettatori. Non basta far muovere gli attori come se fossero pupazzi caricati a molla, per dare il senso della precisione e dell’accuratezza. Né basta costruire un immenso presepio con l’acqua vera e le colombe per sottolineare un’impressionante realismo; non basta neppure far ripetere monotonamente quattro concetti fondamentali della filosofia cechoviana, che diventano così vuote formulette, per simulare profondità. In tutto lo spettacolo l’amara e poetica concezione della vita e dell’arte di Cechov sono completamente e clamorosamente infrante, come spacca le orecchie l’incredibile boato di una pianola meccanica il cui suono è usato nei momenti più sbagliati, quasi l’intenzione del regista fosse solo quella di provocare un sussulto negli eventuali e probabili assonnati uditori. Il finale, con l’alba radiosa, è gratuito e fastidioso, più adatto a uno spettacolo di suono e luce che altro. La storia è quella vissuta nell’arco di ventiquattro ore dai personaggi che abitano dentro e ruotano intorno alla grande casa della campagna russa, tutti in qualche modo «tipici» e persino vieti, con le loro smanie e le loro piccinerie, con i loro pruriti pre-rivoluzionari e le loro passioni amorose mai limpide, con la meschinità dei servi e l’imbecillità dei padroni. Al centro di tutto e di tutti si pone il maestro Platonov con il velleitarismo degli intellettuali frustrati e
pigri, che per accidia non sono neppure capaci di darsi quella morte dietro cui sempre vanno belando. La bravura di tutti gli attori da sola ha cercato di rendere sopportabile un’impostazione registica inaccettabile; così i singoli personaggi pur nell’ovvietà delle situazioni, hanno di volta in volta brillato di spunti persino virtuosistici, come il Ghierasim di Franco Alpestre o il Sierghiej di Stefano Lescovelli e il Nicolaj di Arnaldo Ninchi, ai quali non sono stati inferiori Claudia Giannotti, Raimondo Penne, Leda Negroni, Pino Patti, Delia Boccardo, Alessandro Sperlì, Isa Gallinelli, Cosetta Coceanis e tutti gli altri. Per quanto riguarda Marcello Mastroianni, interprete del ruolo di Platonov, si può solo dire che ci ha delusi. La sua presenza scenica è indiscutibilmente efficace, ma quando apre bocca ottiene effetti soltanto ridicoli, quali che siano i sentimenti che intende esprimere, perché cadenza ogni frase con uguale ed esasperante monotona piattezza. Le musiche originali di Eduard Artiemiev non erano che una dolciastra e ripetitiva melodiuzza da night-club. Le scene di Yuri Kuper, i costumi di Carlo Diappi e le invadenti e mutanti luci di Gino Potini hanno avvolto il tutto in una confezione che più natalizia non si potrebbe.

Il Novecento attraverso i suoi poeti ha tentato tenacemente di distruggere la poesia come fatto artistico autonomo, abolendo tutte quelle caratteristiche che la rendevano riconoscibile come tale; ma, a dispetto dei poeti, la poesia è rimasta riconoscibilissima, anche nei suoi aspetti che banalmente si potrebbero dire formali. Né l’iconoclastia futurista, né i misteriosi grumi di parole dell’ermetismo sono riusciti a farle cambiare fisionomia. Tutto sommato, la poesia rimane, come essenza, un’arte dello spreco; che cioè continua ostinatamente, non sempre, ma per lo più, a non riempire le righe della pagina: questo è la poesia, il resto è arte. La parola della poesia non è soltanto parola e ben lo dimostra il bello spettacolo Poesia la vita che abbiamo visto al Teatro Quirino e che Vittorio Gassman ha montato, usando gli sprechi della versificazione e il loro richiamare altro da sé: gesto, suono, movimento, danza ed uno dei modi fondamentali di fruire la poesia: quello di continuare in un discorso che è dialogo con un ascoltatore. L’altro modo – lo diciamo tanto per dirlo – è quello esattamente opposto della lettura interiore e solitaria. Gassman costruisce un dialogo con lo spettatore che non si sente mai negato dal narcisismo dell’attore, come troppo spesso avviene in teatro. Una misuratissima pioggia di versi bagna gli spettatori: alcuni sublimi, possenti, altri teneri e disperati, alcuni anche decisamente brutti (o forse solo tali per noi); tutti raccontano però agli altri un po’ della vita: l’amore, la guerra, la morte. Gassman modula la sua voce bella e profonda dall’ampia gamma di registri con sottile sapienza, artigiano che si sa commuovere, ma che non dimentica mai di dover essere perché glielo ha imposto il cielo – un istrione. È inutile elencare i vari brani poetici: belli o brutti che siano i versi, si susseguono con ritmo impeccabile. E poi il «mattatore» dice anche garbatamente: «Ho voglia di fare pipì». E qualche volta ne ha voglia davvero. E l’intervallo trascorre gradevolmente con belle canzoni e un bicchiere di spumante. La comunicazione non si interrompe mai. Forse la poesia è solo dialogo e quindi non è vero quello che abbiamo prima detto che possa esistere una lettura solitaria; sempre è letta per qualcuno. Bellissima è la poesia anche quando la si legge «con» qualcuno ed ecco che i giovani della «bottega» entrano ed escono di scena cantando, ballando, suonando e recitando, dando col loro corpo concretezza alle parole, sorreggendo lo sforzo del maestro, aiutando l’amico e ricevendo ne il gesto o l’accento. Tutti molto preparati e capaci: Patrizia Carnebianca e Andrea Pini, con i loro movimenti coreografici, Giusi Cataldo con le sue canzoni, Guido Rigatti alla chitarra, Sergio Meogrossi e Giorgio Colangeli l’uno coi suoi pupi e l’altro nei suoi brevi passaggi. La musica di Fiorenzo Carpi, personalissima e di ottima fattura non era mai un orpello, ma senza strafare accompagnava, sottolineava, rivestiva i versi. La regia di Gassman si è avvalsa della collaborazione letteraria di Guido Davico Bonino. I costumi erano di Bruno Piattelli, le illustrazioni di Mario Ricci e le coreografie di Daniela Bonsch, aiutati da Elio Sanzogni e Patrizia Crea. Questo è un ottimo spettacolo che si beve d’un fiato, e che lascia contenti anche se non sempre i versi hanno parlato della felicità.

Purtroppo sulle nostre scene non è facile vedere rappresentati autori italiani contemporanei, e ancor meno autrici. Indubbiamente gioca anche lo snobismo e l’esterofilia della nostra cultura, che fa molta fatica a liberarsi del provincialismo di cui è, da sempre, malata. È anche vero però che la qualità dei testi lascia spesso a desiderare, in modo che si viene a creare il classico circolo vizioso da cui non si può uscire. Con estremo piacere e grande soddisfazione abbiamo visto al Teatro Tordinona una commedia di Luciana Luppi, intitolata Coabitazione. L’autrice dimostra un’autentica conoscenza dei meccanismi teatrali, forse anche perché ha alle spalle una lunga esperienza di attrice che le ha permesso di trovare una chiave di scrittura agile, spiritosa ed arguta. È un testo leggero, ma ben congegnato, di schietto umorismo. La «coabitazione» è quella forzata di quattro ragazze, due delle quali soltanto hanno deciso di convivere in una minuscola monocamera più servizi, e alle quali le altre due riescono, con petulanza o prepotenza, ad imporsi malgrado tutto. I quattro caratteri femminili sono ben differenziati, sia pur ricorrendo in modo un po’ esasperato alla caricatura:
Amelia è una nevrotica, grottescamente ossessiva, che inutilmente si dispera vedendo invasi i suoi spazi vitali; Zaira è l’amica intellettuale ed oziosa, che sputa sentenze estratte dal suo fumoso mondo di carta stampata. Tra le due si crea un gioco di contrappunto psicologico e teatrale, con un pregevole risultato satirico nei confronti dei luoghi comuni psicoanalitici più ridicoli. La prima intrusa ad irrompere sulla scena e nella vita delle due è la vistosa e chiassosa Greta dalle insaziabili voglie di sesso e di oriental misticismo; ad essa si aggiunge poi Dorotea, che balla e telefona con una disperata vitalità che il mondo continua a frustrare. Al quartetto femminile si viene ad aggiungere Dante, un virile deus ex machina al contrario, che, in fin di commedia arriva completo di sacco a pelo. Lo spettacolo è ben concertato dal regista Walter Manfré.
La stessa Luciana Luppi ha interpretato Amelia con ironia, ora tenera, ora brillante. Patrizia La Fonte ha fatto di Zaira un ritrattino gustoso, di zitella dal falso senso di superiorità. Franca Stoppi ha reso Greta efficacemente ingombrante, anche sottolineandone la fisicità e con una dizione meditatamente assurda. Marzia Musmeci nell’a solo al telefono di Dorotea è stata di un virtuosismo impareggiabile. Giustamente bambolo il Dante di Pietro Brambilla. Le scene ed i costumi erano di Alessandro Canu. Abbiamo particolarmente apprezzato il fatto che in un’opera scritta ed interpretata da donne, che si occupa dei problemi femminili, sia completamente assente ogni acida acrimonia pseudo-femminista!